IV. Ambasciatori o principali

2. I principali nella visione degli uomini dello stato

All’ideale politico elaborato dalle comunità di un ambasciatore dall’identità personale tanto sbiadita ostavano tuttavia i valori di distinzione sociale cari sia al principe sia al corpo degli ufficiali del dominio.

In primo luogo, un codice curiale voleva che colui che si presentava al cospetto del principe fosse in ogni caso dotato di una particolare dignità personale. L’influente signore valtellinese Giovanni Beccaria, mostrandosi partecipe dei valori aristocratici del suo interlocutore e al contempo benevolo nei confronti degli uomini che guardava con complice superiorità, scrisse a Bartolomeo Calco per raccomandare i «nuntii del comune di Sondalo» che partivano alla volta di Milano allo scopo di conferire con lui, ma pure per scusare il loro aspetto troppo dimesso («certificandola che, quntoncha pareno poveri di pariscentia, sono tanto più richi de fede») [129]. La medesima degnazione mostrarono i membri del Consiglio segreto verso gli uomini scelti dagli abitanti di Sonvico. Questi ultimi, di fronte all’ipotesi di essere privati della custodia della fortezza locale, protestarono nella capitale. Compiacendosi del contrario, i consiglieri rivelano il timore che il comportamento di queste delegazioni non fosse appropriato alle sedi milanesi e cortigiane in cui dovevano operare. Riconoscevano infatti: «sono venuti et devante a noy presentati, sempre reverentemente et discretamente»; nell’illustrarne le buone ragioni a Galeazzo Maria Sforza e pregandolo di accoglierli, non mancavano però di invocare una particolare indulgenza: «a nuy pariria che v.i.S. li volessi havere ricommendati et gli facesse bona et grata colligentia, havendo respecto più a la importantia del sito del loco [...] che a lo aspecto loro» [130]. Di nessuna condiscendenza, invece, beneficiarono i latori di una supplica del comune di Traona, allontanati e rimproverati per non essere stati all’altezza del decoro del Consiglio segreto («quod vadant domum et redarguantur, quod ita populariter huc venerint») [131].

Inoltre, quella di trasmettere informazioni veritiere non era facoltà che la società aristocratica del Quattrocento riteneva attribuibile con un mandato, ma una sorta di privilegio detenuto da chi – per status – godeva di reputazione personale. Dotato di «credito» e «fidedigno» era in generale chi «porta bona voce e fama», come pure le comunità riconoscono [132], e specialmente il nobile. Tutte le volte in cui fosse necessario approfondire le circostanze di un delitto, le negligenze di un magistrato periferico, i contenuti della consuetudine locale, il principe e i suoi uomini interpellavano gli «zentilhomini» o i «meliori de la tera». Le voci circa i movimenti delle potenze confinanti erano accreditate se mediate da «zentilhomi» o dai sudditi di domini stranieri che fossero comunque «homini da bene», prova di un riconoscimento dell’eccellenza sociale che non solo apriva canali di comunicazione privilegiata fra Milano e le città o le terre del dominio, ma varcava le frontiere. Allo scopo di accertare la diffusione della peste in un borgo, scrisse l’incaricato da Milano, «per essere più certo et melio informato, manday per uno zentilhomo de li principali di quella terra et homo da bene et deputato al governo di quella» [133]. Anche il credito del nunzio e il suo meritare udienza, allora, non potevano poggiare, agli occhi del principe, dei suoi consiglieri e ufficiali, sul conferimento temporaneo di attributi che la comunità locale assegnava in primo luogo a se stessa: gli Sforza avrebbero ascoltato senz’altro i «bene informati» della «mente» dei sudditi, ma soprattutto quei principali che risultavano singolarmente degni di fede.

Un ulteriore fattore che concorreva a selezionare socialmente quanti agivano per conto della comunità era la ricchezza. Chi contraeva impegni pecuniari a nome delle collettività, ad esempio nella circostanza della raccolta di una somma di denaro da versare immediatamente, di un’opera viaria da realizzare, di una fortificazione da innalzare, assumeva pure una responsabilità personale: la camera si sarebbe rivalsa sul suo patrimonio, in caso di inadempienza degli uomini per cui aveva agito, e solo vincendo molte resistenze e sopportando interminabili dilazioni egli si sarebbe potuto a sua volta rivalere sui suoi convicini. Per questo il principe chiedeva l’invio degli estimi locali per scegliere chi «obligare», designando direttamente da Milano le persone dal profilo adeguato a questi scopi. Altre volte si incaricarono i podestà periferici se non altro di completare le liste, «modo che non siano persone abiecte, ma de qualche condicione»; essi si sarebbero attenuti scrupolosamente al comando selezionando i «melgiore» [134]. In diverse circostanze si consentì ai sudditi di identificare i «quatro o sey de loro principali seu idoney de pagar» che garantissero opere di rifacimento stradale, i «quatro de li più richi» che prestassero «segurtà» per le spese di fortificazione [135].

Un ultimo scarto nel linguaggio delle scritture delle comunità e di quelle degli ufficiali consiste nella scelta di designare gli ambasciatori o di nominarne solo alcuni e di considerarne esplicitamente lo status. I principali, come ho detto altrove, erano coloro che «porteno [...] bono nome», impegnando gli ufficiali, che ne riconoscevano la potenza politica, a comunicarlo quando ne riferivano le azioni, anche se operavano a nome della comunità. Nel 1490 gli uomini di Ponte calibrarono tra i diversi ceti la loro rappresentanza al cospetto del capitano di valle, mentre questi registrò con nome e cognome solo il nobile, riservando agli altri quattro una generica e degradante qualifica di status (riferiva infatti di aver ricevuto Serafino Quadrio di Ponte «con quatro contadini de dicto comune de Ponte») [136]. Francesco Creppa, podestà di Bormio, nel 1477 presentò al duca e alla duchessa gli ambasciatori del borgo, il medico Abramo Alberti e l’arciprete Giovanni Grassoni, senz’altro riferendosi al loro ruolo istituzionale – in quanto «electi» dalla «comunitade» –, ma aggiungendo annotazioni estrinseche al mandato, che nessuna lettera credenziale del comune avrebbe mai contenuto. Chiedeva infatti accoglienza per il primo «perché luy e soy fratelli pono assay in questa vostra terra da Bormi», per il secondo pure perché «pò assay in questa terra da Bormi» [137]. Il vicepodestà di Morbegno Francesco Balicandi nel maggio 1494 scrisse di aver pacificato una lite confinaria «con lo adiutorio de li altri agenti de tute le comune de questa squadra»; dopo un paio di mesi, riferendosi alla medesima questione, riscrisse quasi le stesse parole, ma ripensò la definizione di questi ultimi, cancellando gli attributi istituzionali e rilevando quelli personali: «con lo adiutorio anchora delli altri homini da bene de questa iurisdictione» [138].


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note

[129] SCARAMELLINI, p. 359, doc. 297.

[130] TD, II/1, pp. 404–406, doc. 446.

[131] Acta in Consilio Secreto in castello Portae Jovis Mediolani, I (7 ottobre 1477–10 aprile 1478), a cura di A. R. NATALE, Milano, Giuffrè, 1953, p. 259.

[132] ASMi, CS, 719, 1455.12.29; 720, 1460.10.18.

[133] ASMi, Comuni, 81, Tirano, 1476.09.15. Nel 1457 il capitano di Valtellina, per accertare la buona fama di un mercante originario delle valli bergamasche trasferitosi a Sondrio in vista della sua ammissione in vicinanza, si rivolse a coloro che godevano della più indiscutibile reputazione locale, raccogliendo «bona e veridica informatione» dal signore locale Antonio Beccaria e da coloro che, con una significativa endiadi, chiamava «zentilhomini et fidedigni de la terra da Sondri» (ASMi, CS, 719, 1457.05.04). Il referendario di Como, accusato di essere parziale, chiese al duca di inviare un agente a prendere informazione della condotta sua e di colui che lo diffamava, «togliendo el dicto de cinquanta citadini de li più notabili et che siano persone le quale portano bona fama et che cerchano de bene vivere» (ASMi, CS, 720, 1462.07.16). Il capitano della Valtellina, sollecitato da Milano, accertò la veridicità delle condizioni di penuria in cui viveva la popolazione di Ardenno, affermata in una supplica del comune, interrogando «certi testimoni che sono gentilhomini» (ASMi, CS, 784, 1480.03.22). Cfr. ancora TD, III/1, p. 388, doc. 418 («habitis diligentissimis informationibus a quampluribus nobilibus bone vocis et fame»). Cfr. I. LAZZARINI, L’informazione politico–diplomatica nell’età della pace di Lodi: raccolta, selezione, trasmissione. Spunti di ricerca dal carteggio Milano–Mantova nella prima età sforzesca (1450–1466), «Nuova Rivista Storica», LXXXIII (1999), pp. 247–280, pp. 264–265, 275; P. EVANGELISTI, Politica e credibilità personale. Un diplomatico francescano tra Tabriz e la Borgogna (1450 circa–1479), «Quaderni storici», XL (2005), pp. 3–40; G. TODESCHINI, Visibilmente crudeli, Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, Bologna, Il Mulino, 2007. Sulla «fides» non come fiducia che si ripone in qualcuno, ma, originariamente, come qualità personale che attira la fiducia altrui, v. Émile BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I, Economia, parentela, società, Torino, Einaudi, 20012 [1969], pp. 76 e sgg.

[134] SCARAMELLINI, p. 409, doc. 389; ASMi, CS, 1153, 1492.02. 05 e 18.

[135] Nell’ordine, ASSo, AN, 517, ff. 182v.–183v., 1490.08.12; 381, ff. 582r.–583v., 1499.06.25.

[136] ASMi, CS, 1152, 1490.09.06. Cfr. DELLA MISERICORDIA, Decidere e agire in comunità, p. 323.

[137] ASMi, CS, 783, 1477.03.01. Cfr. ASMi, CS, 719, 1456.02.20 (dove si accredita un «zentilomo et de prinzipali de Bormo et de grande audientia, che vene per imbassadore de la comunità»); 1152, 1490.02.09; ASMi, Comuni, 12, Bormio, 1490.02.07.

[138] ASMi, CS, 1632, 1494.05.30; ASMi, Comuni, 60, Morbegno, 1494.07.07.