Nonostante tutto ciò, l’incontro delle prospettive di governanti e governati nella possibilità di un dialogo a distanza, tramite sindaci o ambasciatori rappresentativi e autorevoli, designati dagli uomini e ricevuti dal duca, appare comunque assai faticoso.
In primo luogo, se i sudditi vagheggiavano l’ideale di un principe sempre disponibile all’ascolto, quest’ultimo e le magistrature centrali dello stato, si è accennato, provavano fastidio verso l’esasperata ricerca di contatto diretto e frequente da parte dei corpi territoriali. I podestà e capitani locali cercavano pertanto di trattenere gli uomini: Gottardo Torgio invitò quelli di Bormio a non «mandare soy nuntii» a Milano fino a quando egli non avesse comunicato per iscritto le loro ragioni e non fosse venuta una risposta dal principe. In seguito tornò a biasimare la loro importunità e il continuo invio di ambasciatori a Ludovico Sforza, uno «spendere dinari senza causa alcuna», che non avrebbe conseguito altro effetto che di angustiarlo, soprattutto per l’impudenza di chiedere udienza pure nei periodi festivi dell’anno, peraltro senza alcuna speranza di essere ricevuti [89]. Quando, alla fine, gli ufficiali acconsentivano alle richieste delle comunità, non tralasciavano, nelle lettere che ne accreditavano i rappresentanti, passaggi topici con cui, fra qualche imbarazzo, invitavano il destinatario milanese a scusarne l’impertinenza. Dopo che la terra di Ponte fu semidistrutta da un incendio, il capitano di Valtellina presentò benevolmente al duca e alla duchessa gli uomini che supplicavano soccorso e generi alimentari, ma non mancò di riferire che aveva cercato di dissuaderli dal recarsi a «tediare» i principi [90]. Il podestà di Bormio chiese a Giovanni Simonetta di adoperarsi perché gli ambasciatori del borgo venissero ricevuti dal primo segretario, scusandoli però anticipatamente del disturbo che avrebbero arrecato («si bene quisti homeni ve dessano uno pocho de fatiga, non sarano ingrati al tempo a venire») [91].
Partiti alla volta di Milano, poi, gli ambasciatori potevano non essere ammessi al colloquio con il signore di Milano. Il disappunto e la delusione, allora, erano acuti: «essendo stati duy de li nostri da v.S. et quella non li ha voluto dar audientia, del che molto ne siamo maravigliati», il comune di Piuro, come sempre in queste circostanze, tornò a inviare i suoi messi nella capitale [92].
precedente |
torna su |
successivo
[89] ASMi, CS, 1153, 1492.01.11; 1157, 1497.04.05 («io, perché l’era la septimana sancta, gli fece intendere che non haveriano audientiia alcuna et che non mandasseno a spendere, che fariano corozare s.S.», ma essi «deliberarno fare uno consiglio grande et lì fare la electione di mandare ad ogni modo»). Cfr. A. GAMBERINI, La città assediata. Poteri e identità politiche a Reggio in età viscontea, Roma, Viella, 2003, p. 88.
[90] ASMi, CS, 783, 1478.07.28.
[91] ASMi, CS, 783, 1477.02.02.
[92] ASMi, CS, 1153, 1493.01.06.