3. Sulle tracce di una cultura locale della convivenza in comunità

3.2. Esigenze politico-sociali e schemi notarili: un condizionamento reciproco

3.2.2. Il linguaggio grafico e iconografico

In ogni caso non si deve sottovalutare il rilievo dei dispositivi grafici adottati dai notai nel costruire l’ordine visuale del documento, quasi si trattasse di un neutro strumentario pronto in ogni situazione al fine di illustrare le vari pratiche di convivenza. Lo dimostra in primo luogo il modo, profondamente meditato, con cui i notai mettevano a punto il loro ricco vocabolario di segni: è notevole che le imbreviature stese sul quaderno, livello intermedio nell’elaborazione dell’istrumento, non appaiano espressivamente più povere dei più avanzati prodotti delle cancellerie di Bormio o dell’università di Valcamonica. A maggior ragione si segnala la ricercatezza dello stadio di elaborazione ancora anteriore del documento notarile, la prima imbreviatura su protocollo o addirittura l’appunto iniziale degli estremi dell’azione, detto normalmente scheda o notula [61].

Donato Ruffoni, nel 1428, provò già nell’imbreviatura su protocollo, che non doveva essere che un abbozzo, il modello della lista organizzata per parentele dei vicini di Bema, per poi realizzarlo in modo appena più elegante nella seconda imbreviatura, stesa in una fase successiva nel quaderno (ASSo, AN, 127, ff. 18v.–19r., 1428.12.02; ivi, f. 19v.; ivi, f. 275v.; ivi, f. 276r.). Beltramo Guarinoni in quelle che, a partire dal loro stesso supporto (fogli sciolti, di piccole dimensioni, solo in un secondo momento inserti nel cartulario), sembrano prime veloci verbalizzazioni dei consigli di vicinanza di Rasura, non solo non rinunciava allo schema che ornava con più cura nelle vere e proprie imbreviature (ASSo, AN, 344, f. 174v., 1467.05.03), ma a volte, nelle diverse stesure di un medesimo atto, arricchì le prime di tratti significativi, come le parentesi di chiusura, che omise nelle seconde (ivi, f. 173v., 1465.05.24; ivi, f. 18r., 1465.05.24; ivi, f. 18v.).

Altrettanto significativo è che, introdotta la lista, i notai si siano cimentati subito in nuovi progetti tassonomici, come stimolati da uno strumento che consentiva loro di svolgere discorsi inediti. Alcune proposte cadranno presto, altre invece avranno fortuna: alla fine del Trecento Martinolo Vicedomini aprì le sue enumerazioni dei vicini di Cosio (ASSo, AN, 64, f. 89r., 1399.07.25; ivi, f. 89v.) e Rasura (ivi, f. 90v., 1399.07.27) con la menzione dei ser, come Abbondio Gaifassi, che lavorò a Morbegno (ASSo, AN, 52, f. 181v., 1393.10.26; ivi, f. 182r.). La successiva generazione di notai proseguì su questa strada. Domenico de Carate nel 1415 ordinò la lista dei vicini di Ardenno contemplando la loro residenza in questa piuttosto che in quella contrada, pur senza un’enfatica divisione dello spazio grafico, che resta ancora integro (ASSo, AN, 68, f. 219r., 1415.10.18). Soprattutto con la sua lista di morbegnesi dello stesso anno, nella quale menzionò in apertura i consiglieri, primo fra i quali era in effetti ser Paolo de Gabelleriis (de Canonica), mentre designò solo in posizione mediana un uomo di pari prestigio che però non ricopriva nessuna carica, sembra formulare una compiuta controproposta rispetto all’idea del Gaifassi, che si cala già nel confronto politico fra i partiti locali dei nobili e dei vicini su cui tornerò (ivi, f. 154r., 1415.01.06; ivi, f. 154v.) (§ 3.3.5).

Inoltre, malgrado l’approccio analitico di questo lavoro, non ritengo che il codice espressivo che condividevano gli attori e gli interpreti delle loro azioni possa essere contestualizzato solo al livello locale. Alcuni aspetti della cultura grafica dei nostri notai, infatti, attingono ad un linguaggio visuale condiviso entro tempi lunghi e su scala ben più larga del singolo villaggio, della valle o dell’intera montagna lombarda, che deve essere analizzato non solo nelle sue circostanze d’uso, ma pure in riferimento alle sue logiche complessive, alle sue specifiche opportunità, nonché alle condizioni che poneva alla rappresentabilità del sociale.

In termini generali, nello studio della messa in pagina del codice medievale, si sono riconosciute tecniche apposite che aiutassero la lettura e la comprensione dei contenuti. Le ricerche hanno fatto luce su almeno due aspetti che qui interessano direttamente: la ripartizione del testo e la riorganizzazione di parti del testo stesso in forma schematica.

Per quanto riguarda il primo fenomeno, specialmente dal XII secolo, quando in Europa il libro divenne lo strumento di lavoro delle nuove figure intellettuali, pure sviluppando tradizioni già precedenti, una più chiara delimitazione delle porzioni del testo venne ad accompagnare gli sforzi di concettualizzazione e di memorizzazione richiesti a chi vi si accostava. Il modello bi–colonnare, l’articolazione dei capitoli separati da righe bianche, la decorazione delle loro lettere iniziali, l’assegnazione a ciascuno di essi di un titolo, magari vergato in inchiostro rosso, i segni di paragrafo facevano del lettore anche un osservatore della pagina che, grazie all’aiuto di questi segnali, si orientava meglio entro una complessa argomentazione, ne imprimeva nella mente il ricordo, oppure, grazie all’indice, avrebbe saputo trovarla o recuperarla senza leggere o riprendere l’intera opera [62]. Se gli studi disponibili hanno focalizzato l’attenzione sulla produzione letteraria e trattatistica, piuttosto che su quella documentaria, è possibile registrare comunque il progredire di attenzioni analitiche pure nelle scritture politiche a destinazione pragmatica dell’Italia basso–medioevale, nelle quali ad esempio fu introdotta una più sistematica paragrafazione [63].

Per quanto riguarda il secondo aspetto, proprio nella produzione universitaria, consentite dalla stessa nuova organizzazione del libro e della pagina cui si è accennato, si diffusero scritture a carattere non continuo e non discorsivo, ma schematico, che sfruttavano le possibilità ordinatrici della disposizione delle parole in liste, come indici alfabetici, repertori o rubriche [64]. Tuttavia la disposizione delle parole entro modelli grafici dotati di proprie e ulteriori risorse espressive rispetto al flusso testuale è un fenomeno ben più generale. Già nell’alto medioevo, infatti, divenne abituale, nell’arte figurativa e nella scrittura, la produzione di diagrammi o vere e proprie raffigurazioni che, grazie alla struttura dispiegata nello spazio della pagina di un codice o di una parete affrescata, consentissero di immaginare realtà non percepibili dai sensi e rapporti fra entità astratte, ordinare i concetti entro griglie tassonomiche, distinguere le fasi di un processo storico o di un cammino escatologico, scomporre un concetto nelle sue articolazioni interne. Talvolta si trattava di immagini realistiche o fantastiche, talaltra di forme astratte. Per fare qualche esempio, un albero, una scala o una ruota dei vizi e delle virtù ne proponevano una gerarchia e una concatenazione. La semplificazione schematica di un albero chiariva pure i rapporti fra le discipline che costituivano il sapere enciclopedico, illustrava le distinctiones nelle trattazioni giuridiche o i passaggi di un’argomentazione. Una figura geometrica, come il triangolo, esprimeva il mistero della Trinità o aiutava ad articolare logicamente un ragionamento. A rappresentare i rapporti di discendenza patrilineare, fondamento dell’identità del lignaggio basso–medievale, poteva servire tanto un albero, quanto un astratto intrico di linee che, unendo i nomi dei consanguinei appartenenti alle varie generazioni, segnalasse i rapporti rilevanti fra gli individui, suggerisse la loro appartenenza ad un organismo maggiore, di cui risultasse così apprezzabile sia il profilo unitario, sia l’articolazione interna [65]. Le stesse arti della memoria e della parola facevano largo uso di immagini astratte e concrete che trasponevano dalla superficie della pagina in uno spazio esclusivamente pensato e viceversa oggetti e concetti, sempre allo scopo di imprimere nel ricordo relazioni o attribuzioni, sequenze, parti dei discorsi o delle omelie da pronunciare [66].

Anche i notai valtellinesi, cui mi riferisco perché sono gli unici nell’area considerata a consentire di adottare una prospettiva di lungo periodo, a partire dalla metà del XIV secolo intesero via via articolare il testo documentario, che nei cartulari più antichi appare perfettamente omogeneo. La pagina di Guidino Castelli d’Argegno e dei suoi figli si presenta in un primo momento densa e uniforme; le uniche discontinuità sono la linea orizzontale o la riga lasciata bianca che separano un documento dall’altro (ASSo, AN, 2, f. 22r., 1322.10.27). In seguito, invece, gli stessi notai e quanti lavorarono dopo di loro vennero organizzando in singoli «capitula» i vari legati di cui constava ogni testamento o gli elenchi di terre, debiti e crediti nei più diversi atti privati. A volte, con un uso sapiente dell’impaginazione e la numerazione, posta sul margine sinistro della pagina, consentiranno di visualizzare comodamente ogni singolo appezzamento descritto [67]. In modo analogo furono concepiti i repertori: Romeriolo Castelli d’Argegno per primo, presumibilmente attorno al 1340, e Fancolo Forbecheni, pochi anni più tardi, corredarono le proprie imbreviature di limpide rubriche (tabule imbreviaturarum), in più colonne, che, seguendo l’andamento cronologico del cartulario, mettevano in corrispondenza le informazioni relative al singolo atto (tipologia documentaria, contraenti e numero di carta del registro ove reperirlo). Su tale strumento, nei decenni successivi, i colleghi lavorarono allo scopo di accrescerne l’efficienza, fino all’elaborazione degli indici alfabetici dei documenti [68]. L’Inventarium sive acolarium di Talamona, una descrizione analitica dei beni di proprietà comunale affidati ai vicini, intrapresa nel 1507 dal notaio Donato Camozzi, includeva tre indici dei possessori, uno dei quali disposto alfabeticamente sulla base dei nomi personali dei concessionari [69].

I notai valtellinesi paiono via via più interessati non solo alle ripartizioni, ma anche alla disposizione in modo schematico di porzioni di testo. Difficilmente, infatti, nel XIV secolo un notaio si sarebbe servito della tavola in cui invece si cimentò nel 1523 Gian Battista Marioli che, per padroneggiare un rapporto di affinità, divise una sezione della pagina del suo quaderno in due colonne, a capo delle quali pose i nomi di un fratello, a sinistra, e di una sorella, a destra, e sotto, riga per riga, coloro che processerunt dai due, leggendo quindi in orizzontale le due linee di discendenza e in verticale il succedersi delle generazioni [70].

I suggerimenti in questo senso che i notai valorizzarono nel loro lavoro vennero probabilmente da più parti. Nel caso degli elenchi dei membri delle comunità, dove il paradigma più usato è la lista, non è difficile riscontrare un fenomeno generalizzato nelle scritture pubbliche dell’Italia tardo–medievale. Diffusosi nei documenti di governo delle città nel Duecento, come si è già detto, il modello divenne probabilmente familiare ai notai rurali grazie alla comunicazione aperta fra i centri del potere e i soggetti politici locali, nei cui circuiti, peraltro, in qualità di cancellieri delle comunità e delle magistrature, essi operavano come tramiti imprescindibili delle informazioni scritte. Ad esempio, nel 1264 il podestà di Como Filippo della Torre ingiunse al comune di Chiavenna la stesura di un censimento della popolazione maschile d’età compresa fra i 15 e i 70 anni e degli aderenti delle parti guelfa e ghibellina, una di quelle liste che anche a Milano furono strumenti della signoria torriana. Nel 1269, poi, il borgo dispose per la prima volta in modo autonomo un elenco degli abitanti – simile a quello che gli ufficiali e i notai locali dovevano aver imparato a compilare nel 1264 – per censire gli uomini abili alla realizzazione di un ponte voluta ancora da Como [71]. Un secolo dopo, la prima lista che io abbia incontrato nelle carte di Romeriolo Castelli d’Argegno, già considerata, fu stesa per ottemperare ad un mandato delle autorità viscontee (ASSo, AN, 6, f. 212r., 1368.04.26).

Al di là degli impulsi provenienti dall’alto, in sede locale le tecniche dei notai dovettero essere arricchite anche dallo scambio con i modelli della scrittura contabile. La cartulazione originale dei loro quaderni segnala già un mutamento: i più antichi vedono l’uso delle cifre romane, mentre, in una fase successiva, verso la metà del Trecento, furono introdotte quelle indo–arabe. Proprio seguendo nel tempo il lavoro di uno stesso professionista si può situare la svolta. Guidino Castelli d’Argegno, attivo a Morbegno almeno dal 1321, dopo aver impiegato per anni le sole cifre romane, sperimentò dal 1331 quelle arabe, in modo forse tentennante (le introdusse accanto e in compresenza delle prime o solo per poche carte, tornando poi ai segni cui era più avvezzo), ma con una scelta che alla fine, negli ultimi due anni della sua carriera documentata, divenne definitiva. La successiva generazione, negli anni Quaranta del secolo, con notai molto in vista, come Romeriolo, figlio di Guidino, Fancolo Forbecheni di Morbegno e Simone della Porta di Talamona, appare più decisa nell’abbracciare la novità. Non si trattò di un passaggio irreversibile, perché alcuni di loro e molti colleghi recupereranno in seguito le cifre romane; esso però dimostra la diffusione nella zona dei rudimenti del nuovo insegnamento dell’abaco, che aveva interessato le scuole delle città padane dalla fine del Duecento. Gli stessi notai, poi, spesso facoltosi proprietari terrieri e prestatori di denaro, avranno presumibilmente messo alla prova il nuovo sistema posizionale di calcolo, redigendo propri libri di conti, ma soprattutto tenendo memoria dei crediti vantati nei confronti dei loro clienti.

In questa sede interessa in modo particolare la figura di Romeriolo Castelli d’Argegno. Egli prese una decisione precoce, dal momento che entro il 1342, dopo quasi quindici anni di attività, adottò i simboli arabi, non limitandone peraltro l’uso alla cartulazione dei suoi registri e alle loro rubriche, ma estendendola agli elenchi di terreni (già nel 1342) o alle date croniche (in un sommario del 1371). Soprattutto egli mostrò una viva passione per l’aritmetica e i numeri: scrisse questi ultimi in tutti i modi (dalle cifre romane alla loro trascrizione alfabetica in latino); in una nota, presumibilmente del 1343, si esercitò nel vergare le «figure» con cui si stava impratichendo, che dispose nella sequenza dall’1 al 9; negli ultimi anni della carriera riempì molti margini delle sue carte con addizioni e sottrazioni (ASSo, AN, 7, f. 21r., 1372.07.22). I suoi interessi e le sue competenze si intrecciarono con una parziale trasformazione della sua attività: negli anni Sessanta e Settanta del secolo egli dovette essere ricercato dai particolari e dalle comunità non solo come notaio, ma anche come una sorta di contabile, e i suoi registri di quel periodo, infatti, mutarono, divenendo al contempo quaderni di imbreviature e libri di conti inerenti ai singoli e alle istituzioni che a lui si rivolgevano. Prive delle formalità degli istrumenti, queste ultime scritture sono spesso poco perspicue: si identificano, però, elenchi di terre e di fittabili recanti i canoni che questi ultimi dovevano, una consignatio di capi di bestiame relativa al comune di Albaredo, una «memoria decime de Albaredo», le investiture dei beni del comune di Cosio (presumibilmente), bilanci di denari dati e ricevuti ancora da parte di individui e comunità. Se si considera che ancora nel 1352 il padre Guidino adoperava le cifre romane anche per tenere memoria del denaro dovuto da più persone per motivi fiscali, in sostanza impedendosi di operare i calcoli di cui il figlio si mostrerà così padrone, si ha la netta sensazione di una diversa formazione, forse scolastica, delle due generazioni.

Ora, l’aspetto più importante dell’attività di Romeriolo, ai nostri fini, è l’incontro fra queste tecniche di numerazione e contabilità con la sperimentazione di scritture dalla struttura tabulare. Se i suoi verbali dei consigli comunitari restarono sempre testi di carattere lineare, egli conobbe così pure le opportunità offerte dalla specializzazione spaziale della superficie scrittoria e dal «mettere in colonna». Già la rubrica dei documenti prodotti fra il 1328 e il 1340 e redatta presumibilmente a posteriori, pare una delle prime scritture del notaio di natura non continua e nella cui concezione le cifre arabe abbiano assunto un ruolo significativo. È indubbio, ovviamente, che in tale circostanza avrebbe potuto usare le cifre romane; è però emblematico che Romeriolo, come il Forbecheni, affronti la compilazione di un repertorio dei documenti solo nel momento in cui esperisce pure in altri campi procedure intellettuali di carattere più astratto e analitico. Poi il Castelli d’Argegno stese una nota, con addizione inclusa, che potrebbe essere riferita a crediti e parcelle in sospeso dello stesso professionista, presumibilmente di un triennio precedente la lista di soldati sopra ricordata (ASSo, AN, 6, f. 188r., s.d. [1365]). Poi compilò ancora schemi di dati e ricevuti e liste pluri–colonnari di consignationes, magari ulteriormente articolate dai segni di paragrafo che precedevano i nomi dei designati. Quando l’elenco riguardava non degli individui, ma delle comunità, pare ormai di intravedere la nitida scansione dei più tardi documenti fiscali (ASSo, AN, 7, ff. 115v.–116r., s.d. [1376]). In una «memoria» del 1373 relativa a canoni fondiari riscossi ad Ardenno il Castelli diede forse il meglio di sé: pose a sinistra una colonna con i nomi dei conduttori, le cui righe incontravano, a destra, molte altre colonne in sequenza, dedicate ognuna in modo esclusivo a un determinato prodotto agricolo (frumento, segale e via dicendo) o alle somme in denaro in cui consistevano gli affitti; si generava così una serie di caselle che, al lettore che le percorresse orizzontalmente, consentivano di articolare analiticamente l’entità dei versamenti dovuti da ciascun coltivatore, a quello che le scorresse verticalmente, permettevano di valutare la natura e la composizione della rendita (ivi, ff. 39v.–40r., 1373). Negli anni Settanta giunse infine ad una predisposizione modulare della pagina anche per certi istrumenti: i mutui, le procure o le investiture fondiarie cui un comune procedette in serie (ivi, f. 185r., s.d. [1364]; ivi, ff. 185v.–186r.) [72].

Le liste che, grazie ai modelli urbani e a queste sperimentazioni, i notai impararono a redigere rimasero modelli grafici più astratti e più elementari rispetto a quelli cui li ho confrontati nell’ambito della più larga tradizione figurativa medievale. È arduo, però, stabilire gerarchie di complessità; anzi, in una prospettiva evoluzionistica di lungo periodo, la rappresentazione del pensiero entro strutture più scheletriche e povere da un punto di vista immaginativo potrebbe essere considerata come più avanzata rispetto all’uso di disegni realistici quali gli alberi e le scale. In ogni caso, una lista discontinua, in cui le diverse sezioni della colonna sono riservate ognuna alla menzione degli abitanti nelle varie unità insediative di un comune, è già una sorta di topografia schematica del suo territorio (ASSo, AN, 421, f. 54r., 1476.05.06; ivi, f. 54v.). Se di norma, poi, nei verbali comunali la lista presenta un ordine esclusivamente lineare, dal momento che può essere percorsa lungo il solo asse verticale, in quelli dei consigli federali l’abbinamento di due liste, delle istituzioni membri e dei loro agenti, costituisce già un modulo tabulare, percorribile, come lo schema di Gian Battista Marioli, verticalmente (per leggere la composizione dell’organo) e orizzontalmente (per ricostruire il nesso fra rappresentante e soggetto rappresentato) (ASSo, AN, 68, f. 235r., 1415.09.28). Beltramo Guarinoni, poi, fece ricorso a un vero e proprio diagramma, quando, nel 1475, dispose l’elenco dei capifamiglia su una superficie rettangolare, suddivisa in cinque settori contornati, che rappresenta vividamente il comune di Rasura come il mosaico esito della giustapposizione di cinque tasselli agnatizi (ASSo, AN, 345, f. 133v., 1475.01.29).

Entro queste logiche, gli stessi abbellimenti grafici erano tutt’altro che esteriori ornamenti della pagina e venivano invece pensati per favorire la comprensione delle informazioni affidate al testo e renderlo più persuasivo. Gli elementi decorativi, che di norma nei codici manoscritti hanno lo scopo precipuo di ribadire le partizioni cruciali del testo e dunque, ad esempio, di evidenziare gli snodi fondamentali dell’argomentazione, assumono nelle imbreviature notarili e nei registri di cancelleria l’analoga funzione di segnalare gli elementi significativi e strutturali della comunità ritratta, diventando i più espliciti indicatori di quanto vi si rinviene di peculiare e rilevante [73]. Non sempre, certo, si verificava una perfetta osmosi fra testo e ordine grafico del documento: si sono già ricordati i casi in cui il primo identificava il carattere territorialmente composito della comunità e il secondo la sua coesione (ASSo, AN, 209, ff. 332v.–333r., 1466.05.04), magari con una sfumatura gerarchica (ASSo, AN, 320, f. 253v., 1488.08.19) (§ 2.3.2, § 2.4.2). Altre volte, però, l’inquadramento della pagina e l’armoniosa apertura al suo interno di spazi bianchi, la dimensione delle lettere iniziali dei capoversi (ASSo, AN, 71, f. 388r., 1417.01.02), l’inchiostro rosso impiegato per decorare ancora le iniziali o per tracciare graffe e parentesi di chiusura (Archivio della Silva, Estimi, 2, f. 70r., 1458), per vergare i toponimi posti in funzione di capitolo (BERTAMINI, Masera e i suoi Statuti, p. 99; ivi, p. 100), intervengono in modo mirato per comunicare le basi specifiche della reciproca attinenza fra gli individui (la consanguineità o la co–residenza). La riproposizione del motivo ornamentale della lettera che dominava la pagina nel titolo di una sezione della lista segnalava il rilievo della distinzione che lì si introduceva, nella circostanza quella fra chi abitava nel borgo e chi nei piccoli villaggi circostanti (ASCB, Quaterni consiliorum, 1495.06.16–10.15). L’eleganza della scrittura poteva anche introdurre altre discriminazioni sociali: nel 1427 Baldassarre Mandelli, senz’altro capace di stendere un intero elenco perseverando nello stesso livello calligrafico delle prime righe, stese invece i nomi dei nobili di Morbegno in modo più posato ed elegante, quelli dei vicini con cura assai minore (ASSo, AN, 76, f. 348r., 1427.01.26; ivi, f. 348v.).

I notai valtellinesi e camuni, per altri aspetti, sembrano adoperare un lessico che non è solo grafico, ma iconografico in senso più generale. Sovente, infatti, si rileva come i nomi degli uomini di maggiore reputazione occupino sulla loro pagina uno spazio anche sensibilmente più esteso di quello riservato a coloro cui era riconosciuto un minore credito personale. Attraverso questa tecnica vennero distinti gli abitanti di Traona (ASSo, AN, 76, f. 157r., 1422.01.01), Tresivio Monte (ASSo, AN, 124, f. 197v., 1429.01.23; ivi, f. 198r.; ivi, f. 207r., 1429.02.13; ivi, ff. 207v.–208r.), Morbegno (ASSo, AN, 171, f. 41r., 1456.02.29; ivi, f. 41v.; ASSo, AN, 497, f. 401r., 1502.01.23), Gerola (ASSo, AN, 319, f. 98r., 1474.02.24) e Cosio (ASSo, AN, 641, f. 77r., 1506.06.07; ivi, f. 77v.), o i consiglieri della comunità di Valcamonica (RP, Registri, 2, f. 207v., 1509.05.22; ivi, 208r.). In tutti i casi qui ricordati la scrittura dei nomi migliori si sviluppava estesamente in senso orizzontale, in una colonna ben più larga rispetto a quella che ospitava gli altri. Pietro Curtoni (ASSo, AN, 319, f. 98r., 1474.02.24), Nicola Castelli d’Argegno (ASSo, AN, 497, f. 401r., 1502.01.23) e Antonio Zugnoni Raimondini (ASSo, AN, 641, f. 77r., 1506.06.07) distribuirono in modo socialmente iniquo anche lo spazio verticale, per cui differenze pure appena percettibili delle distanze interlineari e del corpo della scrittura fanno sì che, nelle corrispondenti sezioni delle colonne, le righe destinate alla designazione dei non titolati si addensino lievemente più numerose (e dunque più dense e meno leggibili) di quelle riservate ai titolati.

Non si trattava certo dei frutti casuali della pretesa approssimazione con cui avrebbero lavorato i notai del tardo medioevo. Essi, infatti, erano perfettamente padroni dei mezzi, peraltro assai semplici, per dividere geometricamente la carta in due metà di pari superficie. Antonio Zugnoni, allorché dovette documentare la vita istituzionale di Delebio, dove ritenne che non vi fossero spiccate dignità sociali da rilevare e gerarchizzare, si aiutò con un accorgimento empirico per l’organizzazione delle due colonne, piegando la carta in due metà; poi occupò in modo molto bilanciato e attentissimo i due spazi così ottenuti, addossando la prima colonna al margine sinistro della carta, la seconda al solco che la attraversa lungo la mediana (ASSo, AN, 872, f. 21r., 1523.01.01; ivi, f. 21v. Cfr. già ASSo, AN, 118, f. 59r., 1428.02.02; ivi, f. 59v.; ASSo, AN, 1033, f. 13r., 1552.01.10). La rottura della simmetria della pagina e le sproporzioni rilevate si presentano dunque come scelte precise, che richiedono di essere approfondite [74]. A mio modo di vedere, vi si può riconoscere un nesso con i principi gerarchici di almeno due tradizioni: l’uso che, nei dipinti, faceva delle dimensioni delle figure – insieme ad altri accorgimenti che accrescevano la visibilità dei soggetti rappresentati, come la posizione frontale rispetto a quella di tre quarti o di profilo – un segnale della dignità del loro rango [75]; la pratica, specificamente scrittoria, di gerarchizzare la pagina manoscritta, distinguendo ad esempio il testo e il commento, mediante il corpo della scrittura e le distanze interlineari. Con ciò non voglio negare, peraltro, l’incidenza di un ulteriore motivo d’ordine materiale: tra i distintivi di status degli uomini di maggiore reputazione, nel XV e XVI secolo, erano imprescindibili il titolo personale, il titolo riconosciuto al padre e l’identificazione di quest’ultimo, nonché il cognome; per contro, alla registrazione di un vicino di condizione modesta poteva bastare il nome e il soprannome. Anche tale fenomeno, però, è significativo: una pratica gerarchica d’identificazione delle persone produceva un’organizzazione gerarchica dello spazio delle loro designazioni all’interno del documento, dal momento che accresceva sensibilmente l’immediato richiamo visivo e la leggibilità dei nomi degli uomini di superiore prestigio a danno di quelli altrui [76].

Le competenze visuali di un notaio basso–medievale, infine, non si dovevano arrestare alla decodificazione di una pagina manoscritta o di una parete affrescata, ma si esercitavano in molti momenti della vita sociale. Anche in questo campo, è possibile ricostruire la comunicazione fra le loro scritture ed altre esperienze della vista. Si è detto, ad esempio, quale fosse l’importanza attribuita alla designazione primo loco nelle liste; ebbene, si trattava di uno dei segnali dell’eminenza sociale più largamente impiegati, chiave con la quale si sarebbero potuti decifrare molti messaggi anche delle cerimonie pubbliche dell’epoca. Ad esempio, sui registri del comune di Bormio era leggibile la stessa precedenza degli uomini della «Terra mastra» su quelli delle Vallate (ASCB, Quaterni consiliorum, 1495.06.16–10.15) che si sarebbe trovata riaffermata nell’ordine delle processioni, quando gli abitanti dei villaggi, con le loro croci, dovevano seguire i borghigiani [77]. Guidosio Castelli d’Argegno nel 1456 mise a punto un’immagine gerarchica della società morbegnese e del suo vertice (ASSo, AN, 171, f. 41r., 1456.02.29; ivi, f. 41v.) che gli servì pure l’anno successivo quando registrò la fondazione del convento di S. Antonio, affidato ai frati predicatori. L’elenco di coloro che accompagnarono gli ufficiali del comune e un religioso nel solenne ingresso nella chiesa, che non si può escludere riprendesse le effettive posizioni nel corteo, segue in larga parte quello che lo stesso notaio aveva già elaborato con tanta cura grafica [78].


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note

[61] Cfr. G. COSTAMAGNA, La triplice redazione dell’«instrumentum» genovese, Genova 1961; A. LIVA, Notariato e documento notarile a Milano. Dall’Alto Medioevo alla fine del Settecento, Roma 1979, pp. 101–102; L. ZAGNI, La redazione dei protocolli notarili a Milano nel secolo XIV, «Studi di storia medioevale e di diplomatica», 7 (1982), pp. 43–53; M. DELLA MISERICORDIA, Le ambiguità dell’innovazione. La produzione e la conservazione dei registri della chiesa vescovile di Como (prima metà del XV secolo), in I registri vescovili nell’Italia centro–settentrionale (secoli XII–XV), Atti del Convegno di Studi (Monselice, 24–25 novembre 2000), a cura di A. BARTOLI LANGELI, A. RIGON, Roma 2003, pp. 85–139, pp. 93–96, distribuito anche da «Reti medievali».

[62] M. B. PARKES, The Influence of Concepts of Ordinatio and Compilatio on the Development of the Book, in Medieval Learning and Literature. Essays presented to Richard William Hunt, a cura di J. J. G. ALEXANDER, M. T. GIBSON, Oxford 1976, pp. 115–141; R. H. ROUSE, M. A. ROUSE, Statim invenire. Schools, Preachers, and New Attitude to the Page, in Renaissance and Renewal in the Twelfth Century, a cura di R. L. BENSON, G. CONSTABLE con C. D. LANHAM, Oxford 1982, pp. 201–225; H.–J. MARTIN, Storia e potere della scrittura, Roma–Bari 1990 [ed. or. Paris 1988], pp. 159–162, 175–176; J. P. GUMBERT, La page intelligible: quelques remarques, in Vocabulaire du livre et de l’écriture au moyen âge, Actes de la table ronde (Paris, 24–26 septembre 1987), a cura di O. WEIJERS, Turnhout 1989, pp. 111–119; M. CARRUTHERS, The Book of Memory. A Study of Memory in Medieval Culture, Cambridge 1990, pp. 93, 112, 124 ecc.; O. WEIJERS, Dictionnaires et répertoires au moyen âge. Une étude du vocabulaire, Turnhout 1991, pp. 9, 23–40; M. B. PARKES, Pause and Effect. An Introduction to the History of Punctuation in the West, Cambridge 1992; E. EISENLOHR, Kola und Kommata. Von Hieronymus zum Evangeliar Heinrichs des Löwen, in Mabillons Spur: zweiundzwanzig Miszellen aus dem Fachgebiet für Historische Hilfswissenschaften der Philipps–Universität Marburg zum 80. Geburtstag von Walter Heinemeyer, a cura di P. RÜCK, Marburg an der Lahn 1992, pp. 105–132; M. PARKES, Leggere, scrivere, interpretare il testo: pratiche monastiche nell’alto medioevo, pp. 71–90, in Storia della lettura nel mondo occidentale, a cura di G. CAVALLO, R. CHARTIER, Roma–Bari 1995; J. HAMESSE, Il modello della lettura nell’età della Scolastica, ivi, pp. 91–115; P. SAENGER, Leggere nel tardo medioevo, ivi, pp. 117–154, in particolare pp. 82, 92, 96–97, 100–101, 117, 124, 129–130, 133–134; ID., Space Between Words. The Origins of Silent Reading, Stanford 1997, pp. 113, 155 ecc. V. pure i quadri di sintesi in A. PETRUCCI, Prima lezione di paleografia, Roma–Bari 2002, pp 12–15, 61–62; E. BRAMBILLA, Genealogie del sapere. Università, professioni giuridiche e nobiltà togata in Italia (XIII–XVII secolo). Con un saggio sull’arte della memoria, Milano 2005, pp. 164 e sgg. Anche il lettore interveniva personalmente sulla pagina con modalità analoghe: WEIJERS, Dictionnaires et répertoires, p. 38; P. SAENGER, M. HEINLEN, Incunable Descriptions and Its Implication for the Analysis of Fifteenth–Century Reading Habits, in Printing the Written Word. The Social History of Books, circa 1450–1520, a cura di S. HINDMAN, Ithaca–London 1992, pp. 225–258, pp. 239–256; D. RANDO, Dai margini la memoria. Johannes Hinderbach (1418–1486), Bologna 2003, pp. 255–256.

[63] V. ad es. BAIETTO, Scrittura e politica, p. 163; A. AIRÒ, La scrittura delle regole. Politica e istituzioni a Taranto nel Quattrocento, tesi di dottorato di ricerca, Università degli studi di Firenze, a.a. 2000/2001–2002/2003, coord. J.–C. Maire Vigueur, p. 34. Cfr. M. T. CLANCHY, From Memory to Written Record. England 1066–1307, Oxford–Cambridge (Mass.) 19932, pp. 132–135, 172–177.

[64] R. H. ROUSE, M. A. ROUSE, La naissance des index, in Histoire de l’édition française, I, Le livre conquérant. Du Moyen Âge au milieu du XVIIIe siècle, [Paris] 1982, pp. 77–85; WEIJERS, Dictionnaires et répertoires, pp. 93 e sgg.; N. BOULOUX, Culture et savoirs géographiques en Italie au XIVe siècle, Turnhout 2002, pp. 217–235.

[65] A. C. ESMEIJER, Divina quaternitas. A preliminary study in the method and application of visual exegis, Amsterdam 1978; Ch. KLAPISCH–ZUBER, La famiglia e le donne nel Rinascimento, Roma–Bari 19952, pp. 34–38; A. ERRERA, Arbor actionum. Genere letterario e forma di classificazione delle azioni nella dottrina dei glossatori, Bologna 1995; SAENGER, Space Between Words, pp. 79, 132, 138–139, 144, 155, 160, 168, 190, 238; B. KÜHNEL, Carolingian Diagrams, Images of the Invisible, in Seeing the Invisible in Late Antiquity and the Early Middle Ages, a cura di G. DE NIE, K. F. MORRISON, M. MOSTERT, Turnhout 2005, pp. 359–389. Un eccezionale interesse ha suscitato nei decenni l’opera di Gioacchino da Fiore: v. almeno L. TONDELLI, M. REEVES, B. HIRSCH–REICH, Il libro delle figure dell’abate Gioachino da Fiore, Torino 19532, riedito con la Presentazione di R. RUSCONI, Torino 1990; M. REEVES, B. HIRSCH–REICH, The Figurae of Joachim of Fiore, Oxford 1972; F. TRONCARELLI, E. B. DI GIOIA, Scrittura, testo, immagine in un manoscritto gioachimita, «Scrittura e civiltà», 5 (1981), pp. 149–186, pp. 175–179; G. L. POTESTÀ, Il tempo dell’Apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore, Roma–Bari 2004; M. RAININI, Disegni dei tempi. Il «Liber Figurarum» e la teologia figurativa di Gioacchino da Fiore, Roma 2006 (quest’ultimo, peraltro, è solo un volume – quello che più interessa l’argomento – della collana del «Centro internazionale di studi gioachimiti», Opere di Gioacchino da Fiore: testi e strumenti, Genova 1989–1992, Roma 1995 e sgg., che anche in altri casi, soprattutto G. DA FIORE, Il salterio a dieci corde, Roma 2004, ha proposto una lettura parallela dei testi e delle immagini dell’abate calabrese, adottando specifiche soluzioni editoriali). In questa sede, schemi e immagini interessano in primo luogo come contenitori di parole, ma ovviamente essi potevano essere muti e affidarsi esclusivamente o prevalentemente alle risorse della comunicazione figurativa: ad es. la rappresentazione dell’inferno in un affresco, grazie ai vari livelli in cui esso era ripartito, illustrava le diverse categorie di peccati, li raggruppava tipologicamente, dispiegava un ordine della loro gravità: J. BASCHET, I peccati capitali e le loro punizioni nell’iconografia medievale, in C. CASAGRANDE, S. VECCHIO, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Torino 2000, pp. 225–260. Cfr. C. CASAGRANDE, S. VECCHIO, I peccati della lingua. Disciplina ed etica della parola nella cultura medievale, Roma 1987, pp. 54 e 70, n. 46. Con l’invenzione della stampa si produssero trasformazioni che per alcuni versi semplificarono, ma certo non dissiparono il tradizionale patrimonio diagrammatico: L. BOLZONI, Il teatro della memoria. Studi su Giulio Camillo, Padova 1984; EAD., La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Torino 1995, in particolare pp. 3–86; A. ANGELINI, Sapienza, prudenza, eroica virtù. Il mediomondo di Daniele Barbaro, Firenze 1999; W. J. ONG, Ramus. Method, and the Decay of Dialogue, Chicago–London 2004. V. anche le suggestive riproduzioni in C. BORROMEO, Arbores de Paschate, a cura di C. MARCORA, Roma 1985. Per le stimolanti aperture sul testo matematico, segnalo W. RAIBLE, Der Semiotik der Textgestalt. Erscheinungsformen und Folgen eines kulturellen Evolutionprozesses, Heidelberg 1991, monografia in Sitzungsberichte der heidelberger Akademie der Wissenschaften. Philosophisch–historische Klasse, Heidelberg 1991. Per le considerazioni sul testo letterario, G. POZZI, La parola dipinta, Milano 2001.

[66] P. ROSSI, Clavis universalis. Arti mnemotecniche e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Milano–Napoli 1960; F. A. YATES, L’arte della memoria, Torino 1972 [ed. or. 1966]; CARRUTHERS, The Book of Memory; Pre–modern Encyclopaedic Texts, Proceedings of the Second COMERS Congress (Groningen, 1–4 July 1996), a cura di P. BINKLEY, Leiden 1997; BRAMBILLA, Genealogie del sapere, pp. 159–218. Sui rapporti fra immagini mnemotecniche e diagrammi, v. H. WENZEL, Hören und Sehen, Schrift und Bild. Kultur und Gedächtnis im Mittelalter, München 1995, pp. 72–89. Il nesso tra arti figurative e tecniche della memoria e della meditazione, con attenzione ancora alle rappresentazioni diagrammatiche, è stato esaminato da una molteplicità di punti di vista: ESMEIJER, Divina quaternitas; J: LE GOFF, Memoria, in Enciclopedia, VIII, Torino 1979, pp. 1068–1109, p. 1088; J.–C. SCHMITT, Les images classificatrices, «Bibliothèque de l’École des chartes», 147 (1989), pp. 311–341; C. CIOCIOLA, «Visibile parlare»: agenda, «Rivista di letteratura italiana», VII (1989), pp. 9–77, pp. 22–29; L. BOLZONI, La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Torino 2002; EAD., Educare lo sguardo, controllare l’interiorità: usi delle immagini nella predicazione volgare del Tre e Quattrocento, in Arti e storia nel Medioevo, III, Del vedere: pubblici, forme, funzioni, Torino 2004, pp. 519–549; J. B. FRIEDMAN, Les images mnémotechniques dans les manuscrits de l’époque gothique, in Jeux de mémoire. Aspects de la mnémotechnie médiévale, a cura di B. ROY, P. ZUMTHOR, Montréal 1985, pp. 169–184; M. CARRUTHERS, The Craft of Thought. Meditation, rhetoric and the making of images, 400–1200, Cambridge 1998.

[67] V. ad es. ASSo, AN, 15, ff. 143v.–144r., 1347.03.24; 3, ff. 333v.–334r., 1352.09.25; 72, ff. 91r.–113r., 1419.01.20–02.10; 36, ff. 550v.–551r., 1425.09.02; f. 623v., 1428.11.17; 382, ff. 258r.–v., 1501.03.13; 640, ff. 35v.–36r., 1512.03.26.

[68] ASSo, AN, 4, 1328–1343; 11, 1346–1349. Cfr. ivi, 15, f. 62v. (per un frammento di rubrica); 21, 1345–1361 (ma la rubrica si riferisce agli istrumenti stesi dal 1353). Un lavoro specifico sulla reperibilità della documentazione fu compiuto da Michele Panigoni negli anni a cavallo fra Quattro e Cinquecento. Provvide le sue carte di una non comunissima rubrica «facta secundum ordinem alphabeti», un fascicolo che presenta il margine destro tagliato in modo scalare per evidenziare le singole lettere capitali vergate in inchiostro rosso, disposte appunto secondo l’ordine dell’alfabeto. Nelle pagine intestate a ciascuna lettera erano riassunti gli istrumenti la cui dicitura tipologica (livellum, compromissum) presentasse la corrispondente iniziale. All’interno di ogni sezione, poi, gli atti si succedevano in ordine cronologico: una volta reperito l’atto in rubrica, infatti, grazie alla data si sarebbe identificato il volume delle imbreviature relativo all’anno desiderato, da scorrere poi avvalendosi del riquadro posto dal notaio sul margine superiore delle pagine, a sinistra, in cui riportava il mese e il giorno dei vari rogiti (ASSo, AN, 584).

[69] DELLA MISERIDICORDIA Mappe di carte, n. 48 e testo corrispondente.

[70] ASSo, AN, 604, f. 66v., 1523.04.19.

[71] P. GRILLO, «Reperitur in libro». Scritture su registro e politica a Milano alla fine del Duecento, in Libri, e altro. Nel passato e nel presente, Milano 2006, pp. 33–53, p. 37; DELLA MISERICORDIA, Mappe di carte, n. 25 e testo corrispondente. Su tali circuiti, cfr. A. GAMBERINI, Lo stato visconteo. Linguaggi politici e dinamiche costituzionali, Milano 2005, p. 59.

[72] Il cartulario di Guidino Castelli è in ASSo, AN, 2–3, 1321–1354; v. in particolare ivi, 3, ff. 306r. e 338v., 1352, circa la memoria di quanto dovuto «pro talea», «pro confess[ionibus]», «pro salario» e presumibilmente anticipato dallo stesso notaio. Fancolo Forbecheni, di cui si conservano le carte a patire dal 1336, pure con lacune, ricorse alle cifre arabe dal 1346: prima le affiancò a quelle romane, dal 1347 abbandonò le seconde nella cartulazione del suo liber, ma conservò la doppia numerazione nella rubrica; le introdusse invece in modo esclusivo sia nella cartulazione sia nella rubrica del liber successivo, relativo agli anni 1348–1349. In fasi ulteriori della sua carriera, però, tornò ad affiancarle alle cifre romane o a servirsi soltanto di queste ultime (ivi, 10–14, 1336–1365). Simone della Porta negli anni 1340–1348 adoperò esclusivamente le cifre romane, nel corso del 1348 passò a quelle arabe, cui restò fedele per tutta la carriera, tanto nel liber, quanto nelle prime stesure degli istrumenti, nel protecholus (ivi, 15–20, 1340–1383). Per il lavoro di Romeriolo, v. ivi, 4, ff. 187v.–193v., 1342.03.12 (per l’elenco numerato dei terreni) e f. 286r. (per la prova di scrittura dei numeri), nonché, nel suo complesso, ivi, 7, che raccoglie l’attività degli anni Sessanta e Settanta su cui mi sono soffermato nel testo. Dopo la metà del secolo, usarono le cifre arabe nella cartulazione Giacomo Caspani (ivi, 23, 1352–1368) e Giovannolo Castelli d’Argegno, fratello di Romeriolo (ivi, 24–25, 1352–1396). Cfr. T. ZERBI, Le origini della partita doppia. Gestioni aziendali e situazioni di mercato nei secoli XIV e XV, Milano 1952; G. ARRIGHI, La matematica dell’Età di Mezzo. Scritti scelti, Pisa 2004, specialmente pp. 241 e sgg.; R. FRANCI, L. TOTI RIGATELLI, Introduzione all’aritmetica mercantile del medioevo e del Rinascimento. Realizzata attraverso un’antologia degli scritti di Dionigi Gori (sec. XVI), Urbino 1982; R. FRANCI, Le matematiche dell’abaco nel Quattrocento, in Contributi alla storia delle matematiche. Scritti in onore di Gino Arrighi, Modena 1992, pp. 53–74; G. TABARRONI, La matematica occidentale dopo il Mille: sua interazione con la vita quotidiana e la cultura, in «Imago Mundi»: la conoscenza scientifica nel pensiero asso medioevale, Atti del Convegno (11–14 ottobre 1981), Todi 1983, pp. 139–153, nonché i materiali in F. MELIS, Documenti per la storia economica dei secoli XIII–XVI con una nota di Paleografia commerciale di E. CECCHI, Firenze 1972. La recente miscellanea Écrire, compter, mesurer: vers une histoire des rationalités pratiques, a cura di N. COQUERY, F. MENANT, F. WEBER, Paris 2006, mette a frutto anche le nuove attenzioni per le pratiche scrittorie. In particolare, sul ruolo dei notai (altrove più precoci di quelli valtellinesi) nell’introduzione delle cifre arabe, v. BARTOLI LANGELI, Notai, pp. 87–108. È bene precisare che nella zona in esame, per ora, è risultato attestato l’insegnamento della grammatica piuttosto che quello dell’abaco (DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità, p. 711; MANGINI, Il notariato a Como, pp. 48–51).

[73] V. ad es. H. TOUBERT, Formes et fonctions de l’enluminure, in Histoire de l’édition française, I, Le livre conquérant. Du Moyen Âge au milieu du XVIIIe siècle, [Paris] 1982, pp. 87–130, p. 97; TRONCARELLI, DI GIOIA, Scrittura, testo, immagine, pp. 176–179; R. MCKITTERICK, Text and image in the Carolingian world, in The uses of literacy in early mediaeval Europe, a cura di R. MCKITTERICK, Cambridge 1990, pp. 297–318, pp. 305 e sgg. Si segnala, per l’attenzione prestata alla scrittura documentaria, CLANCHY, From Memory to Written Record, pp. 133, 172–174, 278 e sgg. Per un confronto con la cultura bizantina, v. I. HUTTER, Decorative systems in Byzantine manuscripts, and the scribe as artist: evidence from manuscripts in Oxford, «Word & image», 12 (1996), pp. 4–22; M.–L. DOLEZAL, Illuminating the liturgical word: text and image in a decorated lectionary (Mount Athos, Dionysiou Monastery, cod. 587), ivi, pp. 23–60. V. anche sopra, n. [62].

[74] Cfr. M. MANIACI, con contributi di C. FEDERICI ed E. ORNATO, Archeologia del manoscritto. Metodi, problemi, bibliografia recente, Roma 2002, pp. 101–120.

[75] F. GARNIER, Le langage de l’image au Moyen âge, I, Signification et symbolique, Paris 1982, pp. 42, 67–80; II, Grammaire des gestes, Paris [1989], pp. 40–41, 60, 179–180 ecc.

[76] Un ulteriore esempio di enfasi sui nomi dei nobili posta dalle dimensioni del carattere della scrittura è in M. A. CARUGO, Tresivio. Una pieve valtellinese tra Riforma e Controriforma, Sondrio 1990, p. 207.

[77] I. SILVESTRI, Il Medioevo di Livigno, in Storia di Livigno. Dal Medioevo al 1797, a cura di F. PALAZZI TRIVELLI, Sondrio 1995, pp. 27–209, p. 171.

[78] ASSo, AN, 172, ff. 194v.–195r., 1457.05.19.