Divenire comunità.
Comuni rurali, poteri locali, identità sociali e territoriali in Valtellina e nella montagna lombarda nel tardo medioevo

Milano, Edizioni Unicopli, 2006

INDICE

PRESENTAZIONE – English version

Il lavoro è dedicato alla Valtellina e – con un approccio comparativo – ad altre realtà delle Alpi e delle Prealpi lombarde. Esamina il periodo compreso tra l’inizio del Trecento e il pieno Cinquecento, corrispondente alla fine dell’età comunale e all’affermazione dello stato territoriale.
L’oggetto specifico dell’indagine è la comunità rurale: le sue istituzioni, le sue risorse, la sua élite, i suoi rapporti con i poteri signorili locali, con il comune cittadino e lo stato. Accanto ad essa sono considerati gli altri soggetti istituzionali e sociali attivi localmente con cui era in competizione e interagiva: le fazioni dei guelfi e dei ghibellini, i ceti dei nobili e dei cittadini, le parentele aggregate dalla discendenza patrilineare, i gruppi di vicinato.

La Parte prima del libro è dedicata al rapporto tra il comune rurale da un lato e i signori locali, con i loro seguiti di fedeli, dall’altro, e alla progressiva crisi dell’autorità signorile. In particolare in Valtellina, tra XV e XVI secolo, il comune impose la propria logica politica e il proprio linguaggio dell’identità sociale anche agli esponenti della maggiore aristocrazia locale. I signori, le cui prerogative giurisdizionali erano state ridimensionate già in età comunale, nello stato territoriale mantennero il proprio ruolo essenzialmente grazie alle funzioni di mediazione politica tra centro e periferia, svolte anche per conto dei loro antichi sudditi. Alla fine del medioevo, però, indeboliti economicamente, incalzati nel ruolo di mediatori dai maggiorenti delle comunità sempre più inclini a svincolarsi dalla tutela del loro patronato, emarginati dalla vita pubblica anche a causa del declassamento delle loro clientele, furono indotti a integrarsi, ora spontaneamente, ora invece loro malgrado, nell’istituzione comunale. Per la prima volta, abbandonando i tradizionali privilegi, si riconobbero «uomini del comune».
La Parte seconda esamina l’articolazione interna della comunità locale. Fino all’inizio del Trecento la società valtellinese si reggeva su una rigida segregazione degli ordini sociali (cittadini, nobili, rustici o vicini); il comune rurale era allora un’istituzione cetuale, in quanto organismo di autogoverno dei soli vicini. In seguito i nobili e i cittadini rinnovarono le forme della propria egemonia: rinunciarono alla separatezza fiscale e giurisdizionale dai vicini e si integrarono, accanto a questi ultimi, nel comune. Gli esiti furono, di luogo in luogo, diversi: in alcuni casi si stabilizzò una convivenza paritetica all’interno del comune tra i gruppi istituzionalizzati dei nobili e dei vicini; nelle realtà più dinamiche il rinnovamento della compagine nobiliare arrivò a volte fino alla completa dissoluzione degli ordini e alla formazione di nuove élites dall’origine composita. Allora, in analogia con quanto avveniva nelle città padane tra Quattro e Cinquecento, l’accesso ineguale alle cariche, le precedenze nominative, i titoli di dignità segnalarono famiglie e individui che, senza riproporre la rigidità dell’organizzazione giuridica degli ordini, rivendicavano ora la propria appartenenza ad una cerchia eccellente all’interno della comunità.
La Parte terza è dedicata al ruolo della parentela nel comune. Tra i secoli XII–XIV, nella montagna lombarda come in molte altre aree rurali, anche presso i ceti più umili la discendenza patrilineare divenne determinante nel contornare il gruppo di coloro che si riconoscevano come consanguinei. Quando questo gruppo acquisì un riconosciuto rilievo sociale e un’identità più stabile, manifestata dal cognome, si impose la valorizzazione pubblica delle agnazioni come unità di base della comunità, aventi diritto a spazi definiti nella spartizione delle cariche e nella formazione delle rappresentanze. In alcuni particolari contesti locali, alla fine del Trecento quest’affermazione mise in seria discussione il funzionamento unitario del comune (per quanto atteneva alle responsabilità fiscali e giudiziarie o al controllo delle risorse), che solo nel pieno Quattrocento poté ricostituirsi come quadro di sintesi istituzionale, ma a patto di funzionare come una sorta di federazione di parentele.
La Parte quarta è dedicata alla contrada o vicinato, unità di residenza sub–comunale che nel tardo medioevo acquisì corposità istituzionale, fino ad essere riconosciuta come un’altra delle cellule costitutive del comune. Come nel caso delle parentele, le contrade conseguirono diritti definiti nell’elezione dei rappresentanti del comune, ottennero l’assegnazione di quote determinate delle sue risorse, intervennero nella gestione delle chiese e così via.
La Parte quinta analizza l’inquadramento delle valli alpine nello stato territoriale e il ruolo cruciale ricoperto nei rapporti fra società locale e autorità centrali dalle comunità di valle, di lago e di pieve. Si trattava di coordinamenti di tipo federativo dei comuni rurali, con una propria vita assembleare e deliberativa, capaci di darsi statuti e di designare propri agenti: tali «comunità di comuni», come vengono identificate dalle fonti, entro l’inizio del Cinquecento sostituirono definitivamente i signori locali e le fazioni che essi capeggiavano nel ruolo di interlocutori del principe, nella rappresentanza del territorio e nell’assunzione di responsabilità di governo del «paese».
La Parte sesta, infine, ha inteso individuare i processi generalizzabili e per contro i motivi peculiari del caso studiato attraverso la comparazione della situazione valtellinese, sottoposta all’indagine più analitica, con le realtà vicine della Valcamonica, dell’Ossola Superiore, del Sottoceneri (Ticino meridionale), della pianura comasca e della città di Como.

Il mutamento complessivo che emerge in Valtellina, nell’arco di circa tre secoli, è il passaggio da una società organizzata soprattutto dalla fedeltà personale, da rapporti cliente/patrono, da vincoli di consanguineità, da identità di ceto, a una società in cui l’affiliazione politicamente più rilevante sarà l’appartenenza comunitaria, territoriale e locale. Una pluralità di ragioni – reperibili all’interno della società locale e nelle opzioni dei governanti – spiega questo processo.
La crisi politica ed economica della signoria rurale impedì agli esponenti della maggiore aristocrazia locale di tenere aggregati i loro seguiti personali, che vennero così identificandosi nella comunità rurale piuttosto che in una condivisa fedeltà al patrono.
Il ritrarsi dell’influenza urbana nel XV secolo dissolse il richiamo di lealtà che manteneva coesi e consapevoli della propria posizione i gruppi di cittadini comaschi residenti nel contado, indotti allora ad integrarsi nelle istituzioni dell’autogoverno locale.
Lo sviluppo economico e il ricambio sociale logorarono le rigide barriere tra gli status dei nobili, dei cittadini e dei vicini: molti esponenti delle nuove élites (tra cui erano artigiani, professionisti, immigrati di successo), non trovando facilmente posto nella tradizionale tripartizione degli ordini, si riconobbero nella nuova, più comprensiva, solidarietà comunitaria; pure gli antichi privilegiati si auto–identificarono preferibilmente come «nobili del comune», accettando di situare la loro eminenza entro una prioritaria appartenenza comunitaria.
Le pratiche della carità centrate sul vicinato o sul comune e le numerose fondazioni di nuove chiese concorsero allo sviluppo istituzionale di collettività che vedevano moltiplicarsi le loro mansioni, nella dotazione e dell’officiatura delle chiese e nelle distribuzioni rituali di cibo ai poveri.
Il potere pubblico, sia nell’età comunale sia in quella dello stato territoriale, preferì responsabilizzare comunità definite territorialmente per quanto riguardava le incombenze fiscali, militari e di mantenimento della pace, piuttosto che gruppi sociali di diversa fisionomia.
Per tutti questi motivi, ai molti protagonisti che nel XIV secolo potevano agire in modo indipendente ed efficace sulla scena politica (il comune rurale, i signori locali, le fazioni, gli ordini dei nobili e dei vicini, le parentele anche non aristocratiche, se particolarmente ramificate), si sostituì un sistema stratificato di comunità rurali più coese che nel XVI secolo venne a occupare lo spazio pubblico locale, da quello minimo della contrada a quello più esteso dell’università di valle. Le più antiche formazioni si eclissarono (è il caso degli schieramenti dei guelfi e dei ghibellini) o si situarono all’interno del comune rurale, come sua articolazione ulteriore e subordinata (è quanto avvenne per le parentele e i ceti).

Una prospettiva ampliata all’arco delle Alpi lombarde mostra come altre esperienze locali abbiano percorso diverse traiettorie.
In Valcamonica la potenza aristocratica rimase più salda e il dualismo comunità/nobili non fu stemperato dall’incorporazione dei secondi nella prima istituzione.
Nel Sottoceneri, nella pianura comasca e nell’Ossola Superiore la comunità rurale fu e anzi divenne più fragile nel basso medioevo. Sicché, in rapporto alle più labili forme organizzative degli uomini, nel Sottoceneri e in Ossola le fazioni conservarono un ruolo pubblico centrale. Nella pianura, invece, acquisirono visibilità soggetti di norma emarginati dalle istituzioni locali, come le donne e i giovani, capaci di assumere un più spiccato ruolo nei processi deliberativi della collettività.
La città di Como, infine, si presenta come un contenitore di esperienze associative assai ricche e irriducibili ad un unico codice di lealtà: il comune urbano, la comunità di quartiere, la fazione, l’universitas professionale, il ceto.

La trasformazione sociale focalizzata dalla ricerca si è svolta a diversi livelli, che hanno richiesto una corrispondente articolazione dell’analisi su differenti scale d’osservazione.
Vi è un piano istituzionale, approfondito grazie alle fonti normative e ai quadri più generali aperti sull’intera area valtellinese e alpina lombarda, soprattutto per quel che concerne le strutture del comune e i suoi rapporti con il potere pubblico.
Vi è poi un piano sociale: le pratiche matrimoniali, la geografia del possesso fondiario, la distribuzione della ricchezza, lo sviluppo artigianale, commerciale e finanziario dei centri maggiori delle valli. Tale livello d’analisi si è concretizzato nell’approccio analitico ad alcuni casi specifici, singoli comuni rurali ben documentati, in modo che – attraverso le fonti fiscali e notarili sopravvissute – fosse possibile ricostruire alcune configurazioni locali complessive e le connessioni tra mutamento politico e sociale.
Un altro piano è costituito dalle rappresentazioni sociali, cioè dalla riflessione sulle forme della convivenza che si è sviluppata in sede locale nel tardo medioevo. Tale indagine è stata resa possibile dall’analisi del linguaggio dei documenti (i distintivi di status, le formule notarili della rappresentanza e dell’azione collettiva, i criteri ordinativi degli elenchi nominali nei verbali dei consigli delle comunità).
L’ultimo piano è quello dell’auto–identificazione del singolo soggetto, particolarmente importante da approfondire nel caso di quegli individui che hanno ricoperto un ruolo decisivo nei rispettivi comuni, guidandone la politica. La ricostruzione di una serie di biografie, basate soprattutto sulla documentazione notarile e centrate sullo snodarsi dei cursus honorum e il ramificarsi delle reti di relazioni individuali, ha consentito di verificare un risvolto decisivo del processo di affermazione tardo–medievale del comune rurale, assumendo quest’ultimo non solo come istituzione capace di condizionare i comportamenti per così dire dall’esterno, ma anche come matrice dell’identità del singolo soggetto e come schema concettuale adottato dallo stesso per ordinare la propria azione politica.

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