V. Il governo del territorio

2. Duca, ufficiali e principali

I valori e le pratiche identificate davano forma al progetto politico di un rapporto privilegiato fra duca, ufficiali e principali. Non intendo considerare qui la collaborazione che alcuni potenti, signori di castello, capi–fazione capaci di reclutare centinaia di uomini, prestavano personalmente alle iniziative delle autorità sforzesche, mettendo a disposizione le proprie risorse economiche, militari e di reputazione. Mi interessa, invece, l’azione che un’élite meno selezionata di quella – notabili borghigiani, nobili cittadini e così via, anch’essi denominati principali – svolse a supporto degli apparati di governo, impegnando in modo più o meno implicito e formalizzato la comunità cui apparteneva.

In determinate circostanze tale asse si pose in modo concorrente rispetto a quello istituito dal dualismo principe–corpi territoriali; talvolta servì ad aprire una sorta di canale parallelo, che fluidificava e rendeva più efficace il dialogo che gli Sforza e i loro magistrati intrattenevano con gli organi di rappresentanza formale del «paese»; altre volte ancora i due circuiti si sovrapposero senza tensioni, allorché sindaci e procuratori dei corpi venivano scelti dagli uomini fra i principali e come tali trattati dalle autorità statali [179].

La gamma dei motivi per cui gli Sforza scrivevano a questi uomini o li convocavano a Milano, o per cui gli ufficiali locali cercavano la loro collaborazione, era amplissima, come in parte è già emerso. Campo essenziale di esercizio della loro pubblica credibilità era quello della trasmissione delle informazioni. I principi ascoltavano il loro parere quando la popolazione levava lamentele contro i giusdicenti o gli uomini d’arme. Li eleggevano a co–destinatari, insieme ai magistrati locali e ai commissari, della corrispondenza che conteneva i loro comandi e gli stessi magistrati talvolta affidavano a chi di loro si recasse a Milano pure la propria corrispondenza. Nell’evenienza della morte del duca o della diffusione di una tale voce, i podestà ritenevano in primo luogo di «participarne con alchuni de valenthomini» la notizia [180].

Altrettanto importante era il contributo al mantenimento della pace pubblica. Il podestà o il capitano chiedeva l’intervento diretto dei gentiluomini o perlomeno si consultava con loro quando si trattava di risolvere le liti di confine fra le comunità e ogni altro tipo di controversia fra i corpi e i particolari, punire un atto di violenza, porre fine al porto abusivo di armi, reprimere il contrabbando. Agli stessi gentiluomini si rivolgevano i medesimi ufficiali per ottenere che cessassero gli oltraggi di cui sovente erano vittime.

Ancora, per conseguire il pagamento di una tassa, il sostegno economico e logistico di un’impresa militare o il ripristino delle infrastrutture stradali, per preservare il paese dal contagio di peste venivano impegnati i principali. Nelle zone di frontiera, i «boni zentilhomini» si preoccupavano dei traffici commerciali che attraversavano le Alpi e della loro sicurezza, onoravano con la debita «compagnia» gli ambasciatori stranieri. Cruciale era la loro collaborazione per valutare le minacce dei confinanti e allestire la difesa, concludendo opere di fortificazione o, nella singola circostanza, ponendo guardie ai passi e reclutando fanti locali. In questo modo, i principali assicuravano il mantenimento stesso del dominio e la continuità del regime, tanto che nel 1490 il signore di Milano si rivolse congiuntamente al podestà di Tirano e al maggiorente Luigi Quadrio circa gli accorgimenti difensivi da adottare e riconobbe la «bona dispositione vostra ad conservarci quella terra» [181]. Alla morte del duca riaffermavano tale ruolo, quando venivano impegnati per primi a prestare fedeltà al successore.

Pure gli interlocutori transalpini con cui i feudatari e gli ufficiali responsabili delle giurisdizioni di confine intrattenevano rapporti e da cui si attendevano assicurazioni di pace erano detti principali o «valenthomini»; nello stesso novero di persone erano scelti gli ostaggi che, in particolari situazioni, gli stati si offrivano a reciproca garanzia.

Dalla collaborazione con gli ufficiali periferici, eccezionalmente, si poteva arriva alla supplenza: nel 1490 il podestà di Tirano chiese al principe licenza di assentarsi, garantendo che nella terra avrebbe lasciato il suo luogotenente e soprattutto Luigi Quadrio, con parole che delineano un vero avvicendamento nel compito di reggere, almeno politicamente, la circoscrizione, come peraltro era già avvenuto in precedenza («absentandome gli lasso bono governo, et so non manche in ogni cossa posserà come ho per exemplo ha facto per lo passato») [182]. Alla fine del secolo, poi, contravvenendo agli usi osservati fino a quel momento, alcuni uffici rurali furono conferiti a principali residenti, almeno in modo intermittente, nella giurisdizione, producendo un’effettiva contaminazione di ruoli [183].


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note

[179] CHITTOLINI, L’onore dell’officiale.

[180] ASMi, CS, 718, 1451.11.06.

[181] ASMi, CS, 1152, 1490.09.21.

[182] ASMi, CS, 1152, 1490.03.01 (da dove è tratta la frase citata), 1490.03.14.

[183] LEVEROTTI, Gli officiali del ducato, p. 49; DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità, p. 104.