2. La forma della comunità: culture locali nel mutamento

2.4. Un esito parallelo: l’articolazione interna delle comunità (contrade, comuni rurali, federazioni) e la rappresentazione analitica e non gerarchica dell’ordine territoriale

2.4.2. Comune e contrade in Valtellina

In Valtellina il comune rurale era di regola policentrico e si affermò la stessa tendenza, rilevata in Ossola nel paragrafo precedente, a concepirlo come la sintesi istituzionale dei vari villaggi che lo costituivano, quando questi ultimi si guadagnarono crescenti autonomie e competenze, soprattutto tra XV e XVI secolo. Divenuta meno scontata la compatibilità tra l’unità del comune da una parte, e i margini di indipendenza che i gruppi di residenza pretendevano, nonché il rilievo identitario che essi affermavano dall’altra, si cercarono forme di compromesso tra le due esigenze ed aspirazioni. A ridefinire di volta in volta un possibile punto di incontro furono i meccanismi di divisione delle cariche, la ripartizione del carico fiscale e delle responsabilità fra le diverse contrade; la rappresentazione grafica del documento notarile fu un uno dei campi in cui si cercò di costruire il modello di un comune composito, che potesse conservare la propria coesione riconoscendo però l’articolazione interna. Mentre quindi le agnazioni persero nel corso del Quattrocento il rilievo istituzionale e la visibilità documentaria acquisita all’inizio del secolo, le contrade la mantennero e talvolta la ampliarono.

Tale opzione, nel XVI secolo, poteva proseguire un’ormai secolare tradizione locale (§ 2.2.4). Ad Ardenno, ancora nel 1552, le specificazioni, «omnes terre del Maxino», «omnes terre de Gadio» e così via, come nel documento relativo allo stesso comune risalente al 1476, già esaminato, scandivano l’elenco dei vicini ed erano rientrate rispetto al margine della colonna che ospitava i nomi di questi ultimi. Entro le diverse serie, i cognomi erano avvicinati, accolti dunque come criterio ordinativo, ma di secondaria importanza rispetto alla località di abitazione. Entro le diverse parentele, i notai conservavano anche la compattezza dei singoli nuclei familiari, accostando i fratelli. Nessun significato, infine, aveva l’ordine gerarchico: se nel Quattrocento nessuno dei vicini era insignito di gradi di dignità che potessero suggerirlo, nel 1552 l’unico presente a portare un titolo, dominus Vincenzo Parravicini, non guadagnava la precedenza grazie ad esso, ma restava consegnato al luogo di Ardenno, nell’ultima colonna (ASSo, AN, 1033, f. 13r., 1552.01.10; ivi, f. 13v.).

La stessa opzione, sempre nel Cinquecento, poteva però presentarsi come un’innovazione. A Grosio la serie di statuti conservatisi dalla fine del XV secolo introdusse, nel corso di quattro decenni, norme che vennero distinguendo la posizione degli uomini del comune a seconda della contrada di residenza. Ancora nel 1491 essa era del tutto indifferente; almeno una decina di capitoli introdotti negli anni successivi ne fece invece una condizione discriminante per quanto riguardava le competenze delle guardie campestri del comune e la determinazione dei diritti di pascolo dei vicini. I prologhi delle successive raccolte normative accompagnarono le trasformazioni sociali e istituzionali, accrescendo l’enfasi posta sull’appartenenza dei riformatori alle diverse contrade. Gli statutari incaricati dell’aggiornamento della normativa, infatti, furono sempre espressi dalle cinque contrade in cui il comune si divideva, ma nel 1491 (ASCG, Statuti, 1, fasc. 3, 1491) e ancora nel 1528 i loro nomi si succedevano in un elenco amorfo, che li qualificava come «omnes de Grosio» senza ulteriori specificazioni. Nel 1515, nel 1539 e nel 1543 (ivi, fasc. 5, 1543) si precisò attentamente per quale quadra agiva ognuno di essi, ma senza che questa attenzione assumesse un’evidenza grafica nuova. Nel 1545, infine, tale indicazione acquisì la massima trasparenza. L’elenco degli statutari, tutti privi di titoli individuali di prestigio, fu per la prima volta organizzato nella forma della lista: lo spazio era scandito elegantemente dai rientri dei capoversi e dalle righe lasciate bianche, rendendo immediatamente leggibile, sulla prima carta del codice, la divisione del comune in quadre (Viale, Adda, Piatta, Ravoledo, Tiolo), e al contempo il loro concorso nella designazione degli incaricati di regolarne la convivenza (ivi, fasc. 6, 1545) [34].

La rappresentazione analitica si sviluppò non solo al livello del comune rurale, che come ho detto era spesso un’unione istituzionale di più contrade, ma anche delle stesse contrade. In alcuni casi esse consistevano di una singola unità abitativa (il villaggio), in altri erano circoscrizioni di taglia sub–comunale, costituite da una pluralità di insediamenti; nella seconda circostanza si prestavano a loro volta ad essere intese come un insieme di gruppi residenziali particolari.

Una parabola riccamente documentata è quella percorsa dal Monte di Morbegno, la contrada che comprendeva gli abitati d’alta quota del comune (Valle, Campiano, Arzo, Campo Erbolo e via dicendo), il cui capoluogo sorgeva invece nel fondovalle. Nel 1428 si tenne la prima assemblea degli uomini della contrada. Allora il notaio Bertolino Castelli d’Argegno si mostrò incerto nel definire la nuova unità associativa: nel foglio inserto nel cartulario, prima stesura del documento, la vide come la riunione di un ceto («congregatio vicinorum de Morbegnio»); nelle prime righe dell’imbreviatura sul quaderno (dove evidentemente voleva riprodurre il primo verbale, lavoro che si arrestò alla quarta riga), si riferì invece alla «congregatio vicinorum de Monte communis Morbegnii». Sembra che in ogni caso non ritenesse di dovervi riconoscere le articolazioni interne: designò i convenuti in un elenco amorfo, privo di accorgimenti grafici che ne potessero segnalare la residenza, la parentela o la reputazione individuale (ASSo, AN, 36, f. 603r., 1428.04.01).

Nel 1466, invece, Pietro Foppa individuò la matrice territoriale della comunità (la cura dipendente dalla chiesa di S. Matteo di Valle, che comprendeva la contrada del Monte e il vicino comune di Albaredo, che tennero un’assemblea congiunta), vista non più come un segmento cetuale, ma come un insieme di terre, loci e ville. Tuttavia il riconoscimento di tale pluralismo insediativo era rimesso esclusivamente al testo del documento («convocatis et congregatis hominibus, vicinis et pauperibus suppositis ecclesie Sancti Mathei appostoli de Albaredo, videlicet terrarum, locorum et vilarum communis de Albaredo, de la Valle, de Camplano, de Artio et de Tartuxellis»), tanto che il notaio, stilando la lista dei convenuti, non osservò nessun principio d’ordine. La disposizione in un’unica colonna dei nomi era molto più elegante graficamente rispetto alla sciatta sequenza del 1428, ma non separava i membri delle varie parentele e gli abitanti dei diversi villaggi, né gli uomini del Monte di Morbegno da quelli del comune di Albaredo (ASSo, AN, 209, ff. 332v.–333r., 1466.05.04; ivi, f. 333v.).

Il verbale dell’assemblea di una vicinanza tenuta nel 1520 propose invece una classificazione più analitica della società locale. L’informe rappresentazione dei decenni precedenti cedette allora ad una chiara gerarchia delle identità: il notaio Giacomo Fontana conferì la precedenza al criterio della residenza, subordinò ad esso quello della graduatoria del prestigio, mentre accantonò quello della parentela. Ordinò i nomi dei parrocchiani di S. Matteo, dunque ancora gli uomini del Monte e di Albaredo, a seconda del villaggio in cui abitavano. Pur non introducendo righe bianche come separatori, conferì piena evidenza ai diversi blocchi residenziali: dispose l’elenco su due colonne per pagina, apponendo l’indicazione omnes de la Valle tra le due colonne alla fine della prima pagina, e quelle omnes de Campo Herbolo, omnes de Artio, omnes de Camplano entro la successiva colonna, ma in posizione rientrata rispetto all’allineamento dei nomi, in tutti i quattro casi istituendo una scansione immediatamente percepibile. Invece non organizzò i diversi cognomi in sequenze omogenee e continue (ASSo, AN, 812, ff. 190v.–191r., 1520.11.30). Artuichino Castelli di San Nazaro, nel 1525 e nel 1527, condivise i medesimi criteri ordinativi. In primo luogo divise i convenuti per località di residenza, nel 1525 conferendo a tale scansione una minore immediatezza grafica e commettendo un paio di infrazioni (ASSo, AN, 670, ff. 192v.–193r., 1525.10.01); nel 1527, invece, interrompendone talvolta l’elenco con una riga bianca per ribadire lo stacco fra i vicini dei diversi villaggi. In subordine alla residenza, accostò i membri di una stessa famiglia (avvicinando fratelli, zii e nipoti), mentre, per quanto riguarda la parentela più ampia, non andò oltre un’attenzione di massima ad accorpare chi portava lo stesso cognome (ASSo, AN, 670, f. 416r., 1527.01.01; ivi, ff. 416v.– 417r.).


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note

[34] Cfr. ASCG, Statuti, 1, fasc. 4, 1515.03.07 e 1528.04.26; fasc. 5, 1539.