3. Sulle tracce di una cultura locale della convivenza in comunità

3.2. Esigenze politico-sociali e schemi notarili: un condizionamento reciproco

3.2.6. Documenti per pensare la comunità

Ad un livello ulteriore di astrazione, l’elaborazione grafica dei documenti servì a pensare, comunicare e discutere la natura dei soggetti rappresentati, ma si potrebbe dire, più radicalmente, a istituirli, a fondarne la stessa esistenza sociale e politica. Ovviamente quest’attività di comprensione appare a sua volta strettamente legata a quella di organizzazione della vita della comunità, dal momento che quei soggetti che pretendevano di avere parte nel suo funzionamento istituzionale non avrebbero potuto avanzare le loro rivendicazioni senza proporre una precisa concettualizzazione della propria natura e identità.

L’invenzione e la diffusione della scrittura, come è noto, hanno indotto e consentito operazioni di astrazione, generalizzazione e decontestualizzazione dei dati empirici e singolari, nonché di loro elaborazione in termini categoriali, più radicali rispetto a quelle possibili grazie alle sole risorse del linguaggio orale [84]. In questa prospettiva si potrebbe intendere anche un aspetto dello specifico ruolo pubblico assunto nel medioevo dalla scrittura notarile: essa conferì, fra l’altro, contorni giuridici più certi alle azioni, regolarizzandole entro i modelli offerti dagli stessi istrumenti, in quanto sindicatus, ma anche venditiones, locationes e via dicendo, nonché agli attori, soprattutto quelli collettivi dal profilo giuridico più incerto, legittimati dai nomi e dai ruoli che i documenti uniformavano. In questa sede preme rilevare soprattutto che, come Jack Goody ha già messo in evidenza, nel momento in cui la si considera come una «tecnologia dell’intelletto», non interessa esclusivamente «la scrittura in sé, ma gli sviluppi della tecnica grafica che la accompagnavano», quindi la possibilità non solo di mettere per iscritto le informazioni, ma di elaborarne la disposizione nella pagina [85].

Sopra ho formulato un’ipotesi circa i rapporti fra gli schemi notarili e i modelli mnemotecnici, logici e via dicendo (§ 3.2.2). Ebbene, di particolare rilievo appare l’analogia fra gli obiettivi dei primi e dei secondi: si trattava di costruire classi tassonomiche (nel nostro caso, ad esempio, la parentela o la contrada), di definire i rapporti (fra individui o unità istituzionali), riflettere sulla natura di soggetti astratti (come la comunità), concettualizzandone, grazie ad un’immagine al contempo analitica e sintetica quale il diagramma, l’unità e l’articolazione interna [86]. In tal senso, la loro introduzione nelle carte dei notai ebbe una vasta portata culturale e rappresentò un contributo imprescindibile al dibattito politico locale, consentendo di pensare in modo innovativo i suoi protagonisti.

Gli elenchi valtellinesi del primo Trecento, infatti, nonostante da oltre un secolo la vita istituzionale delle comunità locali fosse investita dalle pratiche della scrittura, appaiono relativamente vicini ai meccanismi della comunicazione orale: rispetto, per esempio, ad una sequenza di nomi pronunciati ad alta voce, consentivano certamente un’identificazione più certa del singolo e una più duratura conservazione della memoria dell’evento documentato, ma recavano in sostanza le stesse informazioni. Si trattava di un flusso di parole monotono e uniforme, paratattico, che soprattutto non sviluppava alcun discorso circa i rapporti che intrattenevano fra loro gli individui designati (ASSo, AN, 2, f. 205v., 1333.07.19).

Alla fine del Trecento il notaio si mostra più interessato a lavorare sull’elenco in quanto prodotto scritto: alcuni elementi che si sono già forniti e che qui riprendo sommariamente rilevano, da quel momento in poi, l’emersione di una nuova inclinazione a pensare sulla (e attraverso la) carta il momento assembleare, valorizzando le potenzialità espressive dello spazio grafico che nessuna enumerazione orale avrebbe potuto offrire [87]. Egli cominciò allora ad usare le risorse che la scrittura e la pagina offrivano in modo esclusivo: appose ad esempio una lettera che marcasse convenzionalmente, senza più enunciarlo estesamente, lo status degli individui (ASSo, AN, 25, f. 267r., 1377.07.05 – particolare) o isolò l’area del dissenso interno alla comunità, scrivendo nel margine inferiore della carta i nomi di coloro che volevano distaccarsi, come si potrebbe dire con una metafora che proprio tale soluzione grafica rende più pregnante, dai loro vicini (ivi, f. 238r., 1376.05.11). Sempre dalla fine del secolo, come si diceva, vennero introdotti strumenti di grande potenzialità analitica: la lista, con tutti gli elementi della sua specifica sintassi (graffe e parentesi di chiusura), sapientemente combinati, arricchì sensibilmente il linguaggio dei notai (§ 3.2.1, § 3.2.2). Questi ultimi, poi, nei decenni successivi, si servirono della pagina scritta rendendone significative, in modo ancora più sistematico, le diverse sezioni, gerarchizzandole fra loro. Ponevano dunque i nomi degli individui più prestigiosi a capo di lista e quelli degli uomini di estrazione sociale inferiore a piè di lista (ASSo, AN, 669, f. 340r., 1523.11.29). Sfruttavano l’identità di riga, enfatizzata ulteriormente con una linea tratteggiata, per esprimere il rapporto di attinenza fra il comune e il suo rappresentante, svolgendo il discorso sui fondamenti di legittimità della mediazione politica che si è già illustrato (ASSo, AN, 68, f. 242v., 1415.12.21) (§ 2.4.4). Usavano la fine della colonna come stacco fra le menzioni dei membri di diverse parentele (ASSo, AN, 344, f. 39v., 1466.02.01). La pagina divenne nel suo complesso una superficie espressiva: se ne faceva, anche a costo di distribuire in modo squilibrato la scrittura, un’area di omogeneità sociale, destinando una facciata alla menzione dei soli nobili e la successiva a quella dei soli vicini (ASSo, AN, 76, f. 348r., 1427.01.26; ivi, f. 348v.), o residenziale, se nel caso di una lunga lista, si assumeva la fine della pagina stessa come una cesura fra i nomi degli abitanti in diversi villaggi (ASSo, AN, 812, ff. 190v.–191r., 1520.11.30. Cfr. ASSo, AN, 421, f. 54r., 1476.05.06).

Uno dei problemi che i notai poterono allora affrontare riguardava il profilo incerto di un soggetto come la comunità, al contempo singolare e plurale, dotata di una propria identità e somma di individui [88]. Ora, i diagrammi medievali, anche i più complessi, erano il frutto di un’osmosi fra scrittura e immagine [89]. Non solo le diverse sezioni dei diagrammi erano lo spazio per inserire singoli termini o testi più estesi; contribuendo le une alla decifrabilità delle altre, le parole erano essenziali per identificare e qualificare le varie sezioni, che, d’altra parte, con la loro stessa disposizione, davano una forma alle relazioni fra i concetti che le parole esprimevano. A volte erano addirittura le sole parole, senza il contributo di nessun altro segno grafico, ma solo mediante la loro collocazione nella pagina, a costruire il disegno che doveva renderne intelligibile il significato. Ora, se assumiamo i riquadri, già ricordati, disegnati da Beltramo Guarinoni, ma più in generale, le liste dei capifamiglia come immagini schematiche della comunità, non pare privo di conseguenze sul piano della concettualizzazione di quest’ultimo soggetto il fatto che il testo che riempie i primi e conforma le seconde consista nei nomi e cognomi dei vicini. Certo, si trattava di una scelta obbligata, ovviamente dettata da ragioni funzionali, se l’obiettivo era designare i capifamiglia o i consiglieri riunitisi. Questo, però, non diminuisce la portata delle sue implicazioni. Nell’immagine complessiva, si può dire, consisteva la comunità, come soggetto collettivo dotato di una propria specificità: il diagramma a cinque sezioni di cui abbiamo detto era la trasposizione del comune di parentele di Rasura (ASSo, AN, 345, f. 133v., 1475.01.29), le liste scandite dai titoli di dignità rappresentavano il comune gerarchico di Morbegno (ASSo, AN, 171, f. 41r., 1456.02.29; ivi, f. 41v.), quelle frammentate per località il comune policentrico di Ardenno (ASSo, AN, 421, f. 54r., 1476.05.06; ivi, f. 54v.) e via dicendo. Tale immagine, però, non solo includeva, ma era composta materialmente dagli identificativi degli individui che costituivano quei comuni. Così illustrava la natura unitaria e molteplice della comunità, governando, su un altro piano espressivo, l’ambivalenza racchiusa efficacemente nella ricorrente espressione formulare che faceva consistere il protagonista di questi stessi documenti in un ente astratto e nei singoli uomini suoi membri («commune et homines»).

Grazie alla lista, divenne più facile non solo trattare il rapporto fra gli individui e la comunità, ma pure degli individui fra loro, e affrontare la questione della natura di tali rapporti. Le risorse dello strumento, da questo punto di vista, appaiono notevoli. A differenza di un elenco proferito o scritto in modo continuo sulla riga, in cui le potenzialità della sequenza si esauriscono nell’esprimere l’appartenenza alla comunità che nella circostanza si riunisce, la lista permette di articolare in modo assai vario le relazioni fra i nomi: come si è visto, secondo principi gerarchici, di attinenza su base residenziale o consanguinea. Essa consente di sezionare un’unità e al contempo di ricomprendere diversi elementi in un’entità più comprensiva. Si è evidenziato, invero, come, nel momento della sua introduzione, essa non abbia imposto immediatamente un’immagine gerarchica o analitica della comunità; ho interpretato tale cronologia come la prova che non esiste un significato congiunto inevitabilmente e a priori allo schema in sé, un progetto sociale di cui il paradigma mentale sia il portatore (§ 3.2.1). D’altra parte, l’immagine gerarchica o analitica della comunità non nacque prima e non nacque se non con la lista (§ 3.2.2). Sono quindi indotto a ritenere che nel generare specifici soggetti sociali e politici abbiano concorso spinte sociali dal basso, impulsi dall’alto, ma anche la medesima possibilità di pensarli. Senza la ricerca che solo la lista consentì, insomma, sarebbe difficile concepire la comunità graduata e articolata del Quattrocento, così diversa da quella del primo Trecento, segregata in ordini al loro interno omogenei, ma anche di quella quasi decomposta in parentele dei decenni a cavallo fra il Tre e il Quattrocento. Lo stesso si potrebbe dire delle federazioni di valle o di taglia intermedia che coordinavano soggetti gelosi della propria autonomia quali i comuni e di cui, invece, a metà Trecento si percepiva solo l’apparente o effimera compattezza.

Avvicinati dal fatto di essere proposte di rappresentazione analitica della comunità, i principi di classificazione su base gerarchica, vicinale o parentale hanno tuttavia implicazioni assai diverse. Il primo, infatti, dopo la disgregazione dei ceti, metteva capo ad una graduazione per rango dei membri della comunità nel suo complesso, senza istituire quadri intermedi. Le relazioni di prossimità e di consanguineità erano invece suscettibili di ulteriori sviluppi socio–istituzionali: potevano aggregare gruppi corporati, che pretendevano spazi politici e risorse in quanto contrade o lignaggi. Questi ultimi soggetti mettevano sotto pressione la più comprensiva unità comunitaria: non bastava più, allora, mostrare come il comune fosse al contempo un’entità coesa e una somma di individui; diveniva necessario risolvere i rapporti fra la prima istituzione e i gruppi che includevano i singoli. Problematici erano pure i rapporti delle parentele e delle contrade con i loro membri, nonché il loro stesso statuto di gruppi corporati. Non è mai facile, infatti, dire se la «parentella» o la «vicinancia» abbiano una natura relazionale o sostanziale, se cioè siano da assumere in primo luogo come reti di consanguineità e vicinato fra individui o piuttosto come entità collettive astratte rispetto alla singolarità e concretezza di quei vincoli. Per non fare di queste alternative semplicemente l’oggetto di una tarda disputa fra storici essenzialisti e nominalisti o organicisti e riduzionisti, e ricollocarle nel vivace dibattito dell’età studiata, è necessario di nuovo considerare attentamente il linguaggio testuale e quello grafico delle fonti, e le potenzialità dell’uno e dell’altro nel campo della produzione di soggetti istituzionali relativamente spersonalizzati [90].

Nel lessico notarile, fin dal primo Trecento, ricorre il sostantivo astratto «parentela» per profilare una particolare collettività: è il nucleo che possiede un patrimonio indiviso e affronta una lite per difenderlo, assume impegni fiscali, dispensa le elemosine istituite per la salvezza dell’anima del benefattore e via dicendo [91]. Nel Quattrocento, anche nelle fonti in volgare, «parentela» resta perlopiù il gruppo degli agnati nel suo complesso, mentre «parentato» può indicare a volte lo stesso soggetto, a volte, invece, la relazione fra consanguinei o affini. Solo nel Bormiese anche la «fradelantia» costituì un’unità sociale, formata dai fratelli e dalle sorelle e dai loro discendenti che mantenevano in tutto o in parte indiviso il patrimonio paterno e materno. Nella locale documentazione notarile tale termine indica il gruppo di coeredi che poteva nel suo complesso gestire un mulino, prendeva in locazione le possessioni, operava compravendite [92].

Un apporto aggiuntivo alla genesi di nuovi soggetti dotati di una riconoscibile fisionomia istituzionale venne dal repertorio di segni grafici a disposizione dei notai, che hanno consentito la visualizzazione sulla pagina dei nomi entro il blocco parentale o co–residente. Le sequenze omogenee di vicini e agnati composte in colonne interrotte da righe bianche o linee oblique già rappresentano l’inclusione dei singoli entro piccole collettività intermedie fra l’individuo e il comune (ASSo, AN, 421, f. 54r., 1476.05.06; ivi, f. 54v.). Le graffe, in particolare, sembrano lo strumento concreto del passaggio concettuale che porta le relazioni interpersonali a cristallizzarsi in una unità ulteriore. Possono indicare il semplice legame tra fratelli che non costituiscono alcun gruppo organizzato entro la comunità (ASSo, AN, 77, f. 67r., 1430.01.15; cfr. ASSo, AN, 295, f. 112r., 1460.01.31). Quando però collegano fra loro i singoli nomi, riferendo a tutti i designati un cognome, diventano l’indicatore più espressivo dell’avvenuta costituzione di un attore sovra–personale, quale ad esempio la parentela. Non è detto che tale entità, per il solo fatto che viene riconosciuta sulla scena pubblica, abbia pure una piena soggettività politica e giuridica, come in effetti avveniva a Morbegno (ASSo, AN, 667, f. 353r., 1517.01.04). Se invece la graffa riferiva a chi portava lo stesso cognome o abitava nella medesima contrada pure un unico rappresentante o una formula di impegno condiviso, pare ormai prossima la costituzione di un vero e proprio gruppo corporato (ASSo, AN, 127, f. 275v., 1428.12.02; ivi, f. 276r.; cfr. ASSo, AN, 77, f. 111r., 1431.05.21; ivi, ff. 111v.–112r.; ASSo, AN, 647, f. 33r., 1506.02.10). Infine, i riquadri così spesso citati di Beltramo Guarinoni sono, nell’area, il prodotto grafico più avanzato di tale processo di reificazione dei legami sociali, dal momento che presentano la comunità come composta al contempo da molti soggetti individuali e da cinque soggetti collettivi, materialmente e non solo metaforicamente confinati, che li includono. Se infatti la graffa ha la funzione di indicare la relazione fra persone che sono parenti, i riquadri includono le persone in una parentela, che tende così a trasformarsi compiutamente in un’entità perlomeno simbolica dotata di un’identità propria (ASSo, AN, 345, f. 133v., 1475.01.29).

Un contributo che la scrittura fornisce ai processi di generalizzazione e astrazione, ulteriore rispetto al trattamento di realtà puramente concettuali che abbiamo appena considerato, consiste nell’istituire rapporti di isomorfismo fra elementi e configurazioni pure appartenenti ai campi di esperienza più disparati. Sorprende, in effetti, la versatilità e la flessibilità di alcune griglie che nel basso medioevo servivano per ordinare la realtà sociale, collegando tipi di attributi e sfere di vita associata non immediatamente accostabili. È il caso, ad esempio, della gerarchia degli status e della gerarchia degli insediamenti nel territorio. Già gli statuti comaschi dei secoli XIII e XIV volevano le «ville» o i «loci», i centri di dimensioni minime, abitati dai soli vicini o rustici, i «burgi» pure dai nobili e dai «burgenses», qualifica, anche l’ultima, che, più raramente di altre, costituiva una distinzione sociale. Una serie di norme proponeva quest’immagine, un’evidente semplificazione della realtà insediativa e sociale, che tuttavia rivela la tendenza o l’obiettivo di associare gli abitati di taglia minore agli uomini di status sociale più basso, i centri con un rango superiore nel territorio agli ordini privilegiati. Alla fine del Cinquecento il vescovo di Como, valutando l’adeguatezza della distrettuazione ecclesiastica, riconosceva come un’onta cui rimediare la dipendenza parrocchiale di un centro cui potesse essere riconosciuto l’attributo della «nobilitas» da una «villa» alla quale era invece evidentemente negato [93]. Ora, la circolazione di soluzioni grafiche, per il tramite della stessa matrice gerarchica, istituì con altrettanta enfasi un rapporto isomorfico tra il rango delle persone e quello dei luoghi, e dunque fra il singolo comune e il territorio nel suo complesso. Grazie agli identici segnali della precedenza e dell’ordine di successione scandito dalle liste, i verbali delle assemblee comunali si prestarono a riconoscere l’eminenza degli uomini più prestigiosi delle singole località, quelli delle sedute dei consigli federali sancirono la preminenza di alcuni centri, gli stessi peraltro dove concentravano la loro residenza gli individui insigniti dei titoli di dominus, spectabilis vir e via dicendo, sugli altri, in cui si sarebbe al massimo identificato qualche ser e quei magistri che ormai, all’inizio del Cinquecento, non riuscivano più ad affermare la loro perizia professionale come un distintivo di rango (ASSo, AN, 1196, ff. 57v.–58r., 1538.12.26).


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note

[84] Mi riferisco ai classici A. R. LURIA, La storia sociale dei processi cognitivi, [Firenze] 1976 [ed. or. Mosca 1974]; J. GOODY, L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Milano 1990 [ed. or. Cambridge 1977]; ID., Il suono e i segni. L’interfaccia tra scrittura e oralità, Milano 1989 [ed. or. Cambridge 1987]; ID., Il potere della tradizione scritta, Milano 2002 [ed. or. Washington–London 2000]; W. J. ONG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna 1986 [ed or. London–New York 1982]. Cfr. G. R. CARDONA, Il sapere dello scriba, in La memoria del sapere. Forme di conservazione e strutture organizzative dall’antichità a oggi, Roma–Bari 1988, pp. 3–28, pp. 15–17; Origini della scrittura. Genealogie di un’invenzione, a cura di G. BOCCHI, M. CERUTI, Milano 2002. Per alcuni spunti di discussione di questi temi in ambito medievistico, v. R. MCKITTERICK, Introduction, in The uses of literacy, pp. 1–10, p. 5; A. ADAMSKA, The Study of Medieval Literacy: Old Sources, New Ideas, in The Development of Literate Mentalities in East Central Europe, a cura di A. ADAMSKA, M. MOSTERT, Turnhout 2004, pp. 13–47, pp. 30–31, 37; Écrire, compter, mesurer, nonché sotto, n. [87].

[85] GOODY, Il suono e i segni, p. 142. Cfr., in generale, anche J. FABIAN, Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia, Napoli 2000 [ed. or. New York 1983], pp. 133 e sgg.; GRASSENI, Lo sguardo della mano, pp. 136 e sgg.

[86] Sulla doppia funzione del diagramma, di frazionare in parti e ricomporre l’oggetto, v. ad es. ancora FRIEDMAN, Les images mnémotechniques, p. 175.

[87] Cfr. ONG, Oralità e scrittura, pp. 138 e sgg. Nella crescente attitudine a pensare per iscritto è possibile identificare un ulteriore punto di contatto fra il lavoro notarile e l’abitudine alla scrittura autografa degli intellettuali del basso medioevo, punto su cui v. A. PETRUCCI, Minuta, autografo, libro d’autore, in Il libro e il testo, Atti del Convegno internazionale (Udine, 20–23 settembre 1982), a cura di C. QUESTA, R. RAFFAELLI, Urbino [1984], pp. 397–414; ID., Modello notarile e testualità, in Il notariato nella civiltà toscana, Atti del Convegno (maggio 1981), Roma 1985, pp. 123–145. Cfr. L. BATTAGLIA RICCI, Epigrafi d’autore, in «Visibile parlare», pp. 433–458, pp. 445–446. Nella ricerca storica si è spesso riproposta l’esigenza di non contrapporre frontalmente i due universi dell’oralità e della scrittura, vuoi per la lunga persistenza, nelle pratiche della scrittura e della lettura, di abilità legate alla comunicazione orale (CLANCHY, From Memory to Written Record, pp. 266–293), di cui qui ho riscontrato la forza condizionante almeno fino alla fine del XIV secolo, vuoi per le molte trasformazioni indotte dalla scrittura (dalla chiarificazione dei rapporti giuridici alla trasmissione e all’organizzazione della memoria), non necessariamente simultanee (A. BARTOLI LANGELI, Premessa alla parte monografica, «Quaderni storici», XIII (1978), pp. 437–450, pp. 443–444; DELLA MISERICORDIA, Le ambiguità dell’innovazione, pp. 113 e sgg.). Così, per l’altro verso, sarebbe semplicistico trascurare le complesse tassonomie che, con «tecnologie» diverse dalla scrittura, sono in grado di produrre le culture orali, su cui v. almeno C. LÉVI–STRAUSS, Il pensiero selvaggio. Alla scoperta della saggezza perduta, Milano 2003 [ed. or. Paris 1962].

[88] Cfr. DELLA MISERICORDIA, Decidere e agire in comunità, pp. 310–312.

[89] La stessa combinazione si realizzava nelle riproduzioni della superficie terrestre o di singole località. Queste ultime sono senz’altro da distinguere dai modelli schematici per le loro pretese realistiche, ma tuttavia senza rigide dicotomie. Cfr. L. NUTI, Lo spazio urbano: realtà e rappresentazione, in Arti e storia nel Medioevo, I, Tempi, spazi, istituzioni, Torino 2002, pp. 241–282, per l’identificazione di un «codice diagrammatico e non analogico» (p. 268) nella rappresentazione della città; P. GAUTIER DALCHÉ, Mappae mundi antérieurs au XIIIe siècle dans les manuscrits latins de la Bibliothèque nationale de France, «Scriptorium», LII (1998), pp. 102–162, che presenta un catalogo dove si includono «toute représentation de la terre», anche quelle «schématique et limitée à un simple diagramme portant peu de noms» (p. 102). V. ancora ID., Géographie et culture. La représentation de l’espace du VIe au XIIe siècle, Aldershot 1997, cap. IV, pp. 151–154, cap. VIII, pp. 700 e sgg.; D. HAY, Imago Mundi nel Basso Medioevo: un problema di cartografia, in «Imago Mundi», pp. 11–33; C. FRUGONI, La figurazione bassomedioevale dell’Imago Mundi, ivi, pp. 223–269; B. OBRIST, Wind Diagrams and Medieval Cosmology, «Speculum», 72 (1997), pp. 33–84. Per l’area lombarda, cfr. V. VERCELLONI, Atlante storico di Milano, città di Lombardia, Milano 1987, p. 27; P. TOZZI, M. DAVID, Opicino de Canistris e Galvano Fiamma: immagine della città e del territorio nel Trecento lombardo, in La pittura in Lombardia. Il Trecento, Milano 1992, pp. 339–361, nonché, a proposito di una carta di probabile produzione notarile, P. GRILLO, P. MERATI, Parole e immagini in un documento milanese del XII secolo: una raccolta di deposizioni sulle origini di Villanova di Nerviano, «Archivio storico lombardo», CXXIV–CXXV (1998–1999), pp. 487–534, pp. 512–516, 534 (a p. 514 si osserva: «i centri abitati [...] vengono rappresentati con un cerchio che contiene il loro nome»).

[90] Ad es. nel lessico delle fonti dei secoli centrali del medioevo i termini parentela e lignaggio indicano un rapporto interpersonale piuttosto che un gruppo di appartenenza: D. BARTHÉLEMY, Parentela, in La vita privata dal feudalesimo al Rinascimento, Roma–Bari 1987 [ed. or. Paris 1985], pp. 71–129, pp. 73–74. Cfr. J. MORSEL, La noblesse contre le prince. L’espace social des Thüngen à la fin du moyen âge, Stuttgart 2000, pp. 53–64, nonché M. GENTILE, Casato e fazione nella Lombardia del Quattrocento: il caso di Parma, in Famiglie e poteri in Italia tra Medioevo ed Età moderna, Atti del Convegno internazionale di studi (Lucca, 9–11 giugno 2005), a cura di A. BELLAVITIS, I. CHABOT, Rome (in corso di pubblicazione). Sul ruolo specifico della scrittura in questi fenomeni, v. J. MORSEL, Ce qu’écrire veut dire au Moyen Âge. Observations préliminaires à une étude de la scripturalité médiévale, in Écrire, compter, mesurer, II, pp. 4–32, 12 e sgg.

[91] ASSo, AN, 9, ff. 175v.–177r., 1344.01.04; 3, f. 143v., 1346.05.22; 12, f. 241v., 1353.10.12; 24, ff. 230r.–231r., 1366.05.25.

[92] «Facti parentati» significa: stipulate alleanze matrimoniali (ASMi, Sforzesco, 720, 1465.08.10). Si può essere in parentato (ASMi, Sforzesco, 783, 1477.08.06), mentre si è de parentela (DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità, p. 32). Cfr. TRANCHEDINI, Vocabolario italiano–latino, p. 122. Sul Bormiese, v. DELLA MISERICORDIA, Paesaggio, istituzioni, identità locali, par. 4.4.

[93] DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità, pp. 54, 239–240, 738.