IV. Ambasciatori o principali

4. Ermeneutica podestarile

In più situazioni gli ufficiali sforzeschi e i loro diretti interlocutori a Milano manifestarono una singolare ostinazione ermeneutica, sulla quale è opportuno soffermarsi. Pure le iniziative politiche più largamente partecipate, infatti, non sembrano capaci di incrinare la robustezza dei loro schemi di interpretazione della politica locale. A Bormio nel 1497, nel corso di una dura contrapposizione con il podestà Gottardo Torgio, la comunità inviò più volte a Milano i propri nunzi. La popolazione, come testimonia la stessa corrispondenza dell’ufficiale, mostrò ampia facoltà di controllo e critica dell’opera dei mediatori: all’inizio di aprile gli ambasciatori furono messi sotto accusa («imputando li messi soi») per non essersi rivolti direttamente a Ludovico il Moro; il Consiglio ordinario decise di sostituirli con altri, da inviare nuovamente nella capitale perché realizzassero i voti della comunità, con istruzioni molto stringenti («dovesseno»). Inoltre l’assemblea ristretta non procedette all’elezione e rinviò la scelta dei nunzi al Consiglio generale, sollevando le obiezioni proprio del podestà, che denunciava la decisione di «convocare uno consilio de non più de cento persone, che may non fo de consuetudine nixi una volta l’anno, quando refformano li offitii soy». Lì furono nominati un popolare (il sarto Giacomo del Chiledo) e un gentiluomo (Francesco Alberti). Di fronte ad un così esteso concorso di diversi attori politici, il Torgio continuò a identificare due individui come gli unici soggetti attivi e a squalificare il resto della popolazione come semplice massa di manovra. Mentre il «Consilium, commune et homines terre Burmii» accreditò gli eletti presso lo Sforza come «i nostri nuncii», il podestà affermò infatti che la costituzione di una nuova delegazione era avvenuta in base all’istigazione del «capo di disordini» o ancora «causa de quanti inconvenienti & disordini achadeno in la terra» e di colui che era il «principiio» di tutta la vicenda, «quale s’è fato eligere ad venire a questa impresa», appunto Giacomo e Francesco. Considerando che l’ufficiale non era stato ammesso al Consiglio generale, sapeva poco del dibattito che vi si era svolto («non ho poduto intendere quale sia stato il suo consultare») e parlava esclusivamente per sentito dire («secondo m’è stato refferto»), mi pare plausibile leggere, nella filigrana di questo episodio, le precomprensioni che operavano nella sua interpretazione della realtà locale e nelle sue strategie di intervento, con maggiore certezza di quanto di norma sia consentito in altre occasioni [141].

Se non altro, l’incrocio e la sovrapposizione di tentativi plurimi di manipolare la volontà comunitaria, da parte di principali in competizione fra loro e a volte degli stessi ufficiali, aprivano spazi di iniziativa che gli uomini sapevano sfruttare [142]. Molti, ad esempio, furono i coprotagonisti della lunga lite trascinatasi fra il nobile Giovanni Brandano Quadrio di Ponte e i comuni valtellinesi di Tresivio Monte e Piano, che si contendevano le stesse alpi. Lo scetticismo nutrito verso la possibilità stessa di un’iniziativa promossa autonomamente e collettivamente dagli uomini, mediata da figure cui essi avessero conferito la facoltà di agire per conto di tutti gli altri, generò allora un’affannosa ricerca di occulti sobillatori. La ridda di ipotesi formulate, però, contraddittorie pure a breve distanza di tempo, rende poco plausibile l’immagine di passività politica che si volle proiettare insistentemente sugli uomini. Nel 1470 il capitano di valle Gian Fermo Trivulzio identificava i fomentatori nei fratelli Antonio e Cristoforo Carugo. Essi non erano veri e propri membri di quei comuni, ma espressero comunque la loro prossimità in altri modi: ad esempio nel 1460 l’assemblea dei capifamiglia, convocati per eleggere i procuratori che li rappresentassero nella causa davanti al commissario sforzesco, si tenne alla presenza, fra gli altri, di Cristoforo Carugo, intervenuto come pronotaio. Soprattutto operarono come causidici al servizio delle comunità. Ebbene, scriveva l’ufficiale: «credo questo proceda ad persuaxione d’uno Antonio de Carugo et Cristoforo suo fratello, quali se teneno domini inter istos homines»; e ancora: «luoro [gli homines] non farebeno altro nixi quelo gli consultareveno» [143].

Secondo un altro capitano di valle, Alpinolo de Casate, l’intera vertenza era frutto della responsabilità singolare ora di Moretto de Bonfadino («è stato magna ex parte hactenus casone de la longa differentia vertita tra Zohanne Brandano et li homini de li comune de Trixivio Monte e Piano»), ora di Francesco Quadrio («già longo tempo passato sono governati sotto el suo consilio et adiuto») [144]. Di nuovo per Prospero da Camogli, uno dei commissari inviati per risolverlo, il litigio era alimentato da Francesco Quadrio («se lui volessi, ognuno dice che non se staria una hora ad assettarla la cosa») [145]. Moretto de Bonfadino fu decano di Tresivio Monte e uno di coloro cui le due comunità avevano conferito mandati perché le rappresentasse in giudizio; Francesco Quadrio ebbe un ruolo meno precisato assistendole nella causa, ma non si può escludere che abbia agito come loro procuratore.

Dunque i magistrati ducali furono costretti ad ammettere un concorso socialmente variegato alla controversia: vi avevano parte, infatti, uno dei maggiori nobili della valle (Francesco Quadrio), due notai prestigiosi (i Carugo), un «villano» (Moretto de Bonfadino). Non ripensarono, però, il modello di un’azione collettiva guidata comunque da pochi uomini, tanto che lo stesso Moretto, il quale per le sue umili origini rendeva problematica l’applicazione del consueto paradigma, fu dipinto, secondo un diverso stereotipo, come una sorta di principale alla rovescia. Non il gentiluomo che coopera all’azione di governo, ma la figura comunque singolarmente eccellente, pur nell’insolenza, che trascina gli altri alla disobbedienza: per Alpinolo de Casate era «uno protervo et scelerato di questa vale [...] homo seditioso et de mala conditione» [146].

Altri protagonisti, i signori locali e i capi–fazione, pure estranei alla sfera comunitaria, non si allineavano alle interpretazioni degli ufficiali. Qualificando in modo ibrido la stessa persona, il signore locale Giovanni Beccaria raccomandava a Bartolomeo Calco Cristoforo Quadrio perché «siamo coniuncti de consanguineità» e per il suo ascendente personale (come «homo de quella qualità che l’e»), ma anche perché eletto dagli «homini» [147]. Lo stesso Giovanni Brandano Quadrio, nella disputa in cui era coinvolto, vedeva sì Moretto de Bonfadino come «lo principale de dicti comuni a metere modo a malafare» [148], ma vincolava i Carugo alle comunità con parole ben diverse da quelle del capitano di valle. Cristoforo era «procuratore et solicitatore de essi homini»; i due fratelli e il padre defunto Giacomo erano «stati alcuni de loro in sindicati, alcuno in processo, alcuno in compromisso [...] como homini de li communi de Trixivio Monte et Plano»; li riconosceva, in sostanza, «como persone de dicti comuni» e non come loro pseudo–signori [149].

Nel 1481 i potenti Giovanni Beccaria e Giacomino Quadrio da un lato, il capitano di Valtellina Alpinolo de Casate, dall’altro, in due lettere stese ad un paio di giorni di distanza l’una dall’altra, diedero una rappresentazione molto diversa dell’opposizione che cresceva in valle contro l’ufficiale. Alpinolo intendeva smascherare una macchinazione orchestrata da Giovanni Beccaria, sostenuto dai clienti che egli teneva legati a sé grazie alla concessione della terra e ai decani, non tanto come ufficiali delle comunità, ma come suoi «amici». Grazie a queste forze, il nobile sondriese aveva sollevato la valle contro di lui. Completamente assente, nelle parole del magistrato sforzesco, era il Consiglio generale, l’organo in cui, in effetti, sedevano tutti i decani della valle, che però, come dicevo, nella lettera di Alpinolo sembrano agire esclusivamente in quanto aderenti dei Beccaria («ha facto molte pratice contra de mi, et ha mandato per molto soy massarii et dechani quali li sono amici et li à reduto acontentarsi de lamentarse de mi»). Per contro, il Beccaria e il Quadrio descrivevano la manifestazione di una volontà unitaria dell’università di valle, tramite procedure istituzionali, e una serie di incarichi formali che consentivano di interpretarla di fronte al duca. Gli uomini di Valtellina «feceno per Consilio generale [...] de dicta valle querella» circa la condotta dell’ufficiale e «sporseno una suplicatione sottoscripta de mani de li homini». Ad un nuovo Consiglio generale, regolarmente convocato dal capitano, «tuti unanimiter et nemine eorum discrepante» espressero il loro malcontento. In quella sede «remisseno a nuy duy dovere rescrivere ad quella [Signoria] li soy mali deportamenti [...] como del tutto ne consta instrumento», probabilmente da identificarsi con «l’ordinatione e provisione fatta dal cancelliere della valle» allegata alla lettera, anche se oggi perduta. I due gentiluomini, stando al loro racconto, avevano intrapreso la scrittura della lettera solo perché gli uomini avevano più volte richiesto di «exequire quanto era ordinato per il loro Consilio». Nel medesimo testo, infine, annunciavano l’arrivo a corte dei «messi» dell’università incaricati di certiorare il principe dell’«ordinatione facta per el suo Consilio generale et como fu concluso e deliberato» in quella sede. Nella narrazione del Beccaria e del Quadrio i legami informali e le lealtà personali avevano semmai costituito motivo di intralcio all’iniziativa della comunità. Dopo la prima supplica, infatti, Alpinolo «pratica cum alcuni soy amici et li fece fare certe protestatione» in cui dichiaravano di essere soddisfatti del suo governo. Il Quadrio e il Beccaria riconoscevano inoltre di aver differito la scrittura delle lettere che interpretavano l’insoddisfazione dell’università perché pregati da «molte persone da bene benivole et parente de dicto meser Alpinolo» [150].

Sebbene alcune comunità ostili al de Casate si fossero in effetti pronunciate formalmente, è realistico pensare che nella circostanza il Quadrio e il Beccaria avessero effettivamente esasperato i termini della disputa. Dopo una settimana, infatti, furono contraddetti da una nuova versione della vicenda, prodotta dal «comune et homines Tirani et totum Terzerium Superiore Vallistelline», che smentiva «alchuni de questa valle, i quali a nome de noy tuti» si erano lamentati del capitano. Dicevano «non li è persona alchuna che maie da nuy havesse simile commissione». La federazione corrispondente al segmento superiore della valle, però, non maturava per questo alcuna ragione di sfiducia verso i meccanismi della decisione formale e collettiva; anzi, si richiamava ad essi per accreditare la sua versione dei fatti: «havemo per publica provixione deputato in nostro syndicho» un nobile della terra, perché si presentasse al duca che, pregava, «li voglia dare piene fede como a nuy proprii» [151].

Il prosieguo della vicenda dà adito a meno dubbi circa la possibile intenzione dei potenti locali di celarsi dietro i pronunciamenti delle comunità, mette di nuovo a confronto la lettura degli eventi e i progetti di intervento di un commissario sforzesco e dei membri dell’aristocrazia signorile. Nicodemo Tranchedini di Pontremoli giunse in Valtellina per sedare il conflitto, che egli vide esclusivamente come frutto degli odi fra i principali («ho trovato questa vale in grande divisione et discidio fra li principali»), da sanare mediante la loro riconciliazione («sopire li discidii et rancori sono fra questi principali»), ricucendo pure i rapporti fra loro e il capitano di valle («adaptare che’l tornasse cum voluntà de gentilhomini a quali lui è exoso»). Gli stessi principali con cui il Tranchedini trattava, gli esponenti dei Beccaria e dei Quadrio, premettero invece con molta insistenza sul commissario, alla fine convincendolo, per una riunione formale dei consoli e degli altri rappresentanti dei comuni nel Consiglio generale di valle [152].

Insomma, gli orientamenti del personale sforzesco appaiono così generalizzati e pervicaci, a volte così distanti da quelli degli altri protagonisti della vita politica, da meritare un’attenzione specifica e un tentativo analitico di spiegazione, a maggior ragione se si considera quanto in profondità hanno segnato le forme del governo e, tuttora, la nostra ricostruzione della storia della Lombardia alla fine del medioevo, condotta sulla base della ricca corrispondenza che ci è giunta. Sappiamo ancora poco della cultura dei magistrati periferici del dominio; i valori di ascendenza aristocratica e urbana, i codici di comportamento cortesi, già esaminati altrove e qui evocati rapidamente, considerata anche la natura eterogenea di questo ceto, possono pertanto essere solo un punto di partenza nell’indagine circa i motivi per cui essi hanno lasciato racconti delle realtà locali ispirati da una visione decisamente riduzionistica delle istituzioni [153].

Innanzitutto, lo accennavo, doveva incidere l’estrazione urbana di un numero rilevante di ufficiali: se quanto è emerso per Como è estendibile al resto del dominio, sarebbe plausibile che l’acculturazione politica di questi uomini avesse reso loro familiari e accetti il restringimento della popolazione politicamente capace al novero dei principali e dei «boni homini» verificatosi nelle città, il forte filtro sociale che, di conseguenza, si era posto tra la collettività e i reggitori che agivano in sua vece. Essi, dunque, giungevano nelle località rurali cui erano destinati con una concezione analitica della comunità, dall’identità sbiadita e articolata in segmenti sociali di differente prestigio, suggerita da una lettura, in effetti non priva di ragioni, dell’esperienza urbana, che però li conduceva a operare delle forzature interpretative di realtà di villaggio e di borgo in cui la tradizione partecipativa e gli ideali ugualitari di ascendenza comunale erano più vitali.

In secondo luogo, il personale del governo periferico proveniva da famiglie urbane e rurali di vario livello che però, nei centri di origine, sarebbero state annoverate tra le «principali» e dunque, nel riconoscere in loco il ruolo dominante di pochi uomini di grande reputazione, appagava in qualche modo il proprio orgoglio di ceto. È vero che, come si vedrà di seguito, i medesimi principali appaiono assai tentennanti, quando non restii, ad assumere quelle responsabilità per conto delle comunità che gli ufficiali invece attribuivano loro direttamente. A vincere questa esitazione, forse radicata pure nei convincimenti dei podestà, concorreva presumibilmente la stessa logica del ruolo. Così abbiamo identificato un terzo elemento: acculturatisi nei più diversi ambienti sociali, ma temporaneamente impegnati al servizio dei duchi, mutuavano i valori di matrice aulica ed autoritaria che da Milano, come dimostra la corrispondenza, si alimentavano in ogni modo, esigendo un’estrazione sociale elevata per chi rappresentava la comunità al cospetto degli Sforza, dilatando l’arbitrio del principe e di coloro che dovevano eseguirne i comandi nella scelta di quanti operavano a nome dei sudditi, eludendo o condizionando dall’alto le procedure normali della decisione collettiva.

Infine doveva essere condizionante la scarsa esperienza locale di un personale itinerante che, con qualche eccezione, ogni biennio abbandonava la carica e la sede in cui aveva operato e si trasferiva ad altra carica e ad altra sede. Evidentemente anche la sommaria «instructio» preparata in cancelleria, almeno in certe circostanze, in occasione dell’insediamento del podestà, relativa alle prerogative e alla posizione strategica della terra affidatagli, alle cause di conflitto politico e ai problemi giudiziari che vi avrebbe trovato, non era sufficiente a introdurlo in quella realtà, sempre che non avesse addirittura effetti depistanti. Ora, i magistrati inviati al governo della zona alpina e prealpina del dominio, cui sono principalmente dedicate queste pagine, erano sovente originari di diverse realtà provinciali, quando non regionali, non sempre segnate dal protagonismo delle istituzioni comunitarie che è emerso per quest’area.

Tenuto conto di tutto ciò, il periodo di esercizio della carica diveniva anche un non facile percorso intellettuale di scoperta degli assetti peculiari della società di cui si assumeva il governo, delle ragioni che vi alimentavano le più radicate tensioni politiche, dei soggetti più attivi, ovvero di interazione fra modelli culturali acquisiti, esperienze passate, nuove circostanze da interpretare. Ho già mostrato come un osservatore, senz’altro acuto, poté giovarsi della permanenza per dodici anni nella carica di commissario di Domodossola per svolgere in modo sempre più penetrante la propria analisi del sistema clientelare locale, nonché dei ruoli e doveri reciproci che esso codificava [154]. Un’altra vicenda può mostrare quanto accidentato fosse questo processo di accostamento dell’ufficiale insediato alla realtà locale, quanti pregiudizi cetuali, con il loro portato di approssimazioni e semplificazioni, dovesse superare, quanti mesi richiedesse approfondire o correggere le impressioni iniziali: mi riferisco all’acculturazione politica di Bartolomeo Caimi, podestà di Teglio, presso il confine con il dominio di Venezia, negli anni 1484–1488.

Di nobile famiglia milanese radicata nel contado, era stato preceduto nello stesso luogo e nel medesimo ruolo dal consanguineo Boniforte (1480–1482). Vantava un significativo cursus honorum in cospicue podesterie e capitanati rurali, specialmente nella zona alpina, ma quando giunse a Teglio doveva ignorare i peculiari equilibri di forze che vi si stavano definendo. La comunità, infatti, un decennio prima del suo insediamento, si era misurata da pari con «el primo homo de quella terra», Giovanni Besta, guadagnandosi anche il favore del principe e del commissario Azzo Visconti. Solo tre anni prima, inoltre, aveva rifiutato al principale che Bartolomeo sceglierà come interlocutore privilegiato, Matteo Besta, il compenso di una missione, per il fatto che questi non aveva «servato la forma dil suo mandato», conducendo in ritardo le armi che doveva portare da Milano e non fornendo la dovuta «relatione» al Consiglio: così gli negò risolutamente un ruolo di mediazione fra il principe e i sudditi incondizionato e poggiante sulla sua sola autorità personale [155].

Come se niente fosse avvenuto, il resoconto dell’ingresso nella terra affidata al suo governo che Bartolomeo Caimi stese per il principe il 4 febbraio 1484 registra soltanto le figure dei Besta, mentre la presenza degli uomini si perde nello sfondo: «sono adivenuto ad la vostra terra de Tellio et ho ritrovato prima el nobile d. Matheo de Besta, iurisperito, cum soi fratelli, et lhi altri homini de dicta iurisdictione de Tellio, quali me hanno acceptato gratiosamente». Bartolomeo si mostrò impegnato da subito nella difesa della giurisdizione da un’eventuale aggressione veneziana e la ricerca degli interlocutori per affrontare i problemi confinari è pienamente coerente con la prima impressione della realtà locale: si consultò con i soli «gentilhomini» ed esclusivamente a loro chiese, ottenendola, piena collaborazione. Per quanto riguardava il coinvolgimento, pure necessario, degli uomini, invece che dialogare con l’istituzione comunale e le sue articolazioni di contrada, accettò in toto la mediazione offerta dai Besta e si rimise ai canali aperti dal loro ascendente di grandi proprietari e dalla loro rete di amicizie. «Ne parlai prima cum Matheo et lhori fratelli da Besta [...]. Dito et facto, mandorono in Avrigha» (Aprica, la contrada di frontiera) ad «avisare quelli soi fictabili et homini in quello loco et lhe parte circumstante stesseno vigilanti, solliciti et attenti al passo de Avrigha»; «et alchuni ne mandorono in Vallecamonica secretamente da certi soi amici per intendere la veritate dil tutto». Infatti «se pono valere, epso d. Matheo et fratelli, di soi homini in quelle parte [...] quanto bisognasse ad defensione et custodia di quello loco». Solo alla fine della lettera apriva uno spiraglio sugli uomini e le loro istituzioni. Bartolomeo riferiva infatti di come il capitano di Valtellina avesse condotto delle esecuzioni di giustizia «contra de dicti genthilhomini et comunitate», ma continuava accentuando soprattutto il ruolo dei primi (il collega avrebbe agito in spregio dei «gentilhomini da Besta», che ne avevano personalmente parlato con il Caimi); raccomandava comunque al principe gli uni e gli altri e lo pregava, in chiusura, «se degne scrivere al dicti genthilhomini et comunitate» per esortarli alla difesa dei passi alpini [156].

Il 25 febbraio di nuovo esaltava la fedeltà e l’adoperarsi per la protezione del confine dei «zantilhomini et homini de Tellio», questi ultimi più defilati ma non assenti nel nuovo scritto, e chiedeva per entrambi la grazia dei principi. Il 1° e il 2 marzo esaltava invece la fedeltà dei soli gentiluomini, citava esclusivamente i Besta come validi collaboratori alla sua opera di rafforzamento della frontiera e raccomandava le loro persone e le loro esigenze all’attenzione ducale. Nella seconda circostanza deplorava la condotta del nobile di origine esterna Gian Battista Federici, che interferiva circa l’interdizione delle esportazioni di derrate alimentari, ancora «in desprexio de diti zentilhomini de Tellio» [157].

Intanto però la comunità veniva compiendo gesti politici significativi, che Bartolomeo non poteva aver mancato di osservare e registrare. Il 24 febbraio fu inviato a Milano, sottoscritto dal «commune et homines Tilii», un elogio del podestà, che provvedeva tanto allo stato quanto al bene dei «devotissimi servitori zentilhomini, comune et homini de Tilio», e si adoperava per il rispetto dei privilegi della terra. Il 2 marzo, nelle vicende inerenti alla difesa del confine e alla vigilanza sul contrabbando, quando le lettere del Caimi individuavano ancora il ruolo dei soli gentiluomini, intervenne con una propria lettera il «commune et homines Telii», che parlò delle «nostre guarde» poste ai confini e di un sequestro cui esse avevano proceduto in collaborazione con gli armati dell’ufficiale, chiedendo per il «nostro d. potestate» l’importante commissione sulle vettovaglie. Il 10 marzo anche il capitano di Valtellina vedeva soprattutto il comune di Teglio e i suoi agenti operare, in concorrenza con la sua iniziativa, lungo la via dell’Aprica [158].

Da quelle settimane la corrispondenza dell’ufficiale mostra come egli, a poco a poco, imparasse a vedere protagonisti diversi da quelli che in un primo momento aveva saputo rilevare in modo pressoché esclusivo. Nella sua lettera del 10 marzo non erano più i gentiluomini, che non venivano nemmeno evocati, né gli indistinti «homini», ma «li conscilieri de la [...] terra de Tellio» a vigilare sul transito commerciale verso la Valcamonica attraverso il passo di Aprica. Si tratta, nella corrispondenza del Caimi, della prima menzione di una magistratura del comune di Teglio, in precedenza mai comparso con la propria organizzazione istituzionale e sempre risolto, invece, nella sua famiglia eccellente e nella massa anonima degli uomini. Il podestà, poi, continuava, esaltando la fedeltà di questi ultimi e difendendo la competenza dei consiglieri nell’autorizzare le esportazioni, messa in dubbio da Gian Battista Federici [159].

Pure il principe, in due lettere scritte fra il 10 e il 15 marzo, si rivolse congiuntamente al comune di Teglio e al podestà per disporre la liberazione di un bergamasco arrestato con l’accusa di contrabbando. In questa vicenda il comune intervenne energicamente con un proprio scritto per difendere le ragioni dell’azione intrapresa dai suoi agenti e dal podestà, e mentre si scusava per aver suscitato la disapprovazione di Gian Galeazzo Maria Sforza («se degni havere epso d. potestate et nuy per excusati»), si presentava come promotore dell’iniziativa. Erano infatti i tellini ad aver sollecitato Bartolomeo Caimi ad agire; poi avevano mandato un proprio messo al duca per ascoltarne gli ordini e infine, il 18 marzo, gli avevano scritto per ridiscutere la cosa e placarne l’irritazione. Circa la stessa questione, il podestà si rivolse al principe con un giorno di ritardo (il 19) e non fece altro che confermare la versione degli uomini (egli aveva agito su richiesta di «alchuni del Consilio»), mentre, di nuovo, non accennava al ruolo dei gentiluomini. Il 23 marzo, ancora, il comune mostrava impegnati nel contrasto del contrabbando, all’unisono, il «nostro potestate et nostre guarde», difendendo l’efficacia e la correttezza dell’azione propria e dell’ufficiale [160].

Il 6 aprile Bartolomeo Caimi annunciava a Bartolomeo Calco il suo arrivo a Milano «cum duy de li megliori di la terra da Tilio», che però non venivano designati nominalmente. Infine, ancora alla fine di luglio, il podestà chiedeva al principe di impedire le interferenze giurisdizionali del capitano di Valtellina Francesco Rusca, così «complacerà ad li vostri homini da Tilio» [161].

Insomma, è possibile ripercorrere punto per punto lo slittamento dell’attenzione dell’ufficiale dai gentiluomini agli uomini e le loro forme di organizzazione istituzionale, intervenuto nel giro di alcuni mesi. La collaborazione podestà–gentiluomini per la difesa del passo di Aprica e l’interdizione del commercio illegale diventa un’intesa podestà–uomini, che poi si precisa nel rapporto con le magistrature comunitarie; l’insolenza di Gian Battista Federici è un oltraggio ai Besta il 3 marzo, ai consiglieri di Teglio il 10; le interferenze del capitano di Valtellina calpestavano le prerogative dei Besta a febbraio, quelle della comunità a luglio. Visibili e designati singolarmente con nome e cognome sono a febbraio i Besta, che sono così sempre posti «prima» degli indistinti «homini» di Teglio nei resoconti di Bartolomeo; poi è la comunità ad essere meglio profilata nei suoi dispacci, con la designazione esplicita e puntuale delle magistrature che rappresentavano gli uomini, mentre l’élite locale viene avvolta dal silenzio (dal 2 marzo le lettere dell’ufficiale non menzionarono più i Besta) o scivola nell’anonimato di un’indicazione come quella relativa ai non meglio precisati «meliori» (il 6 aprile).

Ora, niente fa supporre un mutamento della rete delle alleanze politiche, per cui il Caimi, prima solidale con i gentiluomini, si sarebbe orientato poi a favore della comunità; ancora meno plausibile è l’ipotesi dell’eclisse del solido ascendente locale dei Besta. Piuttosto, credo che queste lettere svelino con rara chiarezza l’evoluzione della percezione di un podestà, che all’inizio del suo mandato seppe vedere il territorio soltanto come il campo d’azione di una famiglia di nobili, che ne penetrava ogni articolazione (le contrade periferiche del comune, le strade e i passi) grazie ai suoi amici e ai suoi massari, una potenza privata e una rete informale rispetto alla quale gli uomini costituivano una massa opaca sullo sfondo. In seguito, posto di fronte ad un’indiscutibile e forse sorprendente capacità politica, risituò l’autorità di questi stessi aristocratici entro la comunità e i suoi organi formali, che guadagnarono la ribalta e inglobarono i «meliori de la terra» [162].


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note

[141] ASMi, CS, 1157, 1497.04.05, 1497.05.05, 07 e 21. Della situazione che si illustra a n. [215] e testo corrispondente, il capitano di Domodossola riteneva responsabile i nunzi del comune e un potente locale.

[142] Nel 1488, al cospetto del vicario vescovile di Como, un procuratore di sette comuni del Terziere Superiore riferì che gli uomini avevano nominato tre influenti sindaci – Luigi e Stefano Quadrio di Ponte, Bartolomeo Lambertenghi – allo scopo di porgere ad Ascanio Maria Sforza, signore della Valtellina, le loro lamentele contro il podestà del detto Terziere. Quest’ultimo, informatone, esercitò pressioni perché i decani dichiarassero di fronte a un notaio di non aver agito «sponte et voluntarie quin ymo [...] metu et contemplatione ipsorum d. Aluisii et consortium». In seguito, però, i rappresentanti degli stessi comuni chiesero e ottennero dal vicario del vescovo di Como che venisse annullato il giuramento con cui si erano impegnati a non compiere più alcuna azione contro il magistrato (ASSo, AN, 75, ff. 421r.–422v., 1488.05.13).

[143] ASMi, CS, 781, 1470.05.23. Cfr. ASSo, AN, 142, ff. 138r.–141r., 1460.11.10.

[144] Nell’ordine ASMi, CS, 720, 1462.08.15, 1463.08.31.

[145] ASMi, CS, 720, 1465.11.17.

[146] ASMi, CS, 720, 1462.08.15. Sulla sua attività, ASSo, AN, 142, ff. 138r.–141v. e 145r., 1460.11.10–11; 295, ff. 266v.–267r., 1467.01.05; ff. 314r.–315r., 1466.02.02. Cfr. M. DELLA MISERICORDIA, La mediazione giudiziaria dei conflitti sociali alla fine del medioevo: tribunali ecclesiastici e resistenza comunitaria in Valtellina, in Criminalità e giustizia in Germania e in Italia. Pratiche giudiziarie e linguaggi giuridici tra tardo Medioevo ed età moderna, a cura di M. BELLABARBA, G. SCHWERHOFF, A. ZORZI, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 135–171, pp. 139–144.

[147] ASMi, CS, 1153, 1492.02.21. V. ancora SCARAMELLINI, p. 359, doc. 297.

[148] ASMi, CS, 720, 1462.08.15 e 19. Cfr. F. DEL TREDICI, Comunità, nobili e gentiluomini nel contado di Milano nel Quattrocento, tesi di dottorato di ricerca, Università degli studi di Milano, XXI ciclo, 2009, tutor G. Chittolini, p. 282, n. 21, per una condanna inflitta a «quelli che forano principalli a fare rebellare [...] dicto loco».

[149] ASMi, CS, 781, s.d.

[150] ASMi, CS, 784, 1481.06.10–12.

[151] ASMi, CS, 784, 1481.06.20. Cfr. DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità, pp. 651–652, 659.

[152] ASMi, Comuni, 87, Valtellina, 1481.07.27. Cfr. DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità, pp. 635–636. In una diversa circostanza, però, Giovanni Beccaria, impegnato da Milano a raccogliere le promesse delle comunità per il sostegno finanziario della fortificazione di Tirano, adottò la più comune visione riduzionistica: scrisse che i tre influenti deputati degli uomini che non obbedivano «inducano l’altre persone de la valle in non voler exequire» (SCARAMELLINI, p. 412, doc. 395).

[153] Cfr. CHITTOLINI, L’onore dell’officiale; F. LEVEROTTI, Gli officiali del ducato sforzesco, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Quaderni», serie IV, 1 (1997), pp. 17–77; DELLA MISERICORDIA, Decidere e agire in comunità, pp. 322 e sgg.

[154] M. DELLA MISERICORDIA, La «coda» dei gentiluomini. Fazioni, mediazione politica, clientelismo nello stato territoriale: il caso della montagna lombarda durante il dominio sforzesco (XV secolo), in Guelfi e ghibellini nell’Italia del Rinascimento, a cura di M. GENTILE, Roma, Viella, 2005, pp. 275–389, pp. 322–326.

[155] C. SANTORO, Gli uffici del dominio sforzesco (1450–1500), Milano, Fondazione Treccani degli Alfieri per la storia di Milano [1948], p. 271 e ad indicem; DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità, pp. 134–135, 137.

[156] ASMi, CS, 1152, 1484.02.04.

[157] ASMi, CS, 1152, 1484.02.25, 1484.03.01–02.

[158] ASMi, CS, 1152, 1484.02.24, 1484.03.02 e 10.

[159] ASMi, CS, 1152, 1484.03.10.

[160] ASMi, CS, 1152, 1484.03.18, 19 e 23.

[161] ASMi, CS, 1152, 1484.04.06, 1484.07.31.

[162] Certo, l’esperienza locale poteva anche trasmettere insegnamenti diversi o nessun insegnamento: Francesco Creppa, podestà di Bormio, decise di consultare solo alcuni esponenti della nobiltà e non tutta la popolazione della giurisdizione di Tirano, perché, essendo stato in precedenza ufficiale in quella sede, riteneva di essere in grado di identificare gli interlocutori più influenti («cognoscendo io che dicti gentilhomini sono prencipio, mezo et fine de dicta iurisdictione, e questo perche altre volte fuy lì potestate et credo intendere una granda parte quello voleno in queli loci») (ASMi, Comuni, 12, Bormio, 1477.08.13).