Nella maggior parte delle comunità rurali della zona considerata più da vicino, invece, la popolazione residente e dotata di pieni diritti tratteneva significative responsabilità decisionali, esercitate in consessi larghi, fino a quello più inclusivo, costituito da tutti gli uomini del comune, dunque senza rimetterle del tutto ad una sua limitata componente.
Nel XIII e spesso ancora nel XIV secolo gli atti del comune (investiture terriere, operazioni fondiarie per conto della chiesa, obblighi di pagamento) non erano sbrigati da commissioni ristrette o da procuratori; vi attendeva invece la riunione dei capifamiglia nel suo complesso: la «vicinantia» [14]. Nel corso del Quattrocento, invero, in particolare nelle località più popolose, l’assemblea generale divenne soprattutto il luogo di costituzione delle magistrature ristrette, detentrici delle concrete facoltà di governo e di amministrazione. A volte si formarono anche commissioni, all’inizio di natura straordinaria, cui erano conferite mansioni assai estese, nelle fasi di incertezza determinate da crisi dinastiche o guerre, ma, fatto ancora più significativo, pure nei momenti ordinari della vita locale [15]. Neanche le università federali restarono estranee ai processi di concentrazione delle responsabilità esecutive, allorché pochi deputati poterono esercitare le prerogative delle assemblee larghe e dunque sostituirle. L’accesso a queste magistrature divenne socialmente più selettivo: senza chiusure, assumere la guida dei maggiori comuni divenne più difficile per gli artigiani, i mugnai, i contadini che avevano partecipato della loro direzione politico–amministrativa, soppiantati, fra Quattro e Cinquecento, da professionisti, «nobiles» proprietari, mercanti e dazieri; anche nel maneggio degli affari delle federazioni crebbe il peso degli uomini di estrazione aristocratica o dei membri della nuova élite postasi ai vertici delle comunità [16].
Nonostante tutto, però, ritengo che non siano da sottovalutare le molte indicazioni di segno opposto. Gli statuti assai raramente specificavano il profilo di coloro che dovevano ricoprire gli uffici, al massimo prescrivevano che gli eleggibili fossero uomini fra i più abili ed esperti della popolazione, non certo i «migliori» per estrazione sociale, non offrendo, dunque, una sanzione normativa alle chiusure [17]. Quando le assemblee larghe formarono dei collegi o incaricarono alcuni uomini di mansioni ordinarie o di responsabilità straordinarie, almeno fino al pieno Quattrocento e nei centri minori anche in seguito, contornarono a volte gruppi amplissimi, che potevano giungere alla terza parte circa della popolazione politicamente attiva [18]. Quando invece i numeri erano più bassi, rigidi meccanismi di lottizzazione e di rotazione regolarono la spartizione e l’alternanza degli ufficiali fra le diverse unità territoriali, le parentele e i ceti, anche i più umili, costituenti il comune.
Inoltre le comunità preferirono non assegnare responsabilità troppo estese nemmeno ai vertici istituzionali che costituivano. Il console o decano unico, nella zona la magistratura guida del comune rurale, fu spesso sostituito, a partire dal XV secolo, da collegi di ufficiali, che restavano in carica un anno. Ebbene, i nomi stessi dei componenti di queste magistrate esecutive – a volte ancora consoli, ma più spesso «sindici» o «procuratores» o «nuntii» – contribuivano se non altro a rappresentarli come dei mandatari della vicinanza. Statuti e ordini limitavano le competenze dei comitati ristretti: senza la ratifica dei consigli larghi e alle volte delle assemblee di tutti i capifamiglia, ad esempio, essi non avrebbero potuto alienare i beni comunali o disporne il godimento, ammettere i forestieri tra i vicini a pieno titolo, deliberare spese straordinarie, interpretare la volontà collettiva mediante scritture indirizzate agli ufficiali statali, assumere decisioni in frangenti straordinari o in generale «in cose d’importanza e di valor grande» [19].
Tali attribuzioni non erano diritti opachi e residuali, come dimostrano le reazioni delle vicinanze quando ritenevano mortificato il loro ruolo [20]. Consoli, consiglieri e sindaci non celavano i condizionamenti dell’autorità loro attribuita: in calce ad una lettera che, a nome dei rispettivi comuni, respingeva un candidato alla podesteria locale, gli agenti di Albaredo e Delebio apposero la propria sottoscrizione precisando di aver conseguito l’assenso dei loro vicini, adeguatamente informati («habita partecipatione cum hominibus dicti communis», «pro dito comuni et compartecipazione hominum diti comunis» o addirittura «de impoxitione communis et hominum») [21]. Nei consigli delle comunità federali, poi, i consoli e i rappresentanti dei comuni, prima di pronunciarsi su questioni vitali, tornavano regolarmente a informare e consultare la popolazione, perché si esprimesse esplicitamente e conferisse loro istruzioni più precise [22].
In più, allorché stipulavano compromessi e arbitrati, concludevano vendite del patrimonio collettivo, appaltavano dazi, stabilivano gli ordini del comune, lo rappresentavano nei consigli federali, dialogavano con le autorità statali, i consoli e gli altri magistrati ordinari venivano spesso affiancati da altri uomini, magari i membri di un più ampio consiglio o i procuratori eletti appositamente per la circostanza dall’assemblea dei capifamiglia. Riportando al commissario ducale l’esito della consultazione della popolazione relativa al favore di cui godevano i feudatari, i consoli dei comuni della Valchiavenna furono sempre affiancati da numerosi aggiunti («comparseno quelli de la valle Sancto Iacomo cum multe persone», «comparseno il consule de Mese et Samolago cum parechii homini», «comparseno il consule de Gordona cum homini 14») [23]. A Grosio fu sentita la necessità, a seguito dell’alienazione di uno dei castelli che sorgevano nel territorio, il cui possesso era pervenuto alla collettività, stabilita dal decano, tre consiglieri e 29 uomini, pure agenti a nome del comune, di una ratifica prestata dall’altro dei consiglieri in carica e da altre 94 persone [24].
Oppure, nelle circostanze identificate, i magistrati dovevano conseguire dalla vicinanza un’esplicita estensione ad hoc delle loro prerogative [25]. Gli abitanti di Grosio, all’inizio del XVI secolo, rimproverarono il loro mancato coinvolgimento in una vicenda giudiziaria al decano, che si era mosso senza che essi avessero «scientia» della cosa e soprattutto «non adhibito spetiali consensu unanimiter ad hoc per totum commune». Di conseguenza sconfessarono in giudizio l’assenso che egli prestò ad un arbitrato senza l’apposito mandatum approbandi [26]. Per dirimere la questione, allora, fu necessario verificare, nell’istrumento di sindicatus, le formule di designazione e i nomi di coloro che erano stati eletti ad agire per il comune durante la lite. Ricordò in proposito il notaio estensore del compromesso e del lodo arbitrale di aver visionato il documento «exhibitum ad legiptimationem» degli agenti del comune di Grosio al momento della designazione dei mediatori: il «capitulum ad compromittendum erat in totum extensum, similiter ad emolegandum arbitramenta» ed il decano in carica era effettivamente nominato fra quanti venivano incaricati della soluzione della disputa [27]. Pure ai procuratori che affiancavano o sostituivano i consoli erano conferite facoltà assai circoscritte, specificate in modo particolareggiato e limitate nel tempo (stipulare un compromesso in una certa vertenza, contrarre una determinata obbligazione e così via), sicché ogni dilatazione della loro autorità al di là della singola circostanza avrebbe richiesto una nuova riunione dei capifamiglia e la ridefinizione del mandato. La vicinanza di Cosio nel 1491 elesse i sindaci che stipulassero un compromesso per porre fine alla controversia con un comune confinante, si riunì poi per confermarne l’operato e li reinvestì dell’incarico ulteriore di ratificare l’arbitrato [28].
In situazioni estreme, le manifestazioni di piazza, che affiancavano l’azione dei procuratori della comunità o ne contestavano una deliberazione, ribadivano la facoltà che la popolazione sentiva propria di smentire in ogni momento, con un’espressione diretta della sua volontà, l’operato di quanti pure aveva incaricato di agire a suo nome.
Queste pratiche partecipative trovavano un riscontro diretto nelle formule di sottoscrizione delle lettere inviate dalle comunità agli Sforza. Le loro magistrature ristrette e i loro organi di rappresentanza affermavano chiaramente, come in città, la propria facoltà di agire per tutti i vicini. Nel contado, però, il più delle volte la sottoscrizione si limitava all’endiadi «commune et homines», semmai affiancata, nel caso soprattutto dei centri maggiori, ma di norma non sostituita dalla menzione di singoli ufficiali o consigli. Fra le sottoscrizioni delle circa cinquanta missive del comune di Bormio che ho schedato nel Carteggio Sforzesco, una identifica i soli «officiales et Consilium Burmii», un’altra i «pressidentes et deputati ad regimen et negocia tocius communitatis Burmii» [29]. In tutti gli altri casi, la formula Conscilium, commune et homines terre Burmii (o oppidi Burmii o municipii Burmii) non si semplifica mai con l’omissione della menzione del comune e degli uomini, piuttosto, fino alla fine del secolo, con la caduta di quella del Consiglio («homines et commune Burmii» ancora nel 1497) [30]. Le soluzioni, poi, restano sempre reversibili e non manifestano alcuna irrevocabile cessione di potere dai consigli larghi a quelli ristretti. Nel 1477, ad esempio, sottoscrissero la lettera i soli «procuratores» del comune di Mandello, nel 1478 i «procuratores, commune et homines Mandelli», poi gli «homines castri Mandelli» [31]. Negli ultimi lustri del Quattrocento, si direbbe riproducendo il linguaggio urbano, gli autori dichiarati delle lettere si riducono spesso ai presidentes al regimen o ai negotia di un comune o di una federazione, eppure ancora allo scadere del secolo, nelle sottoscrizioni come nella pratica, tutti gli uomini possono affiancare gli ufficiali in carica («sindici, consules et credentiarii, commune et homines vestre vallis Antigorii») [32].
Infine, si trattasse di consoli, con compiti formalmente accresciuti o meno, sindaci, membri di un collegio più o meno esteso, in ogni caso la responsabilità di agire per la comunità era conferita in modi giuridicamente definiti ad ufficiali, non era mai un attributo personale dei gentiluomini locali, per quanto investiti di reputazione e impegnati in politica. Gli statuti di Carona e Valsolda ritennero opportuno specificare esplicitamente che solo i consoli e i consiglieri potevano impegnare i loro vicini; un atto eseguito a nome della comunità da altri senza mandato speciale non li avrebbe obbligati in alcun modo [33].
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[14] Cfr. KELLER, La decisione a maggioranza, p. 53.
[15] CHIESI, p. 61, docc. 616, 618, 625, 626, p. 65, docc. 665–666, p. 67, doc. 691, p. 82, doc. 850, p. 86, doc. 896, p. 93, doc. 972, p. 106, doc. 1111, p. 125, doc. 1328, p. 127, docc. 1351–1352, p.132, doc. 1408; ID., Bellinzona ducale. Ceto dirigente e politica finanziaria nel Quattrocento, Bellinzona, Casagrande, 1988, pp. 76–79; E. BESTA, Bormio antica e medioevale e le sue relazioni con le potenze finitime, Milano, Giuffrè, 1945, p. 160; ASSo, AN, 669, ff. 129r.–130v., 1522.12.26.
[16] DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità; M. DELLA MISERICORDIA, I nodi della rete. Paesaggio, società e istituzioni a Dalegno e in Valcamonica nel tardo medioevo, in La magnifica comunità di Dalegno. Dalle origini al XVIII secolo, a cura di E. BRESSAN, Breno, Tipografia camuna, 2009, pp. 113–351, pp. 194–198, 316–322.
[17] Statuti del comune di Ponte di Legno (sec. XVI–XVII), a cura di G. MACULOTTI, Commentari dell’Ateneo di Brescia, 1993, Supplemento, pp. 61–62, cap. 59.
[18] Per es., ad un’assemblea tenuta a Montagna nel 1246 intervennero 15 «credenciarii» e 21 vicini (Archivio storico del Santuario della Beata Vergine di Tirano, Pergamene, 165, 1246.02.18). Nel 1343 riscossero una somma di denaro per conto della communitas di Morbegno 25 uomini (ASSo, AN, 9, f. 114v., 1343.06.09). Nel 1416 18 agenti del comune di Ardenno vendettero i dazi comunali del pane, del vino e della carne (ASSo, AN, 68, f. 249r., 1416.01.10). Nel 1462 l’assemblea del comune di Soltogio, in cui convennero 95 persone, designò tra i propri procuratori processuali, accanto a cinque professionisti, ben 23 vicini (ASSo, AN, 202, ff. 154r.–155r., 1462.02.08). V. anche F. ODORICI, Storie Bresciane dai primi tempi all’età nostra, VI, Brescia, Pietro Gilberti, 1856, pp. 17–18, docc. CXVIII–CXIX; CHIESI, p. 42, doc. 410; DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità, p. 457.
[19] Die Gemeindestatuten von Capriasca (1358) und Carona und Ciona (1470), a cura di A. HEUSLER, Basel, Helbing & Lichtenhahn, 1916 (Rechtsquellen des Kantons Tessin, XIII), p. 14, capp. XLI–XLII, p. 36, cap. II; Giovanni ROVELLI, La castellanza di Sonvico, Massagno, Tip. S. Agostino, 1927, p. 230; Statuti del comune di Ponte di Legno, p. 39, cap. 6, pp. 52–53, cap. 39 (da dove è tratta la frase citata); Archivio di Stato del Cantone Ticino, Fondo Pometta, Statuta communis Berinzone, f. 35r., cap. CLII; ASSo, AN, 666, ff. 62v.–64v., 1509.01.07; ff. 413v.–415v., 1527.01.01; ASCG, Statuti, 1, fasc. 5, 1539, cap. 66; 1543, cap. 30. A Morbegno, alla fine dell’anno, era il Consiglio largo a riconoscere a quello ristretto la legittimità della sua azione per conto della comunità intera nelle materie indicate: «volunt etc. illas valere etc. ac si per totam universitatem Morbegnii facta forent» (ASSo, AN, 670, ff. 413v.–415v., 1527.01.01. Cfr. ivi, ff. 423r.–v., 1527.01.13). V. anche Archivio di Stato di Brescia, Fondo Federici, 5, 1128, 1477.01.16. Cfr. K. MEYER, Blenio e Leventina da Barbarossa a Enrico VII. Un contributo alla storia del Ticino nel Medioevo, Bellinzona, Arti grafiche A. Salvioni & Co., 1977 [1911], pp. 33–37; P. SCHAEFER, Il Sottoceneri nel Medioevo. Contributo alla storia del Medioevo italiano, Lugano [Tip. La Commerciale], 1954 [1931], pp. 270, 275–277; P. GRILLO, Le strutture di un borgo medievale. Torno, centro manifatturiero nella Lombardia viscontea, Firenze, La Nuova Italia, 1995, pp. 88–90; C. BECKER, Il comune di Chiavenna nel XII e XIII secolo. L’evoluzione politico–amministrativa e i mutamenti sociali in un comune periferico lombardo, Chiavenna, Centro di studi storici valchiavennaschi, 2002 [1995], pp. 156–160; C. STORTI STORCHI, Scritti sugli statuti lombardi, Milano, Giuffrè, 2007, pp. 111, 257–259, 477. Si tratta peraltro di pratiche generalizzate: v. ad es. M. BERENGO, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino, Einaudi, 19742, pp. 327–328; R. MUSSO, Lo ‘Stato Cappellazzo’. Genova tra Adorno e Fregoso (1436–1464), «Studi di storia medioevale e di diplomatica», 17 (1998), pp. 223–288, pp. 260–261; A. BARLUCCHI, Il contado senese all’epoca dei Nove. Asciano e il suo territorio tra Due e Trecento, Firenze, Olschki, 1997, pp. 152–153; A. DANI, I Comuni dello Stato di Siena e le loro assemblee (secc. XIV–XVIII). I caratteri di una cultura giuridico–politica, Cantagalli, Siena, 1998.
[20] Cfr. I. SUPERTI FURGA, L’amministrazione locale, in La città di Angera feudo dei Borromeo. Sec. XV–XVIII, Varese–Angera, Società storica varesina – Amministrazione comunale di Angera, 1995, pp. 71–116, pp. 82–83.
[21] ASMi, Comuni, 60, Morbegno, 1480.12.10.
[22] Cfr. I. SUPERTI FURGA, Dal dominio straniero all’età napoleonica, in Storia di Monza e della Brianza, II, Le vicende politiche dal dominio straniero all’Italia unita, Milano, Il polifilo, 1979, pp. 9–284, p. 71; DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità, pp. 673–675, 704, 710.
[23] ASMi, CS, 1152, 1485.09.23.
[24] ASCG, Beni comunali ed ecclesiastici, busta 11, fasc. 4, 1544.01.13.
[25] Sulle tensioni fra le attribuzioni delle magistrature stabili e dei destinatari di mandati ad hoc, v. ancora la bibliografia di n. [19].
[26] ASCG, Cause e liti, 41, fasc. 3, 1533.02.04 («nec asseritus tunc dechanus pro ipso communi Groxii habebat aliquam potestatem nec mandatum eis consentiendi seu ea approbandi pro ipso communi, et licet etiam fuerit dechanus, quod tamen negatur, per hoc non habebat mandatum seu facultatem faciendi talia»). Cfr. ivi, 1532.05.16, 1532.05.22.
[27] ASCG, Cause e liti, 41, fasc. 3, 1533.03.01.
[28] ASSo, AN, 508, ff. 226r.–228v., 1491.05.01; DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità, pp. 675–678.
[29] ASMi, CS, 1157, 1497.02.28; 783, 1477.10.18. Almeno nel secondo caso si trattò di una volontaria auto–limitazione dell’attore politico: v. sotto, n. [201] e testo corrispondente, per l’identificazione congiunturale fra il vertice del reggimento e la parte aristocratica.
[30] ASMi, CS, 1157, 1497.01.23. Cfr. ASMi, CS, passim; ASMi, Comuni, 12, Bormio, nonché Archivio di Stato di Brescia, Fondo Federici, 11, 1451.12.30.
[31] ASMi, CS, 783, 1477.11.10, 1478.01.09, 1478.12.02.
[32] ASMi, CS, 1153, 1493.04.15. Cfr. ivi, 1493.04.09; 1156, 1493.10.29, 1494.01.10; 1157, 1496.04.14 ecc.
[33] LATTES, Gli statuti di Lugano, pp. 51–52, 57.