Alcuni momenti d’incontro, però, non tolgono che la conciliazione fra le pratiche e le culture dello stato e delle comunità sia sempre rimasta esitante, soprattutto nel contado.
Ancora nel 1527 il Consiglio generale di Morbegno si mostrò molto incerto nell’assegnare ai principali la possibilità di affiancare nella gestione dei beni comuni i sindaci eletti: conferì a questi ultimi la facoltà di alienarli e di determinare le condizioni della cessione, purché prima consentissero ai «primates» di «partecipare» della decisione, ma secondo una modalità di convocazione – il suono della campana – che avrebbe alla fine consentito la partecipazione di tutta la popolazione, considerata effettivamente la soluzione ottimale [202].
Inoltre, se principale e ambasciatore potevano essere due modi diversi per chiamare la stessa persona, identificandone nel primo caso la condizione, nel secondo il ruolo, le comunità intesero soprattutto enfatizzare la seconda identità. A livello locale era viva la distinzione fra il singolo individuo, con i suoi personali attributi di prestigio, e la carica istituzionale che ricopriva nella circostanza. Ad esempio, i procuratori di Mandello contrapposero «li homini et procuratori di questa vostra terra», legittimi interpreti del volere comune, favorevoli al candidato alla podesteria, e «certi homeni di questa terra, sì como loro et non cum voluntade del Consilio et de li procuratori de esso comune», che lo avversavano. Nel racconto di un maggiorente locale, Filippo Florini, ufficiale maggiore di Bormio, rifiutò di aderire a una proposta sediziosa, «né como luy né como officiale della terra» [203].
Si soddisfacevano, allora, le aspettative del principe, inviandogli spesso gli individui di maggiore reputazione locale, però le credenziali non li presentavano altrimenti che come «nostri legati», agenti «nomine d’essa valle». Nelle rare lettere dei corpi in cui si accreditava esplicitamente l’ambasciatore anche in virtù delle sue nobili origini, poi, subito ci si affrettava a ricondurlo al suo profilo istituzionale, delineato da un mandato conferito dagli uomini, ricorrendo a tutte le formule, già esaminate, che enfatizzavano la precedenza della comunità e l’inclusione in essa pure del suo prestigioso membro. Quando nel 1462 si diffuse la falsa voce della morte di Francesco Sforza, gli uomini delle pievi di Dongo, Gravedona e Sorico, cioè il segmento settentrionale del Lago di Como, annunciarono alla duchessa e ai figli di aver designato, proprio per «offerrire ad esse v.S. la fidelitate nostra et bona dispositione erga statum vestrum», due «nobili homini»; il tenore del documento nel suo complesso, tuttavia, li situava all’interno della comunità (definendoli «nostri vicini») e li voleva esecutori di un mandato («habiamo deliberato mandare da le S.v.») e latori della lettera («exhibitori de le presente»), che parlavano per concessione degli uomini («a li quali habiamo concesso de dire alchune cosse ad esse v.S.), veri detentori della credibilità ad essi trasmessa («supplicando ad esse v.S. se digneno darghe piena fide ad quanto refferirano circa questo quanto a nuy stesi») [204]. Nel 1481 il comune di Tirano e il Terziere Superiore della Valtellina presentavano al duca «il nobelle» Luigi Quadrio di Ponte come «nostro syndicho», «per publica provixione deputato», «al quale pregamo v.E. li voglia dare piene fede como a nuy proprii» [205]. In ogni caso, i gentiluomini erano perlopiù accompagnati nella capitale da uomini di condizione inferiore, segno che le elezioni non erano guidate solo dal riconoscimento del loro ruolo singolare, ma pure dalla tradizione comunale di costituire rappresentanze calibrate, che affiancassero nobili e popolari.
Soprattutto, fin dal momento della designazione si contemplavano limitazioni che contenessero la personale volontà di potenza del principale [206]. Se poi questi, come chiunque altro, avesse tradito il mandato ricevuto (in caso di «legatione imperfecta», quando cioè non ne rispettava i tempi, non ne rendeva relazione o mancava gli obiettivi della sua «commissione») o avesse agito prescindendone, poteva essere sconfessato. Tornava un «particolare», una «singulare persona» che si muoveva a nome proprio, non autorizzata né a contrarre obblighi, né a prendere la parola per i suoi vicini. Fra gli altri, un attivo e influente politico locale, il notaio Giovanni detto Vanetto de Codeborgo di Bellinzona, fu spogliato di ogni facoltà di operare per la collettività e sostituito, come procuratore, per aver agito «a capite suo et non nomine dicti communis» [207]. Il Consiglio generale di Valtellina stabilì che il maggiorente Stefano Omodei di Sernio, partito per la capitale senza attenersi strettamente ai termini temporali impostigli nel mandato, «ivit Mediolanum de suo capite», non riconobbe la sua «deputatio et constitutio» e gli negò il compenso [208].
Forti di queste armi concettuali, le comunità riuscirono a non rimettere ai loro principali un’autonoma e «naturale» capacità di assumerne la rappresentanza. Addirittura gli uomini di Tirano chiesero che Mario Federici, uomo influente, ma interprete nel 1477 di una volontà minoritaria circa la destinazione della podesteria della terra, non fosse nemmeno ricevuto da Gian Galeazzo Maria Sforza [209].
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[202] ASSo, AN, 670, 423r.–v., 1527.01.13: «dummodo prius participantes etc. cum tota universitas Morbenii seu saltem aliquibus ex hominibus primatibus dictorum communis et hominum Morbenii, pulsata tamen prius campana more solito ad hoc ut possit conveniri dicta tota universitas».
[203] Nell’ordine, ASMi, CS, 783, 1477.11.10; 1156, 1493.09.06. Cfr. DE BENEDICTIS, Retorica e politica, p. 429; EAD., Una guerra d’Italia, p. 141.
[204] ASMi, CS, 720, 1462.01.03. Ancora, nel 1455 Bormio chiese al duca udienza per Francio Alberti, esponente della maggiore parentela del borgo, «e soy compagni», che restavano anonimi, ricorrendo ad un accorgimento gerachizzante tipico delle scritture degli ufficiali, ma presentando tutti come «nostri ambasiatori» (ASMi, CS, 719, 1455.02.19).
[205] ASMi, CS, 784, 1481.06.20. Cfr. ASMi, CS, 1152, 1490.03.01. Il comune di Mandello nel 1490 elesse sì tre «nobili» da inviare a Milano, ma pregò il principe di «dare plena fede» ad essi «non altramente che se nuy proprii dicessemo et fussemo a le presentie de quelle» (ASMi, Comuni, 42, Mandello, 1490.12.04).
[206] In una fase di particolare turbolenza politica, il Consiglio generale di Valcamonica (terra, come si è detto, dalle tradizioni sociali e istituzionali simili a quelle delle valli che stiamo considerando, poi aggregata al dominio veneziano di Terraferma) incaricò della dedizione all’imperatore tre esponenti della potente parentela dei Federici, ma dal momento che essi avevano dichiarato di non rinunciare al riconoscimento dei loro privilegi, si prescrisse loro «quod non petant nomine vallis nisi quod fuerit in honorem et utilitatem totius universitatis Valliscamonice» e che a titolo personale «non possint petere quicquid sit contra honorem et utilitatem totius communitatis Valliscamonice» (Comune di Breno, Carte Putelli, Registri, 2, ff. 207v.–209r., 1509.05.22).
[207] CHIESI, p. 58, doc. 586. Sulla sua carriera, cfr. ivi; ID., Bellinzona ducale; TD, ad indicem; sulla normativa in merito, Archivio di Stato del Cantone Ticino, Fondo Pometta, Statuta communis Berinzone, ff. 29v.–30r., cap. CXXIIII.
[208] SCARAMELLINI, p. 416, doc. 400; DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità, pp. 137, 559–560, nonché ASMi, CS, 783, 1475.08.30; 718, 1482.04.04. Cfr. MARAVALL, Stato moderno, p. 431; D. OLIVERO COLOMBO, Mercanti e popolari nella Vigevano del primo Cinquecento (1536–1550), «Rivista storica italiana», LXXXV (1973), pp. 114–166, pp. 143–144; A. AIRÒ, La scrittura delle regole. Politica e istituzioni a Taranto nel Quattrocento, tesi di dottorato di ricerca, Università degli studi di Firenze, 2003, p. 190.
[209] ASMi, CS, 783, 1477.03.18.