IV. Ambasciatori o principali

1. «Com se li fusimo nuy in persona». Gli ideali delle comunità

Nelle lettere sottoscritte dai corpi locali che li accreditavano a Milano, gli ambasciatori venivano profilati in primo luogo come membri della collettività. Tramite i pronomi personali e possessivi usati, si enfatizzava in ogni modo quasi lo scaturire delle delegazioni dal seno stesso della comunità: erano presentati come «duy de li nostri», «alcuni de nuy», «oriundi et convicini huius terre» e «concives nostri» [121].

Quegli stessi documenti istituivano una precedenza della comunità rispetto ai pochi che ne interpretavano e riferivano la volontà e si impegnavano per suo conto, grazie alla logica del sindacato o della commissione. Il linguaggio della procura, cui si attenevano le formule notarili e che il Carteggio sforzesco echeggiava, stabiliva sempre un rapporto di netta subordinazione degli agenti rispetto al mandante. Nel 1456 il capo della parte guelfa valtellinese Antonio Beccaria invò quello che presentava come il «mio canzellaro» a Francesco Sforza, domandando che «ye creda como a mi»; un altro potente della valle nel 1462 chiedeva alla duchessa udienza e «fede» per un suo agnato come «si li parlasse mi proprio» [122]. Il principe sollecitò il comune di Menaggio a «credere et obidire» al capo dei soldati, inviati per la presa di possesso di beni sequestrati, «quanto se noy proprii ve lo dicessimo de bocha»; inoltre scriveva alle comunità perché ai portavoce della sua volontà «dareti fede como a nuy proprii» o perché si rivolgessero al primo segretario o obbedissero ad un suo agente, «informato ad plenum della mente nostra» [123].

Anche gli uomini enfatizzavano come i loro agenti operassero «a nome» e «sub nomine» del comune, della valle o della città, «in nome nostro, ovvero «pro parte comunitatis», «nostri pro parte», «vicibus nostris». Un’«impoxitione» da parte della comunità ne fondava la legittimità politica. Il loro credito era un attributo della comunità trasferito a quanti operavano per suo conto: è la prima a meritare la «fede» che si chiede al duca di riservare alle parole dei secondi. Così il comune del Monte di Introzzo presentava a Ludovico Sforza il latore di una sua lettera: «pregamo et supplicamo se digna ad esso Mafeo prestarli quela indubitata fede ad questo li exponerà non altramente come se li fusemo presenti tuti noy, perche così li havemo imposto» [124]. Infine, i nunzi recavano informazioni rilevanti perché erano perfettamente a conoscenza delle intenzioni dei loro vicini o concittadini («informati de la mente nostra») [125]. Insomma, la città, i comuni e le università rurali si ponevano di fronte ai propri ambasciatori come il duca rispetto ad un proprio ufficiale o un signore locale nel rapporto con il suo cancelliere.

Significativamente, l’ambasciatore delle comunità nelle lettere che queste sottoscrivevano appare, di norma, poco precisato in quanto individuo: non si sottolineavano sue specifiche «qualità» (la ricchezza, l’estrazione sociale) e talvolta se ne taceva il nome, presentandolo semplicemente come il latore dello scritto. In particolare la scelta di non designare l’ambasciatore mi pare significativa nella strategia di riduzione della sua identità al ruolo che ricopriva nella circostanza. Il linguaggio del Carteggio sforzesco, infatti, condivideva con quello giuridico del tempo l’uso di un lessema pregnante, allorché qualificava l’azione di un individuo per proprio conto o per conto di altri o in virtù di un mandato conferito da un soggetto istituzionale: il nobile che giurava fedeltà impegnando anche i propri parenti operava «a suo proprio nome et tutta la casa sua», i commissari «in nome de v.E.», il primo segretario scriveva «nomine principis» [126]. Allora si può dire che gli oratori si identificavano a tal punto nel ruolo che li vedeva agire «a nome di questa comunitate» o a «a nome de epsa valle» da non avere più altro nome, appunto, nemmeno il proprio o quello dell’agnazione d’appartenenza. Chi per contro presentava se stesso come mandatario di uomini che invece non gli avevano conferito alcuna facoltà di rappresentarli era sconfessato: «id factum non est nomine communis, sed quorundam particularium personarum» o, con il recupero di un identificativo personale, «a suo nome» [127].

Per tutte queste ragioni, la forma di comunicazione fra la comunità e gli Sforza che tali ambasciatori garantivano non mortificava del tutto la soggiacente aspirazione degli uomini al contatto diretto con il duca di cui ho detto prima. Almeno retoricamente, diveniva possibile dissolvere le barriere così mal tollerate, come avveniva nelle espressioni che chiedevano udienza per i messi «com se li fusimo nuy in persona» al cospetto del principe, «como a nuy proprio se fusseme presente con E.v.», «como se tuta questa universitade ad quella [Signoria] parlasse» [128].


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note

[121] TD, III/1, p. 7, doc. 2, p. 431, doc. 470.

[122] ASMi, CS, 719, 1456.04.24; 720, 1462.01.04. Una parentela ossolana di oltre duecento membri accreditava presso Bartolomeo Calco il proprio procuratore a Milano «al quale pregamo li voglia dare piena fede come se noy fusseno tuti li personaliter constituti» (ASMi, CS, 1153, 1492.05.27). V. ancora ASMi, CS, 719, 1459.04.04.

[123] ASMi, Missive, 38, p. 522, 1458.05.21; TD, I/2, p. 82, doc. 736; SCARAMELLINI, p. 409, doc. 389. Cfr. I «registri litterarum» di Bergamo, p. 348; SCARAMELLINI, p. 377, doc. 332; TD, III/1, p. 389, doc. 420, p. 32, doc. 29, pp. 244–245, docc. 272–273.

[124] ASMi, CS, 1157, 1497.06.17. Il decano, i consiglieri e il comune di Tirano scrissero: «imponemo a Martino de la Pergula, notario et messo de questa comunità che de’ essere de la E.v., la quale piacia darli plena fede a quanto dirà» (ASMi, CS, 1156, 1493.10.29). V. ancora ASMi, CS, 783, 1477.11.10 («voliati dar in predicte cose piena fede quanto a noi proprii»).

[125] ASSo, AN, 517, f. 263r., 1492.01.02; TD, I/2, pp. 322–323, doc. 1096 (la Val Blenio accreditò i nunzi «fidi nostri, nostreque intentionis plene informati», per i quali chiedevano al duca, ancora, «plenam fidem adhibere uti nobis propriis»); ASMi, CS, 784, 1479.04.21 (il comune di Morbegno presentava i «nostros nuntios cum sufficienti mandato [...] de mente nostra plene instructos et informatos et quorum relatis [...] credulam et plenam fidem adhibere dignentur tamquam nobis»); ASMi, CS, 1157, 1497.07.25 ecc.

[126] ASMi, CS, 1157, 1496.05.21.

[127] ASMi, CS, 782, s.d.; CHIESI, p. 58, doc. 586.

[128] Rispettivamente ASMi, CS, 718, 1454.03.27; TD, II/1, p. 643, doc. 774; ASMi, CS, 1157, 1496.04.14. Cfr. sopra, n. [124] e testo corrispondente.