Numerosi indizi consentono di affermare che l’interpretazione più determinata dei valori di ascendenza repubblicana della partecipazione politica larga e dell’ammissione dell’intera popolazione al dialogo con il principe, almeno nella zona studiata, animavano i settori più umili della popolazione rurale. È del resto plausibile che proprio fra i meno coinvolti nelle ambascerie, fra coloro che restavano ai margini degli incontri informali fra gli ufficiali e i «migliori» delle città e delle terre, fosse più diffusa l’insofferenza per la mediazione dei principali e più radicata l’aspirazione ad un contatto diretto con i duchi. Altrimenti, specialmente nelle comunità divise da conflitti tra gentiluomini e popolari, i primi, grazie al favore loro accordato dagli ufficiali, avrebbero goduto del vantaggio di essere al contempo parte in causa e portavoce della popolazione nel suo complesso. Ad esempio, nel 1477 furono incaricati di fare luce sul contenzioso tra nobili e popolari accesosi a Bormio Carlo Cremona e il capitano di Valtellina Uberto Pusterla. Il primo scelse come interlocutori e identificò come attori in grado di promuovere la pace il podestà locale, gli ufficiali del comune e i gentiluomini stessi («ho parlato con il podestà et con questi zentilhomini particularmente e così con li officiali del comune»); il secondo, addirittura, non fece nemmeno ingresso nel borgo e si ritenne soddisfatto perché «già informato da dicti zentilhomini», che lo avevano pure messo in guardia circa il pericolo che la sua presenza riaccendesse gli animi [221].
Una vicenda ben documentata si presta in particolare a porre a confronto le aspirazioni radicali dei popolari con la politica degli Sforza, degli ufficiali e dei principali. L’onerosa costruzione delle mura di Tirano suscitò aspre tensioni fra gli abitanti della terra. I commissari incaricati della realizzazione dell’opera nel 1491 riferirono a Gian Galeazzo Maria Sforza di aver convocato gli uomini esortandoli perché si impegnassero a sostenere le spese dell’impresa. I gentiluomini avevano accettato l’ordine, i popolari invece avevano dissentito, proclamando «che per ognia modo volleno venire da la prefata v.S.» [222]. L’anno successivo gli uomini smentirono gli impegni assunti da quelli che ritennero solo «alchuni privati» e a maggioranza decisero di nuovo «de dovere venire uno per focho ad Milano per fare intendere la E.v. li soy gravezi». Il podestà Francesco Pasquali, inquieto per «tanti inconvenenti», volle che non partissero; invece impose a nove «zantilhomini», scelti da Milano, di recarsi dal primo segretario Bartolomeo Calco. Il più influente di loro, Luigi Quadrio, assunse una posizione intermedia tra quella del podestà e quella dei popolari. In primo luogo, infatti, tentò di riportare la nomina sua e degli altri otto, che era stata calata dall’alto e premiava la loro eminenza personale, all’interno delle procedure ordinarie della comunità: «ho voluto tractare insema cum il d. potestate nostro che tutti uniti facessemo amplo sindicato per venire ad fare debita caucione de quello richede v.E. da tuti li tiranesi». Tuttavia il tentativo di compromesso fallì per l’opposizione incontrata. A questo punto l’analisi del Quadrio e del Pasquali tese a convergere verso il più consueto repertorio della polemica antipopolare. I nove gentiluomini, con una sola eccezione, erano i più pronti all’obbedienza. L’anima dell’opposizione erano invece i popolari («sono però persone vulgare [...] et etiam una parte de li zentilhomini» secondo l’ufficiale), che agivano manipolati da pochi e la cui espressione politica era degradata a puro «tumulto».
In realtà i popolari, attingendo sempre alla tradizione comunale della rappresentanza, stavano solo cercando di definire un diverso rapporto con il principe, senza rimettersi alla mediazione degli ufficiali periferici e dei principali scelti da questi ultimi: prima vagheggiarono il proposito di inviare a Milano un uomo per famiglia, poi nominarono due ambasciatori. A questo punto il podestà si attribuì una vittoria minimale: si trattava di una delle persone designate da lui e una di gradimento degli oppositori. I popolari, però, coerenti con il proprio progetto, limitarono drasticamente le facoltà degli eletti, incaricati solo di manifestare le loro posizioni al principe. Il podestà lamentò: «non hano voluto constituire messo cum facultate de pottere promettere», come invece richiesto dal principe, «ma solummodo hanno deputati doy [...], qualli [...] debiano venire da la v.E. ad fare intendere a quella quanto è sua mente» [223].
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[221] ASMi, CS, 783, 1477.04.25; SCARAMELLINI, pp. 375–376, doc. 330.
[222] ASMi, CS, 1153, 1491.01.06; SCARAMELLINI, p. 401, doc. 378.
[223] Consentono una ricostruzione multi–prospettica dell’episodio le due relazioni del podestà (SCARAMELLINI, pp. 410–411, doc. 393; ASMi, CS, 1153, 1492.02.05) e quella di Luigi Quadrio (SCARAMELLINI, pp. 411–412, doc. 394).