Il principato si pose in modo ambiguo di fronte a queste tradizioni di ascendenza comunale. Condividendo l’immagine che gli veniva presentata, anche il duca, rispondendo ad esempio ai «presidentes regimini communitatis Bilinzone», continuava a guardare a tutta la collettività («tenemo cunto di voi e tutta quella comunità») [34]. Scelte in senso diverso appaiono a loro volta reversibili. Nel 1463 una lettera che disponeva circa il versamento del salario del podestà locale fu inviata al «commune et homines» di Menaggio, destinatario poi depennato nel medesimo testo e sostituito dai soli «consules et caniparii Menasii»; dopo pochi mesi, però, lo stesso messaggio fu affidato ad una missiva nuovamente indirizzata «communibus et hominibus Mandelli» [35].
A volte, invece, il principe e i suoi uomini produssero una lettura della comunità e dei suoi uffici radicalmente alternativa a quella proposta nelle fonti locali. Come ho già mostrato altrove, sottoposero le magistrature collegiali e la comunità intera a un vaglio analitico, distinguendo la particolare «qualità» di ogni membro. In questa sede mi interessa concentrare l’attenzione sulle implicazioni che tale visione ebbe nella discussione circa la rappresentatività degli organi del governo locale e il fondamento concreto dell’autorità, personale o delegata, dei loro componenti.
Nelle fonti normative di emanazione centrale, i decreti, si specificavano le qualità dei destinatari dei più vari incarichi abbandonando la reticenza tipica degli statuti: nel 1424 Filippo Maria Visconti dispose che gli elettori del Consiglio generale di Como fossero quattro «ex optimis civibus maioris auctoritatis et prudentie» e che dovessero scegliere «centum cives bone conditionis» [36]. In una documentazione dal tenore meno formalizzato rispetto a questi testi normativi, come il Carteggio sforzesco, l’opzione è ancora più evidente: la comunità e i suoi organismi venivano disgregati e trattati come uno spazio in cui i principali di onorevole estrazione sociale, gli intriganti o anche i facinorosi di umili origini riuscivano ad affermare un potere di natura privata. La stessa nomenclatura diveniva incerta, contaminando profili d’ufficio e attributi personali, se si potevano denominare le stesse guide istituzionali della collettività ora come «presidenti», ora come «principali» [37]. Per criticarne l’operato, nel 1497 il podestà di Bormio Gottardo Torgio non identificava impersonalmente il reggimento della terra, bensì «alcuni di questa terra de poco sentimento quali al presente sono al regimento» [38]. In modo più neutro, già nel 1491 aveva riferito della convocazione in Consiglio, cui prendevano parte pure i «populari», di circa 40 uomini «tuti de li principali et de sentimento così de le ville como etiam de la terra» [39]. Nel Consiglio generale di Valtellina erano presenti i consoli e i procuratori dei comuni, spesso scelti tra gli uomini localmente più in vista, ma – alla metà del Quattrocento – nel complesso di estrazione assai varia, a volte affiancati dai più influenti gentiluomini locali. Il capitano di valle, invece, nel 1466 lo descrisse come un consesso di maggiorenti: diceva, infatti, di aver fatto «congregare il consilio de li zentilhomini e de li altri principali de tucta questa valle» [40]. A volte l’intercambiabilità dello stesso lessico sfumava i confini tra l’incontro informale con i principali e l’assemblea della comunità formalmente convocata: di fronte alle minacce provenienti dai Grigioni il castellano di Chiavenna e il feudatario Annibale Balbiani decisero le misure da applicare «a parlamento con li zentilhomini de questa terra» ovvero «insema con quisti zentilhomini de Giavena» [41].
Se un consiglio veniva assimilato ad una riunione di principali, d’altro canto un impegno contratto da questi ultimi poteva essere disinvoltamente attribuito all’università. Il podestà di Bellinzona, il 4 gennaio 1462, riferì alla duchessa di aver richiesto e ottenuto, due giorni prima, allorché si era diffusa la notizia (infondata) della morte di Francesco Sforza, il giuramento di fedeltà degli «homines huius terre». Le provvisioni, per contro, attestano che a giurare erano stati singoli borghigiani, fra cui erano certamente i membri dell’élite locale e molti di coloro che in quel momento ricoprivano le cariche comunali, ma che comunque non avevano espressamente agito a nome dell’ente [42].
La tendenza degli ufficiali statali a ridurre la comunità ai suoi gentiluomini appare ancora più pronunciata quando si tratta delle istituzioni cittadine. Innanzitutto, nel loro racconto il vertice istituzionale urbano prendeva il posto della popolazione nel suo complesso. Nel 1471 Azzo Visconti scrisse a Milano a proposito dell’ingente somma di denaro richiesta dal duca alla città di Como. L’ufficiale si riprometteva di riferire il modo in cui si era regolato «con quista comunitade», una nozione, tuttavia, che egli riduceva agli organi decisionali della città e soprattutto al novero dei cittadini eminenti: «ho hauto quisti deputati [di Provvisione] et in particularitade molti zentilomini et citadini» [43].
In secondo luogo, come già risulta chiaro in quest’ultima circostanza, la sistematica presenza di aggiunti accanto ai consiglieri in carica faceva sì che il magistrato statale si rivolgesse contemporaneamente ad un organo istituzionale e a figure forti della sola reputazione individuale. A Bergamo, nel 1407, il maggiore consesso locale si presentava al podestà come «Conscillium dominorum anzianorum et multorum nobilium Pergami» [44]; a Como l’insediamento dei podestà e commissari prevedeva la presentazione delle lettere di incarico al «Consiglio et alcuni azunti de li principali de la terra», «ad questi magnifici officiali una cum quelli che reppresentano la comunità & altri gentilhomini de li primi» [45].
Spingendosi oltre, lo stesso Consiglio poteva essere concepito come nient’altro che un convegno di singoli gentiluomini. Nel frangente della malattia di Francesco Sforza, che già ne aveva fatto temere la morte, il podestà di Como convocò il «Conscilio generale ne lo quale se congregoreno la mazore parte de li più digni homini de questa citade». Il complesso della cittadinanza, invece, non si sarebbe espresso con una deliberazione consiliare, ma nel rito religioso; non gli fu nemmeno richiesto di prestare giuramento, ma solo di invocare la salute del duca: allo scopo «fu facta solmpnissima processione», in cui era intervenuto «tuto questo populo universalmente» [46].
Era possibile, infine, ridurre la città ai suoi gentiluomini, senza più nemmeno la mediazione di alcun luogo formalizzato di decisione politica. Nel 1470 il podestà di Como domandò a Galeazzo Maria Sforza la conferma dell’incarico, in base al favore tributatogli da tutta la città («questa vostra cità tuta contentarsi et havere a caro il mio servire»), che tuttavia non era veicolato da un’istituzione o da un organismo, ma direttamente interpretato dai «notabili», accompagnati da quelli identificati genericamente come «altri» («tuti questi notabili citadini et ceteri universaliter») [47]. Nel gennaio del 1499 il commissario Bartolomeo Crivelli diede un’immagine singolarmente compatta della popolazione di Como. Appena si era diffusa la voce dell’approssimarsi delle truppe veneziane «questi citadini [...] veneteno di me et quasi tuto il populo». A ben vedere, egli non ritenne di trovarsi di fronte un corpo politico compatto: «quasi tuto il populo» e non «il populo», dal quale rilevava, con una congiunzione, il novero dei cittadini evidentemente di maggiore dignità. In ogni caso i convenuti, «unanimiter feceno una demonstratione molto grande, offerendo la facultà et la vita» alla difesa del dominio milanese. Poi però, per assicurare la guardia delle mura, l’ufficiale collaborò con 50 «gentilhomini de la citate», non con i rappresentati formali della città e del popolo. Poco dopo tracciò un bilancio del proprio incarico e scrisse al duca del consenso che aveva saputo guadagnare, non presso la popolazione urbana nel suo complesso o le magistrature cittadine, ma ancora fra gli «zentilomini de questa citade» [48]. Un collega condivideva questa immagine della società urbana: l’anno stesso, infatti, il referendario aveva dovuto risolvere un conflitto di competenze tra il commissario stesso e il capitano della città; egli operò in una sede pubblica («nel loco de la Provixione de questa comunità»), ma scelse come interlocutori non i membri dell’ufficio, bensì ancora le figure socialmente eccellenti («tanti zentilhomini informati») [49].
Su coloro che invece non erano gentiluomini né «notabili citadini» si abbattevano i pregiudizi che la cultura aristocratica e urbana da tempo riversava sui «villani». Questi ultimi potevano essere ridotti ad una sorta di minorità politica, liquidati come massa di manovra dei principali. Il podestà di Bormio Gottardo Torgio riteneva che «uno aut tri» maggiorenti fossero in grado di manipolare i passivi consigli del borgo e scaricare sulla comunità tutte le imposizioni e gli oneri che li avessero raggiunti («fano uno consiglio et meteno tuto in comune per mangiare el comune»). Nelle tergiversazioni delle assemblee locali, nel 1490, il suo collega Ottobuono Schiffi non vide un’autonoma iniziativa collettiva, circa la quale era così scettico, ma solo il frutto dell’«istigatione» di due uomini [50]. Quando al contrario il villano si affermava per la forza della sua iniziativa, era subito condannato come disobbediente e protervo, privo della giusta cognizione della propria condizione. Il «principale» poteva servirsi del proprio ascendente in senso positivo, agevolando la realizzazione degli obiettivi del governo locale, o in senso negativo, ostacolandoli; poteva sembrare all’ufficiale anche un «presumptuoso» e «superbo», ma è rarissimo incontrare, nelle scritture dei magistrati sforzeschi e della cancelleria, un vero misconoscimento del suo ruolo. Unanime e severa, invece, era la condanna dell’esponente di estrazione popolare che, divenuto politico di successo, avesse sfidato, per incarico della comunità, un comando del principe o guidato l’opposizione al podestà o al commissario. Nessun mandato conferito dal basso, infatti, poteva giustificare l’esercizio di un potere che non competeva naturalmente al suo grado e rivestire di legittimità la velleità del villano di ergersi, si arrivava a dire iperbolicamente, a signore o a pari del duca di Milano.
Secondo il podestà di Morbegno, il «consule qui de un commune» della giurisdizione in realtà «l’è un capestro» che «credesi essere un segnore»; contrabbandiere, si era fatto conferire la facoltà di portare armi al solo scopo di «sfroxare al suo modo e comettere mille inconvenienti» [51]. Andrea del Zano, che ricoprì numerosi incarichi per la comunità di Tirano, in quota alla parte popolare, nel 1492 anima dell’iniziativa contro la costosa opera di fortificazione voluta da Ludovico il Moro Sforza, era visto dal podestà come «uno de quilli che meneno la ruyna in questa terra» [52]. Uno dei politici più influenti a Bormio fra Quattro e Cinquecento fu il sarto Giacomo Chilley o del Chiledo: di estrazione popolare, capace di scrivere, fu consigliere, deputato alle sentenze, ufficiale maggiore e nunzio del comune a Milano e Oltralpe, beneficiario di una pioggia di altri incarichi particolari. Godeva di una considerazione che lo investiva al di là delle sue ambizioni personali, se a volte fu multato per aver rifiutato di condurre missioni o di svolgere i compiti assegnatigli dal Consiglio ordinario. Stimato anche dai particolari, occasionalmente svolse la funzione di procuratore giudiziario [53]. Eppure i giudizi che il podestà Gottardo Torgio espresse sulla coppia di ufficiali maggiori di Bormio in carica nel 1497 discriminavano nettamente il nobile e il popolare. Egli considerava Giacomo il «principiio» della «liga» dei suoi oppositori, che agiva «cum grandissima prosontione». La connotazione cetuale che l’ufficiale proponeva per i suoi comportamenti era chiarissima: Giacomo era «uno sertore minimo di questa terra», dai modi incomposti tipici del suo ceto (durante un diverbio, alla «risposta sua temeraria & presumptuosa» il podestà «gli risposse che’l parlava secondo il consueto de li pari soy»). A lui il Torgio contrapponeva il collega Egano Grassoni, esponente dell’élite bormiese, dipinto come «homo da bene», fedele e obbediente. La temerarietà di Giacomo, dunque, era tanto più duramente condannata in quanto concepita come il rifiuto di un’ordinata gerarchia degli status, che assegnava i ruoli pubblici e avrebbe dovuto ispirare un senso di soggezione al modesto artigiano il quale, invece, per aver ottenuto soddisfazione ad una richiesta presentata al principe a nome della comunità, agiva ormai «credandosse [...] essere fratello del signore» di Milano [54].
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[34] ASMi, CS, 1158, 1499.06.18.
[35] ASMi, CS, 1622, 1463.05.07, 1463.12.08.
[36] E. MOTTA, Lettere ducali dell’epoca viscontea, «Periodico della Società storica per la provincia e antica diocesi di Como», X (1893), pp. 69–116 e 153–169, p. 84, doc. CCCCLXVI. Su questi aspetti, v. gli elementi già in DELLA MISERICORDIA, Decidere e agire in comunità, pp. 345–348.
[37] ASMi, CS, 741, 1452.05.21.
[38] ASMi, CS, 1157, 1497.04.05. Cfr. ivi, 1497.05.07.
[39] ASMi, CS, 1153, 1491.06.14.
[40] Il resoconto dei lavori dell’assemblea steso dal capitano di valle è coerente con la visione che egli aveva di quel consesso. Il giorno prima il commissario Prospero da Camogli annunciò alla duchessa che, saputo della morte di Francesco Sforza, egli e il capitano di valle avevano convocato il Consiglio di valle per il giorno dopo: «havemo [...] ordinato de havere doman alcuni ellecti cussì de li gentilhomini come de li valariani insieme et farli iurare in le mane nostre» (ASMi, CS, 781, 1466.03.10). Nelle parole del capitano, invece, la fisionomia istituzionale di un organo costituito dal ceto aristocratico della valle e dai rappresentanti dei comuni si dissolse, conferendo visibilità ai soli principali: l’ufficiale, riferendo del giuramento di fedeltà rinnovato agli Sforza, nominava individualmente il cavaliere Antonio Beccaria, Beltramo e Giovanni Brandano Quadrio di Ponte, designava collettivamente «li zentilomini da Pendolasco», genericamente «tutti li altri zentilhomini de tutta la valle», mentre taceva circa i rappresentanti dei «valariani». I designati, inoltre, non prestavano il giuramento direttamente a nome della valle, né in base ad un mandato ricevuto dagli uomini, bensì il Beccaria «per luy, per li fioli et per tutti li soy sequaci»; i Quadrio «a suo proprio nome et
[41] ASMi, CS, 1152, 1490.11.17.
[42] TD, I/3, pp. 1–2, doc. 1282; CHIESI, p. 62, doc. 619 (Giuseppe Chiesi mi ha cortesemente messo a disposizione la trascrizione completa dell’originale). Assicurarono la loro fedeltà 28 uomini, il cui profilo istituzionale non era esplicitato dal documento. Fra essi erano tutti i provvisori eletti per fronteggiare quella particolare congiuntura, quasi tutti i consiglieri, quasi tutti coloro che, il giorno stesso, avevano affiancato come aggiunti questi ultimi per l’elezione dei provvisori e alcuni abitanti eminenti del borgo.
[43] ASMi, CS, 782, 1471.12.16. In seguito parlò dei consigli tenuti dai «deputati con alcuni altri citadini de li principali de la terra» (ivi, 1472.02.03).
[44] I «registri litterarum» di Bergamo (1363–1410). Il carteggio dei signori di Bergamo, a cura di P. MAINONI, A. SALA, Milano, Unicopli, 2003, p. 322. Nel 1410 una supplica fu presentata a Pandolfo Malatesta «pro parte anzianorum et multorum ex civibus vestre civitatis Pergami» (ivi, p. 357).
[45] ASMi, CS, 783, 1476.01.08, 1478.12.06. Dopo l’uccisione di Galeazzo Maria Sforza, il podestà scrisse «stamane ho facto congregare qua li presidenti de questa vostra cità con li principali d’essa» (ivi, 1476.12.26).
[46] ASMi, CS, 720, 1462.01.04.
[47] ASMi, CS, 781, 1470.01.26.
[48] ASMi, CS, 1157, 1499.01.16; 1158, 1499.08.26.
[49] ASMi, CS, 1157, 1499.01.22. Nel 1483 il commissario in Como, dovendo prendere provvedimenti contro la minaccia dell’esercito veneziano, coinvolse «quisti gentilhomini & citadini» (ASMi, CS, 784, 1483.07.17).
[50] ASMi, CS, 1152, 1490.01.27, 1490.02.09. Cfr. G. CHITTOLINI, L’onore dell’officiale, «Quaderni milanesi», 17–18 (1989), pp. 5–55, p. 27.
[51] ASMi, CS, 720, 1462.11.24.
[52] ASMi, CS, 1153, 1492.02.16–18. Cfr. ASMi, CS, 1152, 1490.11.18; 1156, 1494.08.12; SCARAMELLINI, p. 396, doc. 370, p. 418, doc. 404.
[53] ASCB, QC, passim , in particolare ivi, 6, 1513.08.22 per la sua capacità di scrivere; 3, 1499.01.14; 6, 1511.01.05, per le incombenze declinate; ASSo, AN, 408, f. 76v., 1472.11.14; ASMi, CS, 784, 1481.10.19; SCARAMELLINI, p. 383, doc. 346, pp. 386–387, doc. 351 (1490); BESTA, Bormio antica e medioevale, passim.
[54] ASMi, CS, 1157, 1497.05.05–23. Ancora, nel 1477 il commissario incaricato della valutazione e della realizzazione delle opere difensive necessarie nel Bellinzonese, denunciava al duca e alla duchessa «quelo vilano superbo de Clara [Claro], quale è procuratore de dicta terra», «potior causa e principale» nell’impedire che quegli uomini contribuissero nel modo richiesto (TD, III/1, p. 253, doc. 282). Cfr. sotto, nn. [146], [148] e testo corrispondente.