La risposta all’opzione politica del principe e degli ufficiali assunse una varietà di sfumature: il campo culturale comunitario e quello statale non erano mutuamente esclusivi, comunicavano fittamente, sicché la selezione degli interlocutori che i governanti operavano condizionò parzialmente i corpi territoriali.
La capacità degli orientamenti centrali di penetrare nel tessuto politico–culturale locale, avviando esperienze di ibridazione, è testimoniata dalle scritture di notai e cancellieri, che tramandavano modelli documentari codificati per trascrivere le azioni compiute a nome della comunità e che, in particolari circostanze, piegarono i propri formulari per registrare le procedure innovative volute dagli ufficiali ducali.
Nella prassi notarile locale, il verbale del «conscilium et tota vicinanzia» include sempre l’elenco completo degli intervenuti. Quando però nel 1466 i comuni di Tresivio Piano e di Tresivio Monte rinunciarono ad un’investitura dei pascoli che avevano conteso tenacemente alla famiglia Quadrio, il notaio adottò una soluzione assai insolita, che gerarchizzava tacitamente i presenti: elencò nominalmente 30 intervenuti e lasciò anonime le «alie persone vero cum suprascriptis circha LXXXX unsque in centum personarum, qui omnes superius nominati et alii qui cum eis erant sunt ex communibus [...] Trixivii Plani et Trixivii Montis», che agirono tutti «pro se et nomine aliarum personarum de dictis communibus». Non si può escludere che egli sia stato condizionato dalla presenza, anch’essa assai insolita ad una vicinanza, del commissario milanese: questi, infatti, aveva convocato gli uomini per domandare loro di pervenire alla refuta. Lo sguardo con cui gli ufficiali sforzeschi enucleavano, all’interno dei consigli larghi, le sole presenze più qualificate e addirittura il vivo fastidio che provavano nel rivolgersi a segmenti troppo estesi della popolazione, potrebbero aver indotto l’estensore dell’atto a trascurare l’identificazione della larga maggioranza dei presenti [184].
In qualche caso si è conservata sia la corrispondenza dell’ufficiale, nello schietto linguaggio del Carteggio sforzesco, sia la documentazione notarile o cancelleresca, che traduce, con molte incertezze, la stessa opzione politica nelle forme scrittorie più rigide di quella tradizione. Alla fine di giugno del 1452 Luigi de Berziis, podestà di Morbegno, ricevette da Francesco Sforza le istruzioni per impegnare gli abitanti della sua giurisdizione (che dal capoluogo si estendeva alla bassa Valtellina e comprendeva la Valle del Bitto e la Val Tartano) a non esportare merci di contrabbando. Sollecito, «manday uno de li mei a comandare il Conscilio et a XV de li meliori [di questa terra] che se trovava esser a caxa [...], et finalmente a tute le comune de la Val del Bito li quali l’altro dì sequento foreno tute dinanti a mi, li quali ho fato dar securtà»; la stessa promessa pretese «per li maystri che fano il formagio sopra li monti che sono vicini et parte stano de compagnia le bestiame». A Morbegno, insomma, l’ufficiale aveva inteso vincolare, oltre a quanti rappresentavano ufficialmente i loro vicini, anche alcune figure che spiccavano per la loro reputazione personale, in Valle dei Bitto si era rivolto in primo luogo a «tute le comune», come se in quei più piccoli villaggi di montagna fosse risultato più difficile individuare con altrettanta immediatezza i gruppi eminenti. Aveva poi coinvolto una categoria professionale, quella dei casari, che d’estate abitava il territorio, alle quote più elevate, ma non era ben inquadrabile nella maglia istituzionale che ne organizzava la rappresentanza. Significativamente i corrispondenti atti notarili rivelano alcuni scarti rispetto all’usuale prassi documentaria. Purtroppo non si è conservato, accanto agli altri, l’atto relativo a Morbegno. Invece sono attestate, nei giorni 20, 21 e 22, le garanzie prestate per conto dei comuni di Bema, Gerola, Rasura e Pedesina (Valle del Bitto), Cosio e della località di Tartano. In primo luogo, a contrarlo non furono i consoli, i consiglieri, né i messi, procuratori o sindaci designati allo scopo dal basso, ma i «convocati» per «preceptum et impoxitio» del podestà. Inoltre quest’ultimo agì con un certo arbitrio rispetto alle formazioni istituzionali (i comuni rurali), sperimentando quadri di responsabilità in solido alternativi e più liberamente plasmati. Nel caso di Gerola, infatti, l’obbligo fu contratto dai precettati dall’ufficiale dapprima, come testimonia un abbozzo dell’atto notarile, per le rispettive parentele, poi, nell’elaborazione finale del documento stesso, a nome del comune nel suo complesso; nel caso di Tartano, per i propri agnati ed altri individui singolarmente nominati. In più, l’impegno degli abitanti di Tartano unificava i due spezzoni del territorio istituzionalmente separati, la contrada di Tartano del comune di Talamona e la squadra di Tartano del comune di Ardenno, mentre non includeva due linee della maggiore famiglia locale (i Fondrini). Infine, gli stessi uomini di Tartano dovevano indurre i casari attivi nel loro territorio a presentarsi al cospetto dell’ufficiale [185].
Nel 1490 Ottobono Schiffi, podestà di Bormio, scrisse a Milano di aver ricevuto le lettere ducali in cui si disponeva l’invio di «duy de li principali de questa terra» e diligentemente comandato «a li consileri» la designazione de «li duy principali». Il relativo verbale registra come l’ufficiale «presentavit unam litteram ducalem in Consillio communis», ordinando l’elezione di «duo principales huius terre Burmii qui debent ire Mediolanum in execusitione (sic) litterarum ducalium». Sembra, nella circostanza, di poter seguire effettivamente l’itinerario di un vocabolo altrimenti del tutto estraneo al linguaggio corrente di questi registri, dalla scrittura della cancelleria ducale all’oratoria del podestà fino al quaternus del comune di Bormio [186].
A livello locale, peraltro, non si verificò una mera ricezione di impulsi provenienti dall’alto, dal momento che anche in periferia vi erano solide tradizioni di selezione sociale di coloro che rappresentavano la comunità. In primo luogo quelli che operavano fuori dai suoi confini erano spesso, già nel XIV secolo, di ascendenza nobile o comunque di estrazione più elevata rispetto agli ufficiali e agli altri agenti designati dagli uomini [187]. In continuità con la consuetudine e al contempo sapendo di accondiscendere ad una delle attese degli Sforza, le istituzioni territoriali inviavano come ambasciatori a Milano «nobili» o «zentilhomini di nostri» e, pure saltuariamente, come tali li presentavano nelle credenziali [188]. Tale filtro operava a maggior ragione quando si trattava di scegliere figure in grado di offrire coperture di carattere economico: gli uomini di Sonvico, proclamando la loro fedeltà al principe, si dissero disposti a corrispondere una garanzia in denaro e a «deponere ostagii de li megliori de loro» [189].
Anche gli incaricati di compiti da svolgere all’interno del comune erano scelti, a volte, in base alla loro condizione personale. Con un formulario già in uso nel XIII secolo, quando nel corso di una causa venissero disputati beni immobili, il giudice addossava ai vicini del comune nel territorio del quale erano ubicati i fondi la responsabilità di fornire una descrizione analitica dell’oggetto del contendere e, nello specifico, di incaricarne gli antiquiores e meliores homines del luogo [190]. Trasmesse ai precetti degli ufficiali viscontei e sforzeschi, recepite dai documenti delle comunità che vi ottemperavano, queste qualità divennero attribuzioni abituali di tali incaricati. Anche gli statuti di Val Lugano (1441) prescrivevano ai comuni della giurisdizione di designare – a richiesta degli interessati – «quatuor aut plures homines de melioribus ex vicinis suis et antiquioribus et fide dignioribus» – sempre per la descrizione degli immobili nel loro territorio. Nel 1438 a Poschiavo un inventario delle proprietà delle chiese fu commesso a dei «nobiles et providi viri» [191]. Pure altre magistrature vennero connesse ad un’idea di distinzione. All’inizio del Cinquecento, il cancelliere del comune attribuiva la qualifica di nobiles, a prescindere dall’estrazione del singolo, ai quattro sindaci che governavano Morbegno [192]. Soprattutto gli organi di vertice della città erano inclini a qualificare i propri agenti anche rendendo esplicita la loro eccellenza personale. I sapienti di Provvisione di Como scrissero, circa la costituzione del comitato che affrontasse i problemi idraulici posti dal Lario: «nuy per parte de questa comunità ne ellegessimo quatro de li principali citadini» [193].
Si è detto poi che in città e, meno spesso, nel contado alcuni additi o adiecti, uomini di singolare autorevolezza, anche senza ricoprire alcun ufficio, affiancavano i consigli locali, soprattutto quando questi organi fossero posti di fronte a decisioni impegnative. Gli uomini degli Sforza non avevano difficoltà a leggere questo affiancamento, così vicino al modello che veniva suggerito dal centro, nei termini di un’endiadi: «li consuli da Porleza e [...] XII di megliori», «questi zentilhomini et comunitade» [194]. I documenti nati all’interno delle comunità non sono dissonanti. Secondo i registri di provvisioni di Bellinzona, ad esempio, le misure contro la peste del 1485 furono assunte dal Consiglio con il concorso di alcuni «nobiles» [195]. A Delebio l’enfiteusi di un terreno fu disposta da tre sindaci eletti dalla vicinanza e tre «ex melioribus dictorum communis et hominum» [196]. Nelle lettere rivolte al duca singoli individui influenti, ma privi, nella circostanza, di incarichi istituzionali, comparivano, invero non molto di frequente, nelle sottoscrizioni, accanto al comune e le sue magistrature, con il loro nome («consul et consiliares communis Varene deputati ad gubernationem ipsius communis, nec non Georgius Maza et Donatus de Marliano») [197] o con una più generica qualifica di status (due testi che, lo stesso giorno, comunicavano a Milano la medesima decisione del Consiglio generale di Chiavenna vennero firmati «consul, commune et homines de Clavena» e «consul et consiliarii ac nobilles terre Clavene») [198].
Le comunità, inoltre, accettarono di considerarsi vincolate dagli «ordeni et sacramenti dati ad tuti li principali de la terra», piuttosto che ai consigli e ai loro ambasciatori [199].
In particolare nelle occasioni di conflitto, infine, l’auto–identificazione con il gruppo di estrazione più elevata offrì importanti risorse di legittimità ai partiti interni alla comunità. L’autorevolezza delle opinioni che si enunciavano e la correttezza dell’azione svolta per conto della collettività potevano essere fatte poggiare, insomma, oltre che sui valori della tradizione comunale (come la procura conferita a maggioranza), anche sulla dignità personale di chi operava. Quando i comuni membri della giurisdizione si divisero sul conto di un candidato alla podesteria di Morbegno, la lettera che si esprimeva contro l’aspirante Gian Loterio Luini affermava di interpretare l’opinione, fra gli altri, di «alchuni di gentilhomini et principali» di Morbegno, un modo per tacere l’imbarazzo di non aver incontrato il favore del comune nel suo complesso. Essa, inoltre, era sottoscritta da cinque «ex melioribus [...] communis Tallamone», dal console di Gerola e tre uomini privi di incarichi ufficiali, detti tutti «quatuor ex melioribus communis Gerole», cui si aggiungevano un sindaco e un altro abitante dello stesso luogo [200]. In una fase di netta contrapposizione tra nobili e popolari, i «pressidentes et deputati ad regimen et negocia tocius communitatis Burmii» si autodefinirono, nel testo della lettera che sottoscrivevano con quella formula istituzionale, «noy gentilhomeni», confortando l’interpretazione cetuale della composizione degli organi deliberativi locali proposta insistentemente dagli ufficiali sforzeschi [201].
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[184] ASSo, AN, 295, f. 307r.–v., 1466.03.02.
[185] ASSo, AN, 181, ff. 409r.– 412r., 1452.06.20–22; ASMi, CS, 718, 1452.06.26.
[186] ASMi, CS, 1152, 1490.01.27; ASCB, QC, 2, 1490.01.27.
[187] DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità, pp. 746–747. Per l’ambiente urbano, cfr. E. OCCHIPINTI, L’Italia dei comuni. Secoli XI–XIII, Roma, Carocci, 2000, p. 87; J.–C. MAIRE VIGUEUR, Cavaliers et Citoyens. Guerre, conflits et société dans l’Italie communale, XIIe–XIIIe siècles, Paris, Editions de l’EHESS, 2003, p. 399.
[188] TD, I/3, pp. 385–386, doc. 1837; ASMi, CS, 720, 1461.05.04; 784, 1481.06.20; ASMi, Comuni, 42, Mandello, 1490.12.04.
[189] TD, II/1, p. 405, doc. 446. V. anche A. GOBETTI, Le istituzioni vicinali, in Storia di Livigno. Dal Medioevo al 1797, a cura di F. PALAZZI TRIVELLI, Sondrio, Società storica valtellinese, 1995, pp. 643–694, p. 675.
[190] V. già Gli atti del comune di Milano fino all’anno MCCXVI, a cura di C. MANARESI, Milano, Capriolo & Massimino, 1919, p. 506, doc. CCCLXXXIV (1214), p. 533, doc. CDI (1241).
[191] ASSo, AN, 202, ff. 364r.–366v., 1465.07.01; Die Statuten von Lugano von 1408–1434 und 1441, a cura di A. HEUSLER, Basel, R. Reich vormals C. Detloffs Buchhandlung, 1894 (Rechtsquellen des Kantons Tessin, III), pp. 80–81, cap. CLXXVII; Archivio comunale di Poschiavo, Pergamene, 1438.11.24.
[192] ASSo, AN, 666, ff. 62v.–64v., 1509.01.07; ff. 379v.–381v., 1511.01.12; 667, ff. 484r.–485v., 1518.01.06; 668, ff. 426r.–427v., 1521.01.27 ecc.
[193] ASMi, CS, 1632, 1498.10.13.
[194] ASMi, CS, 720, 1462.01.11; 783, 1478.12.06.
[195] CHIESI, p. 110, doc. 618.
[196] ASSo, AN, 264, ff. 484v.–485v., 1478.08.08.
[197] ASMi, CS, 720, 1463.10.26; v. anche ivi, 1462.12.18, 1464.06.01. Cfr. LAZZARINI, Cives vel subditi, p. 108.
[198] ASMi, CS, 1153, 1492.02.29.
[199] ASMi, CS, 718, 1452.09.11.
[200] ASMi, Comuni, 60, Morbegno, 1480.12.10.
[201] ASMi, CS, 783, 1477.10.18.