Nel Quattrocento il linguaggio delle scritture e così le pratiche politiche dei corpi urbani e, con ancora maggiore determinazione, rurali di un dominio principesco, come quello sforzesco, si ispiravano a valori di impronta repubblicana: il mantenimento di estese competenze politiche da parte della totalità degli «uomini», cioè di coloro che la comunità annoverava fra i suoi membri dotati di pieni diritti, l’accesso alle cariche locali che non premiava e non fondava un potere di carattere personale, ma vedeva l’assegnazione temporanea di responsabilità giuridicamente delimitate ad esponenti dei vari segmenti sociali della popolazione – i gentiluomini come i popolari. Negli apparati di governo, per contro, era condivisa una sensibilità aristocratica meno rispettosa dei ruoli istituzionali e delle sedi decisionali formalmente istituite. Gli Sforza e il personale al loro servizio di norma non violavano le procedure consuetudinarie delle comunità; tuttavia tendevano chiaramente a distinguere, all’interno di un consiglio, i membri di estrazione nobiliare dai popolari, a riportare l’identità di ruolo alla qualità individuale e dunque a dissolvere una magistratura collegiale in un consesso di singoli gentiluomini o per contro a degradare l’azione di un politico di condizione non aristocratica alla presunzione di un villano (§ II).
La stessa dialettica si riproponeva per ciò che riguardava la relazione fra principe e sudditi. Questi ultimi agognavano ad un contatto diretto e immediato con il duca, cui tutti gli uomini della comunità, senza la mediazione di scritture e l’interposizione di magistrati, potessero aprire il proprio «animo». Gli Sforza, per contro, non acconsentirono mai se non a poche persone, preferibilmente di estrazione sociale elevata, di manifestare la volontà collettiva presso i governanti. Il compromesso, suggerito da una lunga sperimentazione anche in sede locale, fu trovato nella pratica di designare procuratori o ambasciatori che negoziassero per conto di vicini e concittadini nella capitale o presso gli uffici periferici. In questo modo, peraltro, accreditando presso il duca o smentendo i messi, la comunità si attribuiva una voce in quanto soggetto collettivo e faceva delle autorità statali le garanti del proprio profilo unitario, sollecitandone gli interventi di mediazione nei conflitti interni alla popolazione. Tuttavia le diverse premesse culturali disseminarono il rapporto fra poteri centrali e corpi locali di incomprensioni e tensioni: i secondi aspiravano a dilatare il numero dei componenti delle delegazioni, a restringere le facoltà decisionali loro commesse, a riservarsi tutto il tempo per costituirle e discuterne l’operato che le procedure definite dagli statuti e dalle consuetudini richiedevano; le prime desideravano trattare con gruppi ristretti, dotati di ampia capacità di decisione e di impegno, in modo che la diramazione dei comandi e l’esecuzione della volontà ducale avvenissero il più celermente possibile (§ III).
Soprattutto l’identità dell’ambasciatore o del procuratore ideale catalizzò i motivi di disaccordo. Per i sudditi era un membro, anonimo e spogliato di attributi di status, della comunità, dotato della credibilità e dei poteri che quest’ultima gli conferiva con un atto di sindacato o una commissione. A Milano, invece, si dava fiducia a gentiluomini ricchi e reputati, scelti dal principe e dagli ufficiali o anche dai consigli locali, ma in una logica opposta a quella del mandato: non sembrava tanto, al duca e al suo entourage, che la comunità potesse effettivamente selezionare le figure che ne assumevano la rappresentanza, bensì che i principali locali, forti del proprio ascendente personale semmai rivestito delle forme degli incarichi comunitari, guidassero suggestionabili e amorfe collettività. L’offuscamento delle istituzioni locali e l’enfasi sulla statura personale di pochi «migliori» appare costante nella corrispondenza degli Sforza e delle magistrature centrali, come anche di podestà, capitani e commissari che operavano nei diversi centri del dominio, guidati dalle precomprensioni derivanti dalla loro estrazione sociale, urbana e aristocratica, e disorientati dalla scarsa esperienza dei luoghi in cui prestavano servizio (§ IV).
Gli Sforza, i consigli milanesi, i feudatari e gli ufficiali periferici promossero politiche coerenti con la loro visione delle realtà locali: scelsero dall’alto i pochi principali che operassero e garantissero per le comunità o indussero queste ultime a designare persone gradite, li selezionarono – alla testa, accanto o al posto delle formazioni istituzionali – come interlocutori per tutto ciò che riguardava il governo del territorio, allo scopo di conseguire rapida e disciplinata esecuzione dei comandi. I corpi assecondarono in parte questi impulsi, soprattutto quando non confliggevano con le tradizioni politiche locali: affidarono compiti di rappresentanza alle figure socialmente più qualificate e ne accolsero il concorso, anche informale, alla vita pubblica. Tuttavia non rinunciarono a vincolarne l’autorità ai mandati conferiti dai consigli e dalle vicinanze, arrivando a sconfessarle quando esse disattesero alle commissioni ricevute. In determinate circostanze giunsero al conflitto aperto, allorché le comunità sostituirono quanti erano stati designati unilateralmente a rappresentarle dagli agenti statali o, alla presenza di questi ultimi, tutti i loro uomini, senza mediazioni, rimostrarono, minacciando di portare anche a corte la loro azione collettiva (§ V).
I popolari, penalizzati da un’eventuale alleanza fra stato ed élites, furono i più radicali difensori degli ideali per cui la guida della comunità e la comunicazione con il principe dovevano restare aperte a tutti i segmenti sociali. Anche i gruppi preminenti perlomeno dei borghi e delle terre, però, pure gratificati dal ruolo loro attribuito dall’alto e a volte interessati a nascondere la propria identità e i propri interessi dietro il nome della comunità e le procedure consuetudinarie, continuarono a mantenere ancorato saldamente il proprio potere al quadro istituzionale locale. Il linguaggio e le pratiche di tradizione comunale, dunque, continuarono lungo tutto il Quattrocento a legittimare il ruolo dei principali e a guidarne l’acculturazione politica (§ VI).
Intendo riservare ad un’ulteriore occasione la discussione circa i processi di costruzione della soggettività comunitaria, l’assimilazione fra la collettività intera, i suoi membri e i suoi rappresentanti proposta nelle lettere prodotte dalle istituzioni periferiche, nonché i fenomeni di individualizzazione e distinzione sociale promossi invece dallo stato, che ancora le fonti qui presentate consentono di approfondire [242]. In questa sede mi sono prefissato di considerare la documentazione soprattutto alla luce del rapporto di reciproca legittimazione che, con il consolidamento dello stato territoriale, si instaurò fra i poteri centrali e le élites locali.
Molti problemi, infatti, rimangono aperti. La storiografia ha in genere convenuto che le autorità statali abbiano indotto o perlomeno assecondato le chiusure oligarchiche verificatesi ai vertici delle comunità locali a partire dal tardo medioevo, stabilendo una duratura alleanza con i gruppi di mediatori che si costituirono e rafforzarono grazie al controllo – informale o garantito dal ruolo assunto nelle istituzioni rappresentative – della comunicazione politica interna ai regni e ai principati europei [243]. D’altro canto, non dovrebbero essere dimenticati gli interventi dei sovrani e delle magistrature centrali e periferiche che hanno conciliato i conflitti fra i detentori delle cariche municipali o delle funzioni di intermediazione politica e gli esclusi, salvaguardando a volte margini di apertura e mobilità sociale dai tentativi egemonici dei gruppi eminenti locali. Almeno per quanto concerne l’Italia basso–medievale, poi, l’interesse per l’occupazione dei vertici locali delle comunità ha nettamente prevalso su quello riservato ai mediatori con i poteri sovra–locali: l’accesso ai seggi consiliari, la trasmissione delle cariche, l’analisi prosopografica della composizione delle magistrature municipali sono stati oggetto di un’attenzione di cui certamente non ha goduto il profilo degli ambasciatori dei medesimi corpi politici. Per di più, dopo celebri monografie, proposte di sintesi e una ricca messe di contributi particolari, tale stagione di studi appare esaurita. In questo abbandono, forse, si è espressa l’insofferenza per i paradigmi, oggi ritenuti limitanti, che l’avevano ispirata negli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo: la crisi delle repubbliche cittadine, la fine dell’esperienza partecipativa comunale nelle «serrate patrizie», la connessa decadenza di una società italiana sclerotizzatasi [244]. Forse però, la discussione può essere riaperta da una rivisitata analisi delle pratiche politiche e dei linguaggi legittimanti.
Per ora, chiudendo queste pagine, mi pare sia lecito affermare che in Lombardia il dominio sforzesco favorì la selezione sociale del personale incaricato del governo locale e della rappresentanza dei sudditi. Ciò non significa che il potere centrale abbia indotto la costituzione di quei corpi chiusi di «patrizi», il cui peso è stato forse troppo enfatizzato dalle passate ricerche. Semmai, le autorità statali concorsero a promuovere, sul piano politico, sociale e culturale, il ruolo pubblico dell’individuo in quanto tale, qualificato dal rango, dal censo e dal «nome» non meno che dagli incarichi giuridicamente conferitigli da un’università In questo modo premiarono i membri delle élites urbane e dei maggiori centri del contado, spesso entro lo scheletro delle istituzioni comunali ma, quando queste ultime si mostrarono indocili o troppo condizionate dagli umori popolari, creando disinvoltamente circostanze di contatto diretto fra il principe, i suoi uomini e i singoli principali al di fuori delle sedi ufficiali della negoziazione politica. Al massimo, da Milano si contennero personalismi dagli esiti sociali laceranti o nicchie di potere informale in cui si alimentavano irregolarità finanziarie, abusi politici e disobbedienza.
Tale disegno, tuttavia, ebbe tenaci oppositori e sortì solo effetti parziali, in particolare nelle aree rurali e, forse più che altrove, nel settore settentrionale del dominio. Almeno nel contesto lariano e alpino, furono determinanti, nel contenere gli effetti della politica principesca, non tanto le remore legalistiche del regime, che pure non mancarono, ma la robustezza dei corpi territoriali, la fedeltà dei loro linguaggi ufficiali alla cultura di ascendenza comunale che ne informava pure i funzionamenti concreti, l’indisponibilità o l’incapacità delle élites locali a sganciare del tutto la loro autorità dai condizionamenti giuridico–politici di queste tradizioni.
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[242] M. DELLA MISERICORDIA, Principat, communauté et individu au bas Moyen Âge. Cultures politiques dans l’État de Milan, «Médiévales», 57 (2009), pp. 93–111.
[243] Cfr. gli elementi e la bibliografia già in DELLA MISERICORDIA, La «coda» dei gentiluomini; ID., Divenire comunità, pp. 103–142, 746–775.
[244] Sulla Lombardia è mancato un dibattito ricco come quello che ad es. ha interessato l’area veneta (M. DELLA MISERICORDIA, La Lombardia composita. Pluralismo politico–istituzionale e gruppi sociali nei secoli X–XVI (a proposito di una pubblicazione recente), «Archivio storico lombardo», CXXIV–CXXV (1998–1999), pp. 601–647, pp. 643–644), con gli interventi almeno di A. VENTURA, Nobiltà e popolo nella società veneta del Quattrocento e Cinquecento, Milano, Unicopli, 19932; ID., Introduzione, in Dentro lo «Stado Italico». Venezia e la Terraferma fra Quattro e Seicento, a cura di in G. CRACCO, M. KNAPTON, Trento, Gruppo culturale Civis–Biblioteca Cappuccini [1984], pp. 5–15, pp. 9–10; J. E. LAW, Venice and the ‘closing’ of the veronese constitution in 1405, «Studi Veneziani», nuova serie, I (1977), pp. 69–103; G. M. VARANINI, Note sui consigli civici veronesi (sec. XIV–XV). In margine ad una ricerca di J. E. Law, «Archivio veneto», CXII (1979), pp. 5–32; ID., Comuni cittadini e stato regionale. Ricerche sulla Terraferma veneta nel Quattrocento, Verona, Libreria editrice universitaria, 1992, pp. XLV, 187–188; ID., Nelle città della Marca Trevigiana: dalle fazioni al patriziato (secoli XIII–XIV), in Guelfi e ghibellini, pp. 563–602, pp. 590–596; J. S. GRUBB, Firstborn of Venice. Vicenza in the Early Renaissance State, Baltimore–London, The Johns Hopkins University Press, 1988, p. 85; P. LANARO SARTORI, Un’oligarchia urbana nel Cinquecento veneto. Istituzioni, economia, società, Torino, Giappichelli, 1992, pp. 11–15; M. KNAPTON, Nobiltà e popolo e un trentennio di storiografia veneta, «Nuova rivista storica», LXXXII (1998), pp. 167–192. Il quadro bibliografico generale di cui ho tenuto conto è quello già in DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità, pp. 371–372, n. 1, p. 800, n. 1. Oltre alle opere citate in quelle sedi, ricordo i contributi recenti di L. ARCANGELI, Milano durante le guerre d’Italia; EAD., Tra Milano e Roma: esperienze politiche nella Parma del primo Cinquecento, in Emilia e Marche nel Rinascimento. L’identità visiva della ‘periferia’, a cura di G. PERITI, Azzano S. Paolo (BG), Bolis, 2005, pp. 89–118; EAD., «Igne et ferro», pp. 400–407; M. GENTILE, Fazioni al governo, parte II; ID., Dal comune allo stato regionale: la vicenda politica (1311–1402), in Storia di Cremona, V, Il Trecento. Chiesa e cultura (VIII–XIV secolo), a cura di G. ANDENNA, Azzano S. Paolo (BG), Banca cremonese credito cooperativo, 2007, pp. 260–301; R. RAO, Il sistema politico pavese durante la signoria dei Beccaria (1315–1356). ‘Élite’ e pluralismo, «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen âge», 119 (2007), pp. 151–187; ID., Signorie cittadine e gruppi sociali in area padana fra Due e Trecento, «Società e storia», XXX (2007), pp. 673–706; STORTI STORCHI, Scritti sugli statuti lombardi, pp. 109–110, 258; A. GAMBERINI, Cremona nel Quattrocento: la vicenda politica e istituzionale, in Storia di Cremona, VI, Il Quattrocento. Cremona nel ducato di Milano (1395–1535), a cura di G. CHITTOLINI, Azzano S. Paolo (BG), Banca cremonese credito cooperativo, 2008, pp. 2–39; DEL TREDICI, Comunità, nobili e gentiluomini; M. DI TULLIO, La ricchezza delle comunità. Guerra e finanza alle frontiere dello stato di Milano: la Geradadda nel primo Cinquecento, tesi di dottorato di ricerca, Università commerciale «L. Bocconi», XXI ciclo, 2009, tutores M. Cattini, P. Lanaro, pp. 128–142. Per l’età successiva, v. E. COLOMBO, Il contado di Vigevano e la forza di una comunità. La provincia e Gambolò nel Seicento, Vigevano, Società storica vigevanese, 2005, pp. 57–85.