Nel corso dei secoli XIV–XVI, tendenze oligarchiche emerse nelle città e in molte località rurali italiane limitarono la partecipazione politica rispetto all’età comunale. La storiografia ha illustrato e discusso tali fenomeni. Alle città lombarde, si è verificato, non si può applicare rigidamente il paradigma dell’aristocratizzazione e della chiusura messo a punto per quelle venete; ciò non toglie, però, che i negotia politici siano divenuti allora responsabilità di un numero relativamente limitato di uomini.
A Como, nel corso del Quattrocento, i meccanismi elettorali non restarono invariati: in tale materia intervennero i decreti del duca Filippo Maria Visconti nel 1424 e poi negli anni 1439–1440, gli statuti del 1458. In sintesi, comunque, restò immutata l’articolazione del governo cittadino in due organi, uno largo e uno ristretto. Il Consiglio maggiore era costituito da cento membri. Fra loro erano poi designati i dodici di Provvisione: ogni due mesi entrava in attività una nuova commissione di «sapienti», dieci (poi nove) estratti per sorteggio, gli altri espressamente scelti tra i più esperti e prestigiosi componenti di quella uscente, «ex melioribus», come si esprimeva senza reticenze la stessa documentazione urbana [8]. La selezione del personale di governo, dunque, avveniva al momento della nomina dei cento consiglieri, cui provvedevano, ogni due e poi tre anni, quattro uomini indicati a loro volta prima dal podestà, dal capitano e dal referendario della città, poi dai sapienti di Provvisione. In altre parole, in un primo momento il rinnovo dell’assemblea fu assoggettato al controllo di tre magistrati di nomina ducale, in seguito il meccanismo di reclutamento divenne la cooptazione da parte del gruppo dirigente urbano. A guidare le elezioni fu un principio di classificazione della cittadinanza prima a base faziosa (i consiglieri sarebbero stati equamente divisi fra guelfi e ghibellini), poi censitaria (maggiori, mediocri e minori estimati dovevano essere paritariamente presenti nei ruoli rinnovati). In un caso o nell’altro, si recise così ogni possibile relazione diretta fra il vertice politico della città e la trama delle comunità di base (parrocchie e contrade), prive di responsabilità elettorali e, nel corso del XV secolo, dalla vita istituzionale sempre più evanescente. Come in altre città, alla Provvisione si aggregavano degli «aggiunti» più spesso di quanto avvenisse nei consigli ristretti del contado: in questo modo gli uffici costituiti secondo procedure di elezione, rotazione e sorteggio venivano affiancati da presenze quasi permanenti, figure qualificate esclusivamente dal loro spicco individuale [9].
Se si scorrono i nomi di coloro che nel Quattrocento ricoprirono queste cariche e in particolare dei sapienti, degli aggiunti ai componenti ordinari della Provvisione o degli incaricati di ambascerie e mansioni straordinarie, si constata come in città non si fosse costituita un’oligarchia chiusa definita dalla ricchezza e dall’origine nobile. Tuttavia, anche considerati i ristretti spazi disponibili, si percepisce come alla guida della realtà comasca si ponesse un gruppo che, pur vedendo il concorso di uomini del mondo dei mestieri, della mercatura, del notariato e delle professioni più qualificate, accanto ai maggiori proprietari terrieri e ai vassalli vescovili, costituiva una frazione piuttosto limitata della popolazione urbana. Ad esempio, nel corso della controversia nata per l’elezione del prevosto della chiesa di S. Fedele di Como, il vescovo fece compilare un raro documento, un elenco di tutti i vicini, con i loro pareri, ripartiti secondo quello che gli parve il più significativo principio di classificazione della comunità del quartiere: i proprietari della casa in cui vivevano e gli affittuari. Ebbene, questi due gruppi si orientavano in modi diversi, ma coloro che riportarono a Milano i contrastanti pareri dei vicini e ancora coloro che scrissero a nome di tutti gli altri appartenevano al solo novero dei proprietari [10]. Proprio allo scopo di rilevare tale strato, le scritture del governo urbano presentano una tassonomia e una nomenclatura dei ruoli sociali più attenta e più precoce (ad esempio nel suggerire una gerarchia dei designati mediante i titoli di dignità che ne accompagnano i nomi) rispetto a quanto si verificò nel contado.
Infine, nelle lettere inviate dalla comunità urbana agli Sforza non compare mai, come sottoscrittore, un soggetto più largo della Provvisione, come il comune o la «civitas» stessa. Una rara, effettiva azione collettiva promossa in città si realizzò nel caso della riforma di un monastero femminile. Il predicatore francescano Michele da Milano testimoniò la sostanziale unanimità della popolazione cittadina [11], che si mosse anche al di fuori dei canali istituzionali. In tale circostanza, in effetti, la Provvisione rivendicò, in modo più esplicito che in altre occasioni, la rappresentanza dei «cives et tota communitas [...] civitatis Cumarum», per usare le parole con cui il medesimo organo sottoscrisse i propri documenti, in alternativa alla formula consueta, più selettiva, «deputati officio Provisionum communitatis civitatis [...] Cumarum» [12]. Normalmente, invece, un’opinione poteva essere unanime, come, nel 1496, l’ostilità verso il cavaliere del podestà, malvisto, secondo il referendario, da «tuta la cità generalmente», dal «populo» nel suo complesso, ma erano i soli «presidenti de questa comunità» e i loro «ambasatori» a prendere la parola e l’iniziativa (nella circostanza a compiere i passi per allontanare lo sgradito esecutore) [13].
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[8] ASCo, Archivio Storico Civico, Volumi, 61, f. 184v., 1431.10.03.
[9] Giuseppe ROVELLI, Storia di Como, Como 1789–1803 (ristampa anastatica, Como, Libreria Meroni, [1992]), pp. 87–90, 186, 310–311 e passim; M. DELLA MISERICORDIA, La disciplina contrattata. Vescovi e vassalli tra Como e le Alpi nel tardo Medioevo, Milano, Unicopli, 2000, pp. 80–83, 103–107, 163–188; ID., Divenire comunità. Comuni rurali, poteri locali, identità sociali e territoriali in Valtellina e nella montagna lombarda nel tardo medioevo, Milano, Unicopli, 2006, pp. 898–908; E. RIVA, Alle origini di una periferia. Como nell’età di Carlo V. Prospettive di ricerca, in Carlo V e l’Italia, a cura di M. FANTONI, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 133–166; Statuta Civitatis et Episcopatus Cumarum (1458), a cura di M. MANGINI, Varese, Insubria university press, 2008, p. 72, cap. V, pp. 86–87, cap. LVIII.
[10] Mi, CS, 781, 1466.08.17, 19 e 23; 781, 1468.08.07 e 20. Cfr. ivi, 1468.07.14.
[11] DELLA MISERICORDIA, Decidere e agire in comunità, p. 309. Cfr. ASMi, CS, 782, 1471.02.08–08.20.
[12] ASMi, CS, 781, 1467.10.22, 1467.11.03, 1468.02.29, 1468.03.04.
[13] ASMi, CS, 1632, 1496.01.26.