Se nelle occasioni appena considerate la tensione si sviluppò ed esaurì a livello locale, altre volte le comunità intervennero in modo più o meno esplicito a difesa delle logiche di conferimento dal basso dei poteri dei loro agenti, fino a sfidare i comandi del duca e attirare su di sé l’accusa di disobbedienza.
Innanzitutto era abituale una sorta di schermaglia verbale non dichiarata fra ufficiali e comunità nella denominazione della stessa persona. Ad esempio, nel 1493 Giovanni Beccaria, signore di Sondrio e commissario ducale, incaricò Serafino Quadrio, nobile valtellinese e podestà di Tirano, di convocare al cospetto di Gian Francesco Sanseverino il podestà di Bormio «con duy ho tri de li meliori de la terra», «a conferire de cosse dil stato». Di lì a una settimana, il podestà di Bormio Ercole del Maino scrisse al principe di aver inviato al Sanseverino «doy de li megliori de la terra». Il giorno dopo prese la parola anche il Consiglio del borgo, per presentare le stesse persone semplicemente come «alcuni di nostri» [210]. Nel 1468 il comune di Locarno designò una delegazione costituita da un nobile (Antonello Orelli) e un ignobile (Francesco del Prevosto). Così li presentò il commissario ducale: «viene da v.E. dui, tra li quali gli <è> Antonelo de Orelo»; la comunità scrisse in modo più equanime: «mandamo da S.v. el nobile Antonelo de Orello e Francisco del Prevosto» [211].
Alcuni episodi svelano chiaramente l’attrito fra le posizioni dei magistrati statali da un lato, i valori degli uomini e le pratiche istituzionali locali dall’altro. 1l 18 gennaio 1482 i «procuratores, consciliarii et universitas totius comunitatis Valli Lugani» presentarono al duca i loro «ambassiatori», con la solita formula che li subordinava nettamente alla volontà collettiva di cui si facevano interpreti («pregamo humelmente quella [Signoria] se degnia darge pyena fede de quanto ve dirano per nostra parte»). Fra l’altro, dovevano adoperarsi perché venisse sottoposto a giudizio il capitano di Lugano Pietro Vespucci, la cui condotta era censurata «unanimiter per la universitade de questa valle». Nel giro di pochi giorni la vertenza tra la popolazione e l’ufficiale si sviluppò anche in un’interpretazione opposta dei fatti e dei loro protagonisti. Il 22 gennaio una lettera sottoscritta di nuovo dai «procuratores et consiliarii totius comunitatis Vallis Lugani» ribadiva la riprovazione per il capitano di valle. Essa insisteva sul pieno accordo degli opposti schieramenti dei guelfi e dei ghibellini locali («hunanimiter tuti et l’una parte et l’altra») e sugli oltraggi patiti dalla «comunitade» nel suo complesso, chiedendo di accordare credito agli «ambassatori di questa comunitade», che nel testo rimanevano anonimi. Lo stesso giorno, invece, una lettera di Pietro Vespucci designava per nome i «procuratori di quella comunitade» (Francesco Rusca e Albertino Pocobelli), accusandoli di ogni scorrettezza e disobbedienza nei suoi confronti. Soprattutto invertiva il rapporto tra università e ambasciatori, visti ancora una volta non come i rappresentanti, ma come i sobillatori della popolazione, negando valore alla stessa istituzione formale del mandato («sotto il protesto de certo sindicato, qualle non è processo se non per subornatione lori verso il popullo, qualle non intende più ultra, comme popullo vulgare et grosso»). Nelle settimane successive l’ufficiale ripeté un’interpretazione riduttiva degli eventi, spiegando la violenta opposizione al suo operato come frutto della volontà di «tri overo quattro di questi homini» che andavano «subornando» gli altri. La potenza fascinatrice di queste tre o quattro persone, allora, che non erano signori locali o feudatari, ma nobili borghigiani di medio livello, doveva essere davvero eccezionale: quando giunse in valle il commissario ducale Giacomo da Seregno per indagare sui fatti e cercò come interlocutori i soli procuratori della comunità, si trovò di fronte 400 persone, di estrazione non così volgare, che contestavano l’opera del Vespucci («andai per parlare de novo con dicti procuratori et uscendo de la porta trova’ de le persone forse CCCC et più de li megliori de la terra et una con li procuratori») [212].
A volte i sudditi non si limitarono a tergiversare di fronte ai poteri centrali, a eludere le aspettative delle magistrature periferiche, a competere sul piano dell’elaborazione ideale, ma giunsero a manifestazioni di vera e propria opposizione politica o come tali condannate dalle autorità sforzesche.
L’ostinato rifiutato degli uomini di conferire prerogative estese agli agenti, che impegnassero le comunità secondo i desideri degli ufficiali e del principe, fu identificato con la disobbedienza. Nel 1497 Ambrogio Traversa, capitano di Domodossola, che aveva punito il comune di Montecrestese per aver dato ricetto a banditi ed esigeva il pagamento della condanna, considerò la cosa oltraggiosa della sua autorità e di quella ducale: «non veneteno cum alcuna concluxione né posanza de concludere mecho, et pare se faceno beffe d’epsa condempnatione» [213].
Un’analoga condanna colpì la renitenza dei sudditi a contenere le procedure di costituzione delle rappresentanze entro i tempi ristretti imposti dal principe e la loro fedeltà ai ritmi più lunghi che, al di là del deliberato obiettivo dilatorio di determinate mosse, aveva la provvisione frutto di una concertazione assembleare. Nel corso di una vicenda cui ho già accennato, Francesco Sforza dispose che gli uomini di Val Blenio eleggessero i procuratori in grado di stabilire un compromesso cruciale per la definizione dello status giurisdizionale della valle. Il duca intendeva rispettare le procedure comunitarie, purché tutto avvenisse in fretta («volimo et ve commandiamo che incontinenti, veduta la presente, debiati fare adunanza et consiglio fra voi et constituire uno sindico e più quale con pieno mandato, etiam ad obligandum, vegna qua da nuy senza dimora alcuna»). Dopo la prima ingiunzione del 7 novembre 1456, il duca constatò, il 27 dicembre, che gli uomini non avevano ancora adempiuto a nulla e impose loro il termine degli otto giorni dalla data della ricezione della lettera per la nomina dei procuratori. Il 15 gennaio dovette riscrivere alla comunità perché ai procuratori non era stato conferito il mandato ampio desiderato, cosa cui voleva procedessero «subito», una volta ricevuta la terza ingiunzione. Lo Sforza, per tutto questo, accusava i sudditi di avere «de nuy manco del debito reverentia», di fare «pocha stima [...] de nostre littere», ne censurava la «renitentia», li minacciava della «nostra desgratia» [214].
Inammissibile era pure che gli uomini respingessero la selezione dei loro rappresentanti operata dagli ufficiali statali. Nel corso della vicenda sopra ricordata, Ambrogio Traversa identificò alcuni principali di Montecrestese su cui premere per conseguire il pagamento della condanna: «ho mandato per 12 de li primi et li destenete». Si tratta di un numero già relativamente cospicuo di persone, che peraltro, prima di assumere qualsiasi impegno, ritennero di dover conferire con i loro vicini («loro me richesteno li volesse lassare ritornare a caxa ad parlare cum la vicinanza sua che me darebeno risposta il dì sequente»). L’assemblea del comune, però, sostituì quegli uomini, come se fossero stati propri agenti, inviando al capitano di Domodossola figure diverse da quelle scelte dall’ufficiale. Allo scopo di lagnarsi contro il «comandamento», il comune inviò a Milano anche dei «nuntii». Per tutto ciò Traversa denunciò il «dicto comune disobediente et rebello al mio ufficio» [215].
Soprattutto respingere il filtro costituito dalle ristrette delegazioni che gli Sforza e gli ufficiali imponevano agli uomini, tentare di allargare le possibilità di manifestare la propria volontà e di dialogare con il duca, avrebbe suscitato vivissimo allarme e ferma condanna.
Il semplice progetto di un largo coinvolgimento della popolazione appare di per sé potenzialmente minaccioso per la stabilità del regime [216]. Nel momento in cui Galeazzo Maria Sforza concesse in feudo la Val Lugano a Ugo Sanseverino, si costituirono due partiti di favorevoli e di contrari al signore. Gli ambasciatori dell’università non si vollero impegnare per tutti e proposero una consultazione degli uomini della giurisdizione. Coloro che intendevano ottemperare al comando del principe pensarono di adeguarsi anche alla prassi che ammetteva al dialogo con il duca delegazioni assai ristrette («volendo l’una parte solum fare convocare lo consule et uno homo per comune»), coloro che invece contestavano il feudatario coltivavano pure il disegno più radicale, cioè il coinvolgimento degli abitanti nel loro complesso («l’altra parte [...] volleva che tuti intendesseno la mente di v.S.») [217].
Un’espressione di malcontento portata in piazza sembra implicare da sola, anche se non interviene alcun atto di violenza, una sovversione dei rapporti d’autorità all’interno dello stato. Alla fine dell’agosto 1454 Virardo de Calabria, luogotenente del capitano di Valtellina, scrisse a Francesco Sforza di aver convocato quattro o cinque «sindici» dei comuni di Tresivio Monte e Piano, impegnati nella già menzionata causa contro i Quadrio per i diritti che entrambe le parti reclamavano sulle alpi. Ma «al termino ordinato venero circa duecento persone, secondo loro protestaveno, ne la casa de la residentia de l’officio». Egli, stando al suo racconto, ribadì più volte l’inopportunità di questo comportamento e l’intenzione di non trattare con una folla che doveva costituire la quasi totalità dei maschi adulti di quei comuni, ma con dei loro portavoce, mentre i suoi interlocutori riaffermarono programmaticamente il modo di espressione politica collettiva che stavano sperimentando. «Io per honestate gli feci dire che se partisero e lasaseno sey o dece de loro a dire la raxone sua; risposeno che non se volevano partire. [...] Honestamente e piacevolmente con buone parole li persuadete et confortargli che un’altra vuolta non venesero in questo modo, loro me rispuoseno che loro erano deliberati venire sempre in questo modo». Infine il luogotenente si rivolgeva al principe, «supplicando se digna comandarne se gli pare honesto che in questo modo vengano» [218]. Dopo qualche giorno venne la risposta del duca, che inasprì la condanna del gesto – si trattava di «insolentie», gli uomini avevano dimostrato «tanta presumptione» e dato un’«arogante resposta» –, assimilando di nuovo l’assunzione collettiva e diretta del ruolo di interlocutori dello stato alla disobbedienza («como se loro non havessero leze alchuna e non havessero superiore alchuno») [219].
Meritevole di repressione altrettanto dura veniva valutata anche la ricerca di un rapporto privo di filtri con il principe. Nel corso di un aspro contenzioso tra la popolazione e i conti di Chiavenna, il duca e la duchessa convocarono a Milano i feudatari Annibale e Antonio Balbiani e quattro rappresentanti della valle. Il commissario Gian Giacomo Vismara, in un primo momento, persuase la comunità a non ampliare numericamente la delegazione. Quando però seppero dell’intenzione dei Balbiani di esibire il proprio seguito a Milano, gli uomini della terra ritornarono sulla loro decisione, pensando, come già accennavo, di costituire un’ambasceria di più di cento persone. All’ufficiale il proposito sembrò non meno che una follia, cercò di impedire in ogni modo che essi si confrontassero con i feudatari pure sul piano dei numeri e alla fine acconsentì che inviassero 12 o 16 messi, precisando però che, se avesse avuto a disposizione la fanteria, non avrebbe esitato a usare la forza armata per fermarli [220].
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[210] ASMi, CS, 1156, 1493.08.09, 16 e 17. A proposito dello stesso inviato da Bormio, il medesimo giorno, il 17 giugno 1490, il podestà scrisse di aver guidato l’elezione del Consiglio maggiore su Battista Alberti, «homo prudente et di primi de la terra per nobiltà», che «ha assay credito iusta nobiles et populares» (SCARAMELLINI, doc. 344), la comunità si riferì semplicemente al proprio nunzio, al quale il principe «se degni prestargli quella plena fede che faria a noy proprii» (ASMi, CS, 1152, 1490.06.17).
[211] TD, II/1, pp. 643–644, docc. 773–774. Talvolta certamente anche gli ufficiali ducali lasciavano nell’anonimato le delegazioni: «sey de Sondrio», scrisse ad esempio il capitano di Valtellina nel 1493 (ASMi, CS, 1156, 1493.09.22).
[212] MOTTA, Guelfi e ghibellini, pp. 99–101, 155, doc. XI, p. 158, doc. XIII, pp. 163–164, doc. XVII.
[213] ASMi, CS, 1157, 1497.01.31.
[214] TD, I/2, pp. 74–75, doc. 723, pp. 78–79, doc. 729, p. 82, doc. 736.
[215] ASMi, CS, 1157, 1497.01.31, 1497.02.25, 1497.03.04.
[216] Cfr. M. BERENGO, L’Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevo ed Età moderna, Torino, Einaudi, 1999, pp. 73–82, 178–181; ARCANGELI, Milano durante le guerre d’Italia, pp. 250, 252, 262, n. 141; N. COVINI, «La balanza drita». Pratiche di governo, leggi e ordinamenti nel ducato sforzesco, Milano, F. Angeli, 2007, p. 141, nonché G. LEVI, Centro e periferia di uno Stato assoluto: tre saggi su Piemonte e Liguria in età moderna, Torino, Rosenberg & Sellier, 1985, pp. 186–187; H. RUDOLPH, «Rendersi degni della somma clemenza». Le suppliche della prima età moderna come strumento di interazione simbolica tra sudditi e autorità, in Suppliche e «gravamina», pp. 517–553, pp. 521–522, 533. In questo quadro situo pure la politica viscontea di riduzione dei numeri dei consigli urbani e rurali, su cui v. la bibliografia citata o richiamata alla n. [244].
[217] TD, II/3, pp. 580–581, doc. 2497.
[218] ASMi, CS, 718, 1454.08.22.
[219] ASMi, Missive, 25, f. 15r., 1454.09.04. Cfr. ancora ASMi, CS, 781, 1470.05.23.
[220] ASMi, CS, 783, 1477.07.08: «atrovay che dicti homini ereno venuti a Milano, pur niente de mene quisti de la terra deliberaveno de mandarghene una gran quantitade. Intendendo questo gli comanday che per niente non glie ne mandasseno più, he che’l bastaria haverghe mandato quilli che aveva comandato v.S., he così fezeno. Che acade quisti homini hano inteso che li suprascripti conti sono venuti da v.S. et hano menato con sy molte persone de la valle, haveno facto uno pensciere de venire da v.S. circha a numero de più de cento persone. Intendendo questo gli comandy, sotto la pena de la disgratia de v.S., che per niente non facesseno questa patìa. Noviter se sono ritornati da my, pregandome, attenduto la gente che ha menato via li dicti conti sego, li vollesse concedere che al mancho lori possesseno mandare da v.S. circha XII onvero XVI persone, per defendere lo honore suo, he dolendosse de my che l’altra volta, quando mandono da v.S. quilli quatro, non li volse dare licentia. Si che a my m’è parso de darghe licentia, maxime comprendendo che ereno inclinati ad ognia modo da venire da v.S., e certo se havesse hauto qualchi fanti foresterii non ge la averia data. Sapia prelibate v.S. se havesse saputo che li suprascripti conti havesseno menato tanta gente con sì, non gli haveria concesso più licentia a lori che a li dicti homini, bene he vero che’l conte Aniballo me disse che volleva menare sego certi che dareveno testimonio per lori». Cfr. MOTTA, Guelfi e ghibellini, pp. 178–179, doc. XXVI, p. 185, doc. XXIX.