Pur frustrando un’esigenza profondamente avvertita dai sudditi, la politica ducale poteva incontrarsi comunque con la tradizione comunitaria, che da tempo aveva elaborato le forme per conferire particolari facoltà decisionali o di rappresentanza a un numero ristretto di vicini, grazie ai meccanismi giuridici della procura e del sindacato. A corte erano inviati ambasciatori appositamente designati, non necessariamente coincidenti con i magistrati comunali in carica. Ad essi venivano affidate richieste e lamentele, la facoltà di discutere l’assunzione di impegni di spesa o di responsabilità per crimini impuniti e via dicendo. Rassegnati di fronte alla barriera frapposta dalla distanza fisica e sociale, e dalla ferma opposizione dei governanti, i sudditi, appunto «non possando venire tuti in persona», si ritenevano comunque soddisfatti se ad alcuni di loro era consentito dialogare «viva voce» con il principe [70], accedere senza filtri alla sua «voluntà», «percipere mentem suam», «cognoscere intentionem suam» [71] e «fare intendere» in modo altrettanto immediato il proprio «animo» [72].
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[70] ASMi, CS, 718, 1454.03.27.
[71] ASSo, AN, 381, f. 572r.–v., 1499.06.15.
[72] Una lettera del Consiglio segreto registrava la motivazione: «cum dire de volere prima venire qua da la illustrissima madona et matre de vostra celsitudine et da nuy [consiglieri] per fare intendere la rasone et iustificatione soa, et anche cum dispositione de venire fin da la vostra prelibata excellentia per fare che quella anchora intendesse l’animo suo» (TD, II/1, pp. 404–406, doc. 446).