III. Fra principe e sudditi

1. L’aspirazione ad una comunicazione non mediata fra i sudditi e il principe

L’aspirazione ad un contatto diretto con il duca era radicata fra i sudditi. Posti di fronte al precetto di un podestà o di un commissario o ad una stessa ingiunzione del principe filtrata da un suo agente o da una sua lettera, i consigli delle comunità rifiutavano spesso l’obbedienza immediata: negavano il giuramento di fedeltà al commissario incaricato di raccoglierlo, con il proposito di prestarlo nelle mani del duca [55], esprimevano l’intenzione di inviare ambasciatori a Milano per trattare ogni questione fiscale o militare. I comandi del principe mediati dalla scrittura dello stesso primo segretario restarono talvolta impigliati nel mito del sovrano che opera a danno dei sudditi perché tenuto all’oscuro dei loro bisogni e dei loro diritti da collaboratori malfidi, i quali frappongono una barriera intollerabile alla manifestazione della sua intenzione profonda. Gli uomini temevano, infatti, che il primo segretario agisse «senza saputa» e «absque consenso» del duca, che le lettere loro inviate «non fosseno procedute de mente principis» [56]. Anche qualora la missione a Milano non avesse ottenuto udienza direttamente dagli Sforza e il nunzio e la lettera che lo accompagnava fossero stati rinviati al primo segretario o ad altri fra i magistrati centrali più vicini ai signori, i sudditi avrebbero nutrito sospetti e, al ritorno, contestato gli incaricati che si erano accontentati di quel colloquio [57]. Avrebbero quindi costituito ostinatamente più delegazioni, a distanza di poche settimane, per affrontare lo stesso problema, fino ad ottenere soddisfazione perlomeno parziale: l’ammissione degli ambasciatori «a la prexentia» del principe [58]. Pure la lettera responsiva non assicurava sufficiente trasparenza: ostili verso un aspirante alla podesteria di Chiavenna, riportava un suo confidente, «li homini de la terra voleno scrivere a li i.S. contra de quella, et se lo scriver non valerà anderano lor stessi impersona» [59].

Tali ideali sembrano potersi realizzare appieno solo nella possibilità dei sudditi di manifestare collettivamente e direttamente la propria volontà: in determinati frangenti, per portare a corte il malcontento contro i feudatari locali o i costi di una fortificazione, si prefigurarono delegazioni costituite da oltre cento degli abitanti di un borgo o da una persona per ogni famiglia residente in una terra popolosa, insomma un incontro della quasi totalità della comunità con il duca [60].

Anche il dialogo con gli ufficiali poteva assumere la forma di un’espressione collettiva della volontà politica, quando la «grande parte de li homini» di un comune si presentava loro per esprimere lamentele o aspettative [61]. La piazza, invece che il consiglio o la corrispondenza epistolare, poteva divenire la sede per tale manifestazione. Contro la decisione di sindacare l’operato del capitano di valle uscente, Alpinolo de Casate, presa dal Consiglio generale di Valtellina, con il concorso anche degli agenti per il comune di Ponte, e dunque anche contro la deliberazione condivisa da questi ultimi, «havendo noticia li diti homini da Ponte, molti di loro veneno a Trixivio suxa a la piaza et li protestaveno non richiedere che’l dito Alpino sia sindicato» [62].

La comunicazione trasparente fra i sudditi, il principe e i suoi rappresentanti costituiva pure una garanzia di rapporti cristallini all’interno della collettività. Smentendo una lettera sottoscritta a nome della comunità, ma sulla quale il sigillo sarebbe stato apposto «non el sapendo se non poche persone» [63], si affermava implicitamente l’ideale per cui tutti gli uomini dovevano essere al corrente di quanto richiesto al duca in nome loro.

I magistrati ducali difficilmente partecipavano di queste esigenze. Se non si arrivava alla contrapposizione aperta, gli uomini domandavano «de gratia» agli ufficiali di poter conferire con il principe e attendevano di riceverne la «licentia» per le loro ambascerie [64]. Tuttavia gli agenti degli Sforza riducevano tali reazioni a semplici mosse dilatorie o temevano che in questo modo si minacciasse la loro già precaria autorità: se gli uomini fossero stati esauditi, scriveva a Ludovico il Moro uno di loro, «se pocho me hanno obedito per lo passato mancho obedirano per lo avenire» [65]. Soprattutto questa posizione pareva loro ingiustificata, a fronte della sufficiente credibilità che la comunicazione per iscritto e la loro mediazione della volontà ducale offrivano. Quando il commissario Francesco Pagnano, nel 1468, comandò agli uomini di Locarno di rifornire del necessario la rocca del borgo, questi risposero «che voleno mandare da v.S., non obstante che gli mostrai quello scriviva quella [Signoria] sopra ciò»; essi, infatti, «non credeno che questo proceda de la mente de la E.v.». Egli insistette e, nonostante la partenza dei nunzi per Milano, ordinò alla comunità di eseguire comunque il comando di cui era latore [66].

Soprattutto, le autorità centrali e periferiche respinsero con determinazione il contatto diretto con la totalità della comunità e intesero dialogare solo con ristrette delegazioni degli uomini, si trattasse di scortare il podestà nell’ispezione dei confini di alpi contestate [67], o di ricevere una delegazione a Milano. Lo scopo era senz’altro schivare «scandala», episodi di violenza e insubordinazione: anche quando nulla avesse fatto presagire il levarsi di un moto di protesta, gli ufficiali procedettero con molta prudenza. Ad esempio Pier Maria Pusterla, quando si occupò del censimento e l’apprestamento della popolazione maschile abile alle armi della Val Lugano, operando in una realtà assai irrequieta, non convocò intenzionalmente gli uomini e preferì selezionare un numero ridotto di interlocutori: «per essere non senza periculo di qualche disordine ad convocare li populi tuti, et maxime in queste rixe sono qua, ho fati citare tuti li consuli con alchuni de li homini di ciaschuna terra» [68]. Altrettanto importante, tuttavia, era evitare promiscuità e circostanze di incontro lesive degli ideali di decoro che contribuivano a rilevare la figura del principe e dei suoi rappresentanti, se un ufficiale si mostrò quasi ossessivamente preoccupato della poca honestà (la buona maniera politica) dei duecento uomini che vollero accedere alla sua presenza per esprimersi a proposito di una causa in corso [69].




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note

[55] ASMi, CS, 718, 1452.07.23.

[56] ASMi, CS, 1157, 1497.04.05, 1497.05.05 e 21. Cfr. M. DELLA MISERICORDIA, «Per non privarci de nostre raxone, li siamo stati desobidienti». Patto, giustizia e resistenza nella cultura politica delle comunità alpine nello stato di Milano (XV secolo), in Forme della comunicazione politica in Europa nei secoli XV–XVIII. Suppliche, gravamina, lettere, a cura di in C. NUBOLA, A. WÜRGLER, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 147–215, pp. 169–170.

[57] Raccontava il podestà di Bormio a Bartolomeo Calco: «gionto che forno qua li nuntii soy cum le ultimissime letere inmediate se fece consillio et lì aperto le letere & intexo la relatione soa, fo fato grandissime parole [...] imputando li messi loro che non erano andati dal signore et non attendere a le parole di v.M. [...] Volzeno inmediate fare electione de altri nuntii per mandare lì per revocare dicte letere et che se dovesseno fare capo da s.E. & non da v.M.» (ASMi, CS, 1157, 1497.04.05).

[58] ASMi, CS, 719, 1456.03.28.

[59] ASMi, CS, 783, 1478.12.10.

[60] V. sotto, nn. [220], [223] e testo corrispondente.

[61] ASMi, CS, 1156, 1494.06.07.

[62] ASMi, CS, 718, 1482.04.04.

[63] ASMi, CS, 719, 1456.03.28.

[64] SCARAMELLINI, p. 338, doc. 253.

[65] ASMi, CS, 1157, 1497.01.31. Cfr. TD, III/1, p. 354, doc. 382, nonché CHITTOLINI, L’onore dell’officiale, p. 48.

[66] TD, II/1, pp. 642, doc. 773. A volte i commissari se non altro contennero la loro disapprovazione e non spensero il desiderio che veniva espresso al loro cospetto. Azzo Visconti, a proposito dei rappresentanti e i maggiorenti della città di Como, riferì: «me àno dito non volerme per niente fare resposta per fino non mandano una altra volta da v.i.S. [...]. A me non he parso poterli vetare che non mandeno da v.i.S.» (ASMi, CS, 782, 1471.12.16).

[67] ASSo, AN, 142, ff. 143v.–144r., 1460.10.30 («quod nec ipsi Iohannes Brandanus cum nepotibus nec dicti communia et homines supra dictos montes perducere vobiscum possint ultra personas octo pro parte ita quod res et numerus equalis sit»).

[68] E. MOTTA, Guelfi e ghibellini nel Luganese, «Periodico della Società storica per la provincia e antica diocesi di Como», IV (1884), pp. 69–198, p. 193, doc. XXXVII.

[69] V. la ricorrenza del vocabolo nella lettera citata alla n. [218]. Cfr. N. TRANCHEDINI, Vocabolario italiano–latino. Edizione del primo lessico dal volgare. Secolo XV, a cura di F. PELLE, Firenze, Olschki, 2001, p. 82.