VI. Popolari e principali nelle istituzioni locali

2. L’autocoscienza dei principali

Meno prevedibile è forse che, pure all’altro capo delle gerarchie sociali, gli stessi principali fossero poco propensi a sganciare la loro autorità dalla base comunitaria. Si è visto come altri potenti, detti pure «principali», ma costituenti una cerchia effettivamente superiore, come i capi–fazione e gli esponenti delle famiglie signorili locali, mostrassero considerazione per i consigli comunitari, per le decisioni assunte in quelle sedi, i ruoli lì istituiti, che peraltro contribuivano a delinearne la posizione di mediatori politici; erano insomma meno inclini degli stessi ufficiali sforzeschi a ridurre la politica locale ad una «compagnia» di gentiluomini. A maggior ragione gli esponenti delle minori élites di borghi e terre, acculturati alla vita pubblica nel quadro di una solida tradizione di valori e pratiche di matrice comunale, dovevano essere consapevoli dei rischi politici che avrebbero corso se privati del consenso dei loro vicini.

Tali gruppi, senz’altro, disponevano di molti canali per ottenere i propri obiettivi, anche alternativi o paralleli a quelli aperti da un’investitura comunitaria di particolari responsabilità, in primo luogo le relazioni d’amicizia e di consanguineità fra pari. Allo scopo di restaurare il potere dei feudatari Balbiani e di riconciliarli con i loro sudditi di Valchiavenna, che ne avevano ottenuto l’allontanamento, nel 1477 si adoperano alcuni influenti uomini del lago di Como e specialmente di Varenna, terra di cui i conti erano originari e dove contavano ancora su un sostegno largo. Giunsero così a Chiavenna questi «zentilhomini» che, notava il commissario Gian Giacomo Vismara, «però non havevano carta de procura da li soy comuni, ma como amici et begnivoli de li conti et de li homini de questa terra». Essi continuarono a seguire canali extra–istituzionali, aperti dalla solidarietà di ceto con le famiglie di Chiavenna e dai legami di affinità che la rinsaldavano: «dapoi andono a trovare li principalli zentilhomini de questa terra, con li quali sono in parentato» [224].

Ispirati poi dal proprio orgoglio di ceto e dal sistematico suggerimento dall’alto di un habitus, essi erano indotti ad assumere, come particolari, il patrocinio di esigenze locali, che non erano esclusivamente familiari o di parte, ma che si volevano collettive: ad esempio, nel 1471 «certi boni homini et de li megliori» di Corenno, Dervio e della montagna d’Introzzo chiesero in quanto tali la destinazione del nuovo ufficiale e lamentarono gli «excessi» degli «scoreti» [225].

A volte interpretarono ruoli e rapporti di potere in modo non diverso dagli ufficiali sforzeschi. Moschino Interiortoli, nobile valtellinese trasferitosi a Bormio, che invero, prima di trapiantarvisi, aveva conosciuto la realtà del borgo soprattutto in quanto podestà, vedeva i vertici della comunità occupati dai suoi «inimicissimi» personali, che abusavano della loro posizione istituzionale per accusarlo ingiustamente («alcuni de costoro per iniquità hanno deliberato de tractarme male per havere [per il fatto che hanno] offitii in questa terra»; «questo accade per ritrovarse in officii questi mei inimici in questo locho»; i «messi [...] nomine comunitatis» «sonno de quelli che me fano questa guerra») e propose al principe di accertare la verità sul suo conto «dalli valenthomini de questa tera et dalli circostanti» [226].

In altre circostanze, invece, la loro identificazione con le comunità è esplicita: si è già detto delle lettere inviate a Milano sottoscritte all’unisono dagli organi consiliari e da nobiles locali o comunque particolari di reputazione. A volte, spingendosi oltre, essi assunsero la parola per conto della comunità, le cui istituzioni restarono sullo sfondo. Frequente è poi nelle loro lettere la voluta incertezza fra la prima persona plurale, con cui si riferivano a se stessi, e la prima persona plurale, con cui venivano in sostanza a parlare per conto della collettività, ancora prescindendo eventualmente dalle procedure formalizzate del sindacato e delle investiture assembleari.

Ciò che più interessa in questa sede, però, è che i principali non manchino di manifestare un’immedesimazione piena nelle pratiche e nei modelli istituzionali locali, giungendo ad una sorta di nascondimento di sé. Nel 1477 la popolazione di Tirano e della giurisdizione si divise sul conto del candidato alla podesteria Mario Federici. Il duca incaricò il podestà di Bormio Francesco Creppa di raccogliere i pareri della popolazione [227]. Nonostante la lettera del duca non contenesse alcun indirizzo nel senso della selezione di un ristretto numero di «migliori», il Creppa si consultò solo con «li gentilhomini de Homodeo, de Venosta, de Lambertengis, de la Pergola et de Vallelevi, li quali sono de li principali de Tirano et sua iurisdictione de personi et seguitto» [228]. Effettivamente agirono per conto della comunità due esponenti delle parentele individuate come eccellenti dall’ufficiale, ma la rappresentazione della loro autorità mutava radicalmente nei documenti di emanazione comunale e, fatto ancora più significativo, di mano degli stessi principali. I comuni di Tirano, Lovero, Sernio, Stazzona e Cosseto presentavano Baldassarre de Valleve, un uomo impegnato pure in seguito in ambascerie a Milano e incarichi per conto degli abitanti di Tirano, come «nostro ambasatore», «ad plenum informato de le mente e oppinione nostra» [229]. Quando intervennero sulla stessa questione direttamente, Baldassarre de Valleve e Giovanni Omodei (altro esponente di spicco della società tiranese), si presentarono secondo modi più affini alla sensibilità degli uomini che a quella del podestà. Si definirono, infatti, «ambasiatori de li comuni et homini de Tirano, a sua [sic] nome et a nome del consulo seu degano de dicto loco et de la mazore parte de li homini», nel testo di una supplica che in cancelleria fu rubricata sul verso come «supplicatio nomine consulis Tirani» [230].

Un atteggiamento simile è rintracciabile nel mondo urbano. Nel 1468 il podestà di Como, ottemperando alle lettere ducali destinategli, incaricò due maggiorenti, non la comunità nel suo complesso, di eleggere tre rappresentanti del gruppo che avversava Battista de Violata come candidato alla prepositura della chiesa di S. Fedele, perché addivenissero, a Milano, alla composizione con la parte che sosteneva il sacerdote. Essi vi provvidero, ma la lettera che accompagnava i designati fu sottoscritta «melior et sanior pars parochie Sancti Fidelis Cumarum» [231].

Gli stessi consigli ristretti, che i podestà e i capitani sforzeschi assimilavano disinvoltamente a riunioni di gentiluomini, potevano rifiutarsi di procedere senza il parere delle assemblee più larghe. Il Consiglio ordinario di Bormio, ad esempio, sollecitato dal podestà a inviare a Milano due ambasciatori chiese una proroga, perché potesse essere convocato il Consiglio generale [232].

C’è da chiedersi, ovviamente, se non si tratti di una strategia: è plausibile che i principali fossero interessati non solo a spingere gli uomini a sostenere i fini politici che stavano loro a cuore, ma, almeno in determinate circostanze, a coprire la propria azione rivestendola dei caratteri dell’iniziativa comunitaria. Decisivi, allora, paiono i tentativi di tali maggiorenti di sottrarsi alle responsabilità che il centro addossava loro personalmente, per rimettersi alle decisioni delle assemblee comunali o perlomeno per rinegoziare la propria posizione con gli uomini in vece dei quali agivano. A Locarno nel 1468 i «primi de la tera» risposero al comando del commissario ducale perché munissero la rocca rinviando alla decisione del Consiglio generale [233].

Tali orientamenti rivelano chiaramente una sensibilità istituzionale diversa da quella degli ufficiali statali, soprattutto quando emergono in scritture e contatti riservati, circostanze che non dovrebbero attivare strategie volte a coprire strumentalmente il proprio ruolo oppure a legittimarlo di fronte al principe o alle comunità con il ricorso mimetico ai rispettivi linguaggi. Quando nel 1490 il podestà Gottardo Torgio, terminati i lavori del Consiglio generale, prese da parte i loro pari grado di Bormio per discutere confidenzialmente l’eventualità di una fortificazione del borgo («sono dopo stato in qualche rasonamenti cum alcuni di primi de questa terra»), che aveva taciuto all’assemblea, proprio gli interpellati rinviarono alla consultazione del consesso più largo («dicono non se pò concludere senza il Consilio generale»). Il principe e il Torgio, però, conservarono il convincimento che la questione fosse da affrontare in primo luogo con i «migliori»: il podestà, infatti, di nuovo eludendo la rappresentanza formale della comunità, scrisse una lettera, che includeva il tenore di una missiva di Ludovico il Moro, personalmente a Troilo Marioli e Battista Alberti, suoi luogotenenti e, l’anno precedente, ufficiali maggiori del comune in quota ai nobili. Anche i suoi interlocutori restarono fermi sulle loro posizioni: risposero per iscritto all’ufficiale che, per trattare la cosa, pur mantenendo segreto il loro incarico, avevano convocato il Consiglio generale che «è consueto ogni anno». In tale sede, in effetti, i due maggiorenti adoperarono la loro capacità di persuasione per soddisfarne le aspettative del signore di Milano, suscitando il favore generale: «fu proponuto questo fatto per Egano Grassono», ufficiale maggiore di parte nobiliare in carica, «deinde per noy con quello milior modo che sapessemo, adeo che ognuno era contento exequire». Non si deve pensare, tuttavia, che l’assemblea sia stata manovrata da pochi oratori influenti, secondo le logiche tanto spesso prefigurate dagli ufficiali sforzeschi, per piegarla ai disegni del potere centrale. Il consesso, infatti, conservò delle perplessità circa i costi troppo gravosi dell’impresa e i principali, quasi con un rovesciamento del loro ruolo, si fecero interpreti del volere del Consiglio, illustrandone le ragioni al podestà. Uno di loro venne anche inserito fra i «doy ellecti» (come si diceva in modo molto neutro), con il popolare Giacomo del Chiledo, anch’egli ufficiale maggiore nei mesi precedenti, per discuterne a Milano con lo Sforza [234].

Una rara corrispondenza intercorsa fra leaders politici del Lario consente di verificare tutto ciò alla luce dell’auto–rappresentazione di questo gruppo, offerta da un principale a un proprio pari. Essa svela come i «migliori» contassero sulla propria capacità di indirizzare la volontà degli uomini, ma avvertissero pure il peso della pressione esercitata dalle assemblee per spingerli ad impegnarsi a nome della collettività, cui talvolta addirittura cercavano di resistere, ma sempre con la consapevolezza che le aspirazioni espresse dai consigli non potevano essere deluse.

Gli ufficiali che operavano sul lago di Como convenivano nel riconoscere un ristretto novero di figure dotate di grande reputazione. Nel 1452 Giorgio Castelli d’Argegno e Giorgio Castelli di Menaggio erano «due homini da bene quanto dire se possa», secondo Tommaso Tebaldi da Bologna che li descriveva a Francesco Sforza come semi–onnipotenti, nel momento in cui li proponeva per la carica della canevaria del lago: «sono li principali, activi, forti, senza la cuy saputa e participatione non se poria fare cossa relevata su questo laco». Nella prospettiva di un altro commissario, un anno dopo, la cerchia di «quili che governano tuto questo lago» era appena più ampia: comprendeva ancora Giorgio Castelli di Menaggio e contemplava ora Giovanni Scannagatta di Dongo, Luigi Riva di Lenno, Giovanni Curtoni di Gravedona, Antonino della Porta di Domaso [235].

Non vi è dubbio che si trattasse di alcuni degli uomini che più spesso ricoprivano cariche nei loro comuni, li rappresentavano entro l’università del lago e operavano per la federazione nel suo complesso a Milano. Inoltre agivano in modo solidale, animati da spirito di corpo: ad esempio, al cospetto del capitano del lago Luigi Riva, agente per la pieve di Lenno, Giovanni Scannagatta per la pieve di Dongo, Antonio della Porta per la squadra di Domaso difesero la controversa elezione di Francio Castelli alla canevaria del lago [236].

Anche in questo caso, però, le scelte retoriche dei documenti di istituzione delle ambascerie sottolineavano in ogni modo la loro dipendenza dalla comunità [237]. Inoltre, ancora una volta, accanto ai principali compaiono regolarmente altri uomini con le stesse funzioni [238]. Quando poi i primi avessero scontentato la popolazione, il loro patrimonio di reputazione non sarebbe bastato a risparmiarli dalla generale riprovazione. Nel 1454, la «communitas et homines lacus Cumarum» comunicò al commissario incaricato di esigere una taglia la lista dei renitenti e riprovò la linea di Francio Castelli, che, in base al principio della responsabilità in solido, dicevano, «molesta nuy per quisti», finendo con l’incoraggiare pericolosamente l’atteggiamento dei «retrogadi» [239].

Come accennavo, specialmente un documento sembra consentire di andare decisamente oltre il gioco delle opposte rappresentazioni degli uomini e degli ufficiali sforzeschi. Nel 1459 Giorgio Castelli di Menaggio scrisse personalmente a Giorgio Sabadoni, in quel momento in missione a Milano per la comunità, circa le tensioni che la redazione del nuovo estimo stava suscitando. Il Castelli era sicuro dell’ascendente che godeva sugli uomini del lago, tanto da garantire che, seppur tergiversando, essi avrebbero pagato una somma che egli aveva stabilito corrispondessero («me delibaro che’l sia pagato»). Si presentava, pure con cautela, come capace di guidare l’elezione degli ambasciatori da inviare nella capitale («viderò che siati ellecto vuy per uno»). Tuttavia non riteneva che il Consiglio dell’università si sarebbe fatto condurre docilmente in qualsiasi direzione, per quanto riguardava la costituzione delle ambascerie e la linea politica da seguire. Lo stesso credito di cui godeva era spontaneo e superava le intenzioni dell’interessato, tanto che il maggiorente aveva dovuto declinare la proposta di recarsi lui direttamente al cospetto del principe («li voraveno pur che li vegnesse mi, ma non posso»). Inoltre egli scriveva del dibattito relativo alla questione più delicata – l’unione o la separazione delle responsabilità dei comuni del lago e di quelli della pianura comasca –, impiegando il verbo volere coniugato alla terza persona plurare («non li haveveno voluto consentire quisti nostri del laco a doverse imisgiarse con quili de le plebe de soto»), mostrando così di trovarsi di fronte a un’intenzione collettiva con una propria autonomia di espressione. Soprattutto, ricorrendo ancora una volta al verbo volere in terza persona plurale, prefigurava una vera e propria rivolta, qualora la risoluzione delle comunità lariane di non essere sottoposte ad estimo insieme alla pianura fosse stata disattesa: «più tosto li homini voleno habandonare el maiore cridore non fu mai sopra questo laco».

Insomma, una scrittura di carattere confidenziale e non ufficiale, nella quale, dunque, non intervenivano tutti quegli eventuali motivi di mistificazione della realtà che potevano condizionare la corrispondenza fra i principali e il duca (stornare sull’intera collettività responsabilità singolari o al contrario accreditare a Milano una maggiore autorevolezza personale) o le lettere sottoscritte dalle comunità, ma magari concepite da pochi «migliori», mostra chiaramente che il maggiorente del Lario, memore presumibilmente della contestazione che l’agnato Francio Castelli aveva subito pochi anni prima, quando aveva contrariato gli abitanti, non si sentiva abbastanza potente da trattenere la reazione degli uomini se fosse stata frustrata un’aspirazione molto sentita. La trama che i due principali stavano tessendo in quel momento, non a caso, consisteva semplicemente nel tentativo di anticipare i tempi del sindacato, con pressioni sull’uditore ducale che realizzassero le esigenze degli uomini, senza contemplare la possibilità di manipolarne la volontà politica, anzi assunta in toto dall’autore, con il passaggio alla prima persona plurale («lavorate con meser Angelo [da Rieti] e diciteli che questo non pò havere loco, che faciamo extimo con quili de soto che non son del laco») [240].

Infine, sempre allo scopo di ravvisare le specificità della cultura dei principali, possono essere preziose due cronache, attribuite a Nicola Laghi di Lugano e Stefano Merlo di Sondrio. Vissuti fra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, erano entrambi membri di élites borghigiane, privi di ascendenze signorili, qualificati dalla loro professione (medico il primo, che aveva proseguito l’attività del padre e dell’avo, ricco notaio il secondo), distaccati dalle lealtà di fazione. Ebbene, il loro ricordo delle lotte politiche che avevano vissuto nel Sottoceneri e in Valtellina non assegnava ai membri del ceto d’appartenenza quella preminenza di cui gli ufficiali li rivestivano.

Nel racconto steso dal Laghi in latino, la parola «nobilis» ricorre soprattutto come un indicatore di status e solo nella circostanza delle ostilità apertesi fra i ghibellini locali e i Sanseverino, feudatari di Val Lugano, viene attribuita a un gruppo di «nobiles», peraltro con il concorso del resto della fazione, la promozione di un’azione di carattere collettivo. Il termine «meliores» non ricorre mai nel testo. I principali vi agiscono in un solo passaggio, tuttavia accompagnati dai rappresentanti formali della comunità, allorché, nel 1499, i «procuratores et principales homines burgi Lugani» prestarono giuramento di fedeltà al re di Francia.

Nelle pagine del Merlo è ancora più marcata l’identificazione dell’autore con le istituzioni comunitarie, la cui iniziativa e la cui progettualità politica non sono mai ridotte alle strategie dei principali o dei «migliori». Tali parole non conoscono alcuna ricorrenza nella versione in volgare che ci è giunta del testo; non manca un riconoscimento di stima personale alle figure singolari di certi maggiorenti di Sondrio; i protagonisti dell’azione, però, sono gli uomini, che l’autore stima suoi pari («noi di Valtellina»), e le istituzioni (i comuni e le loro federazioni), non le élites locali [241].


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note

[224] ASMi, CS, 783, 1477.08.06.

[225] ASMi, CS, 782, 1471.02.21.

[226] Nell’ordine, ASMi, CS, 1157, 1497.04.23; ASMi, Comuni, Bormio, 12, 1497.05.21; ASMi, CS, 1156, 1494.01.14.

[227] ASMi, CS, 783, 1477.03.31.

[228] ASMi, Comuni, 12, Bormio, 1477.08.13.

[229] ASMi, CS, 783, 1477.03.18, 1477.09.14. Cfr. ASSBVT, Pergamene, 747, 1483.11.21; ASMi, CS, 784, 1483.12.24.

[230] ASMi, Comuni, 81, Tirano, 1477.01.23. Nel 1458 Giovanni era il primo elencato tra i convenuti in assemblea e l’unico fra loro cui fosse riconosciuto il titolo di dominus (Archivio Parrocchiale di Tirano, Pergamene, 111, 1458.08.01).

[231] ASMi, CS, 781, 1468.08.07.

[232] ASMi, CS, 1152, 1490.01.27. Cfr. GHINZONI, L’inquinto, pp. 507–9, doc. VIII; ARCANGELI, Milano durante le guerre d’Italia, p. 239, n. 59.

[233] TD, II/1, p. 642, doc. 773.

[234] SCARAMELLINI, p. 381, doc. 342, pp. 384–385, doc. 349. Cfr. Archivio storico del Comune di Bormio. Inventario d’archivio (1252–1797), Milano, Archidata, 1996, p. 15; ASCB, QC, 3, 1490.09.25, 1490.11.15.

[235] ASMi, CS, 718, 1452.01.16 e 26, 1453.06.11.

[236] ASMi, CS, 718, s.d. Cfr. TD, III/1, p. 354, doc. 382.

[237] L’università del lago, scrisse nel 1454, inviava a Milano Luigi Riva e Benedetto Curtoni come «oratori» che, al solito, meritavano «plena fede e credenza» perché agivano in vece degli uomini (ASMi, CS, 718, 1454.03.27). Più ampia, in effetti, fu la remissione delle comunità lariane all’azione di Giorgio Sabadoni qualche anno dopo: «havimo commisso plenamente a Georgio Sabadone nostro nuntio da fare e disfare e anche concludere come sarà iusto, e tuto ciò sarà fato e concluso per luy sarà ratto e firmo et etiam [...] se dignie v.i.S. [...] de dargli plena fede e credentia quanto a nuy stessi» (ASMi, CS, 720, 1462.04.10).

[238] ASMi, CS, 718, s.d.

[239] ASMi, CS, 718, 1454.03.21.

[240] ASMi, CS, 719, 1459.08.17.

[241] G. CHIESI, La cronaca di Lugano. 1466–1501. Edizione tradotta e commentata della cronaca di Nicolao Laghi, Bellinzona 1992 (dattiloscritto consultabile presso l’Archivio di Stato del Cantone Ticino, di futura pubblicazione), §§ I, LVI; Cronaca di Stefano del Merlo, a cura di U. CAVALLARI, B. LEONI, «Bollettino della Società storica valtellinese», 14 (1960), pp. 14–24. Cfr. DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità, pp. 175–176, 795–796, 922. Un’ulteriore testimonianza è in BESTA, Bormio antica e medioevale, p. 231