III. Fra principe e sudditi

3. L’identità comunitaria e la mediazione statale

La designazione di un uomo autorizzato a manifestare la «mente» della comunità e ad agire «a nome» suo toccava aspetti cruciali dell’identità del gruppo locale di residenza: la definizione di un profilo unitario per il soggetto politico in campo, la gerarchia fra la collettività e i suoi membri, il fondamento dell’autorità di coloro che operavano in vece degli altri [73]. Tale circostanza, dunque, si prestava ad enfatizzare la coesione, nel momento in cui si istituiva l’ambasciatore «per tuto il comune», colui cui «he comisso e dato per instructione che referischa in nome de noy tuti» [74]. Al contempo, metteva a nudo tensioni che avviavano confronti duri e sottili. Specialmente nella circostanza di gravi divisioni politiche interne alla comunità, i capi delle coalizioni in conflitto si smentivano a vicenda, negando gli uni agli altri il riconoscimento di essere legittimi interpreti della volontà di tutti. Venivano allora stese lettere, sottoscritte dalla comunità e dalle sue magistrature, che accusavano uno o più singoli individui di aver agito a nome dell’università illecitamente, squalificandoli come privati («particulares persone», indistinti «certi» o «alcuni») privi dell’autorità che si erano arrogati [75]. Quanto da loro promesso restava allora valido solo per chi si era impegnato direttamente ed eventualmente per chi le aveva designate allo scopo. Con molta nettezza i tiranesi, a proposito dell’obbligo di sostenere le spese per la fortificazione della terra, risposero al commissario ducale «che non sano per chi di luoro may sia fatta tal promessa et chi l’a fatta la vada attendere, che luoro non sano men» [76].

Un peso decisivo, nel dirimere queste controversie, avevano le clausole della commissione, gli strumenti autenticatori della tradizione del documento privato e di quello pubblico. Si affermava, infatti, a sostegno di una decisione di cui si invocava il rispetto contro le pretese di un particolare, come si fosse proceduto «per sindicos communis [...] ad infrascripta per conscilium generale ipsius communis et per instrumentum publicum deputatos», perdipiù «spicialiter» (cioè appositamente) [77]. Al contrario, si negava ogni responsabilità pubblica a chi aveva operato al di fuori di un incarico; non si trattava, in queste circostanze, di veri sindaci, ma di «alcune singulare persone, non havendo speciale mandatum del comune», che non avevano ricevuto «commissione alcuna» [78].

Il confronto tra titoli e documenti contestati e opposti gli uni agli altri non si esauriva a livello locale, ma imponeva il ricorso ad un potere riconosciuto come superiore. Su loro istanza, pertanto, lo stato offrì alle comunità una decisiva conferma dell’identità politica che rivendicavano e divenne arbitro delle controversie circa la rappresentanza legittima. I magistrati periferici riferivano dettagliatamente a Milano le facoltà che localmente erano state attribuite ai rappresentanti; i corpi accreditavano l’ambasciatore presso il principe; sempre eleggendo gli Sforza come interlocutori, la comunità o una sua parte smentiva il procuratore indesiderato, cui non doveva essere concessa udienza, discuteva la validità dei documenti che lo accompagnavano. Il vero «nuntium et sindicum» dell’«universitas», scrivevano i sudditi, si sarebbe presentato a Milano «cum litteris credentie» e, poiché le stesse lettere credenziali potevano essere alterate, si precisava ulteriormente, con le «littere credentiales cum sigillo [...] communis» [79].

Gli uomini per primi, poi, si attendevano che le autorità centrali, quando fossero loro pervenute le lettere sottoscritte dal comune in cui si protestava di non condividere quanto affermato in precedenza a nome della collettività, accertassero la verità. Una consultazione del Consiglio segreto, l’inchiesta condotta da un ufficiale locale o un apposito commissario avrebbero sancito la correttezza formale degli atti deliberativi della comunità e dei mandati conferiti, verificato l’effettiva condivisione della richiesta avanzata o dell’azione promossa a nome degli abitanti di una terra [80]. Il luogotenente del capitano di Domodossola preavvisò il primo segretario Bartolomeo Calco che il console locale, colui che «ha il sigillo de la comunità in le mane», era in causa con un suo affine e non avrebbe esitato a presentare lettere «a nome de la comunità» non meritevoli di «fede» [81]. L’indagine dell’economo sui benefici vacanti di Como dimostrò come una supplica fosse stata scritta su dettato di «unus qui se dicebat nuntium communis et hominum» di Livo e che invece non interpretava la volontà della maggioranza [82].

Il principe stesso, nel momento in cui ne sollecitava il contributo fiscale o militare, si preoccupava che le comunità costituissero validamente procuratori capaci, secondo le procedure solite delle vicinanze o dei consigli urbani e rurali, cui offriva così ulteriore legittimità [83]. Rivolgendosi agli uomini di Val Blenio prescrisse le tappe della formazione della rappresentanza («fare adunanza» e «costituire uno sindico»), giungendo a inviare il formulario cui attenersi nella redazione del relativo documento, che enfatizzava, come sempre, la base comunitaria dell’autorità dell’eletto («nomine dictarum communitatis et hominum ac singularium personarum totius dicte vallis») e il vincolo collettivo generato dall’impegno che egli avrebbe contrattato («cum obligatione omnium et singulorum bonorum dicte vallis et hominum, universitatis et singularium personarum eiusdem») [84]. In altre circostanze raccomandava comunque che la comunità designasse i suoi procuratori con «mandato in publica forma» [85].

Ammessi al dialogo con i magistrati statali erano dunque i sindaci e i membri dei consigli costituiti dai comuni e dalle federazioni [86]. Anche per il duca, nei casi ambigui, fino a quando non si fossero accertati il rispetto delle routines consuetudinarie e la posizione dell’università, i suoi asseriti procuratori restavano dei generici «alcuni» [87]. Solo eccezionalmente il podestà di Dongo accettò di replicare alle accuse mosse contro il suo operato da alcuni abitanti in quella terra, puntualizzando però: «licet eis respondere [despondere nel testo] non teneatur cum non habeant solemne mandatum a comunibus» [88].




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note

[73] ASMi, CS, 784, 1483.11.28; ASMi, Comuni, 34, Domodossola, 1498.05.24. Cfr. MICHAUD–QUANTIN, Universitas, pp. 309–310, 313, 324; G. VITOLO, Organizzazione dello spazio e comuni rurali. San Pietro di Polla nei secoli XI–XV, Salerno, Laveglia, 20012, pp. 54–56.

[74] ASMi, CS, 1157, 1497.06.17. V. anche sotto, n. [128] e testo corrispondente. Cfr. A. DE BENEDICTIS, Retorica e politica: dall’orator di Beroaldo all’ambasciatore bolognese nel rapporto tra respublica cittadina e governo pontificio, in Sapere e/è potere. Discipline, dispute e professioni nell’università medievale e moderna, III, Dalle discipline ai ruoli sociali, a cura di A. DE BENEDICTIS, Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1990, pp. 411–438, p. 429; M. MOSCONE, Un modello di documento semipubblico nella Sicilia tardomedievale: la ‘Designatio syndicorum’ di Palermo e Messina per l’ambasceria del 1338 a Benedetto XII, «Mediterranea. Ricerche storiche», II (2005), pp. 495–520, pp. 498–499.

[75] Cfr. ASMi, CS, 782, 1473.12.29 e s.d.; CHIESI, p. 52, doc. 519. Si tratta di una ragione di conflitto generalizzata nell’Europa medievale e moderna: KELLER, La decisione a maggioranza, p. 50; A. WÜRGLER, Voices From Among the ‘Silent Masses’: Humble Petitions and Social Conflicts in Early Modern Central Europe, «International Review of Social History», XLVI (2001), Supplement, pp. 11–34, p. 23; M. FOLIN, Rinascimento estense. Politica, cultura, istituzioni di un antico stato italiano, Roma–Bari, Laterza, 2001, p. 110; G. POLITI, La società cremonese nella prima età spagnola, Milano, Unicopli, 2002, pp. 37–38; L. ARCANGELI, «Igne et ferro». Sulle dedizioni di Reggio alla Chiesa e agli Estensi (1512–1523). Note a margine di alcuni studi di Odoardo Rombaldi, in Medioevo reggiano. Studi in ricordo di Odoardo Rombaldi, a cura di G. BADINI, A. GAMBERINI, Milano, F. Angeli, 2007, pp. 388–418, p. 404; I. LAZZARINI, Cives vel subditi: modelli principeschi e linguaggio dei sudditi nei carteggi interni (Mantova, XV secolo), in Linguaggi politici, pp. 89–112, p. 100. La rappresentanza della comunità poteva essere contesa anche dalle sue diverse articolazioni corporative (A. DE BENEDICTIS, Repubblica per contratto. Bologna: una città europea nello Stato della Chiesa, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 206–207, 222–223; G. CICCAGLIONI, Microanalisi di un’istituzione. L’universitas septem artium e il suo linguaggio a Pisa al tempo della dominazione viscontea (1399–1405), in Linguaggi politici, pp. 187–214, pp. 190–191) o, nel caso delle federazioni, dai vari comuni membri (S. ZAMPERETTI, Per una storia delle istituzioni rurali della Terraferma veneta: il contado vicentino nei secoli XVI e XVII, in Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV–XVIII), a cura di G. COZZI, II, Roma, Jouvence, 1985, pp. 59–131, pp. 77, 84).

[76] SCARAMELLINI, pp. 406–407, doc. 387.

[77] ASMi, Comuni, 79, Sondrio, s.d.

[78] ASMi, Comuni, 78, San Giacomo, s.d. e ASMi, CS, 1153, 1492.03.04. Cfr. ASMi, CS, 782, s.d.

[79] ASMi, CS, 782, s.d.; 720, 1462.06.23. Il problema della rappresentanza riemergeva per altri soggetti collettivi: anche i «nobilles et vicini terre de Ponte Valistelline» potevano dichiarare che colui che aveva agito a Milano come «messo mandato da li gentilhomini de Ponte» non aveva alcuna «impoxitione» da parte loro (ASMi, CS, 783, 1477.07.06 e 22). Cfr. E. ROVEDA, Istituzioni politiche e gruppi sociali nel Quattrocento, in Metamorfosi di un borgo. Vigevano in età visconteo–sforzesca, a cura di G. CHITTOLINI, Milano, F. Angeli, 1992, pp. 55–107, p. 72.

[80] N. COVINI, La trattazione delle suppliche nella cancelleria sforzesca: da Francesco Sforza a Ludovico il Moro, in Suppliche e «gravamina». Politica, amministrazione, giustizia in Europa (secoli XIV–XVIII), a cura di C. NUBOLA, A. WÜRGLER, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 107–146. Cfr. A. VIGGIANO, Aspetti politici e giurisdizionali dell’attività dei rettori veneziani nello Stato da terra del quattrocento, «Società e storia», XVII (1994), pp. 473–505, p. 484.

[81] ASMi, CS, 1153, 1493.07.07.

[82] ASMi, CS, 782, 1474.06.12.

[83] Cfr. I «registri litterarum» di Bergamo, p. 237.

[84] TD, I/2, pp. 74–75, doc. 723, pp. 78–79, doc. 729.

[85] TD, I/2, p. 82, doc. 736.

[86] ASMi, CS, 781, 1469.04.05.

[87] ASMi, CS, 783, 1477.03.31.

[88] ASMi, CS, 782, s.d.