2. La forma della comunità: culture locali nel mutamento

2.4. Un esito parallelo: l’articolazione interna delle comunità (contrade, comuni rurali, federazioni) e la rappresentazione analitica e non gerarchica dell’ordine territoriale

2.4.4. L’università di Valtellina: verso un sistema politico egemonizzato dalle comunità

Il secondo punto sopra identificato (§ 2.4.3), i rapporti fra i soggetti costituenti il territorio, richiede di essere maggiormente articolato, dal momento che tocca equilibri politici precari, mutevoli nel tempo e nelle diverse realtà locali.

In Valtellina, nel Trecento, le comunità federali si presentano in un primo momento come formazioni composite dei differenti ordini (i nobili, i cittadini e i vicini). Più tardi i membri furono identificati perlopiù nei comuni rurali, con il concorso estemporaneo di minori unità residenziali e parentali, affiancati dalle comunità dei nobili locali. Nel Quattrocento il regolare intervento nei consigli di tali gruppi privilegiati venne meno; più incisivo, per contro, rimase la presenza di poche parentele potenti o di singoli aristocratici. Nel corso del Cinquecento, poi, le assemblee esclusero anche queste ultime rappresentanze. Il comune rurale, dunque, nel XIV come nel XV secolo, non era l’unica base costitutiva delle federazioni; lo divenne invece in seguito, con la crisi dell’autonoma posizione politica della nobiltà maggiore, che le Tre Leghe, i signori della valle dal 1512, privarono pure delle immunità fiscali.

Tale parabola fu percorsa, in parallelo, anche dall’organizzazione degli elenchi contenuti nei verbali redatti dai notai attivi per le federazioni, senza mettere in discussione lo schema analitico generale, sufficientemente elastico da poter contemplare la sostituzione o la scomparsa di alcune delle singole unità cui di volta in volta assicurava la leggibilità a favore di altre.

Alcuni tra i verbali più antichi, attorno alla metà del Trecento, erano informi sequenze di nomi, come quelli del Consiglio della pieve di Olonio nel 1363 (ASSo, AN, 7, f. 156r., 1363.12.09) [36] o, su una scala più ampia, del Consiglio della Valtellina nel penultimo decennio del secolo (ASSo, AN, 49, f. 66r., 1388.08.21). L’identificazione delle rappresentanze comune per comune non era dunque visivamente immediata e a volte pure mal precisata dal testo del documento.

Nel 1366 Romeriolo Castelli d’Argegno pensò una rappresentazione della comunità federale rispettosa in primo luogo della diversità degli ordini che la costituivano, sperimentando lo stesso principio che, si è detto, egli applicava pure nella sua lettura della società di Morbegno, dove viveva (§ 2.2.2). I nomi dei convenuti all’assemblea del versante retico della pieve di Olonio, allora, furono divisi dall’estensore del relativo verbale a seconda della loro appartenenza al ceto dei nobili, cui fu assegnata la precedenza, o dei vicini. Il notaio pose molta enfasi sulla discontinuità sociale, tradotta sulla pagina con alcune righe dell’elenco lasciate bianche e una barra obliqua tra la prima e la seconda sezione. Se poi Romeriolo, secondo un’ipotesi che ho già formulato circa il lavoro dei notai (§ 2.2.4), si fosse invece servito di quest’ultimo segno semplicemente per cassare, in un secondo momento, le righe rimaste bianche fra quelle che aveva in precedenza destinato alla compilazione dell’elenco, pensando evidentemente di dover scrivere più nomi, resterebbe il fatto, in ogni caso emblematico di un modo di pensare la società, che egli prima partì la pagina fra i due ceti e poi riempì con la designazione dei loro esponenti le due sezioni così ottenute.

Inoltre il notaio elencò i nobili semplicemente in quanto tali, senza nessun ordine né per cognome, né per residenza, che non precisava nemmeno, mentre scandì la sequenza dei vicini a seconda del loro comune di abitazione. Il criterio ordinativo riproduceva così la diversa matrice della capacità politica dei due ceti: i vicini intervenivano come rappresentanti di un comune rurale, mentre i nobili potevano fare a meno di un mandato istituito su tale base e si proponevano quindi come membri del consiglio in grado di impegnare il territorio da una posizione sostanzialmente discosta dalla maglia comunitaria che lo organizzava alla base (ASSo, AN, 7, f. 256r., 1366.06.06).

In seguito i comuni rurali accrebbero la propria incisività politica e la propria visibilità documentaria. Alla fine del Trecento e all’inizio del Quattrocento, allora, molte località vennero pensate come bipartite, fra il comune dei vicini e il ceto dei nobili: il notaio avvicinava le due delegazioni, riconoscendo la precedenza ora ai primi ora ai secondi, ma le teneva separate, in modo da enfatizzare il loro concorso, però da posizioni diverse, alla rappresentanza della popolazione di un medesimo centro abitato (ASSo, AN, 52, f. 158r., 1393.05.18; ASSo, AN, 68, f. 235r., 1415.09.28; ivi, f. 235v.).

Nel corso del XV secolo in quasi tutta la Valtellina si verificò una drastica selezione fra gli aristocratici in grado di essere rappresentati direttamente nei consigli federali: non più il ceto dei nobili costituitosi a fianco o all’interno del comune rurale nelle varie località, ma solo pochi individui e parentele di grande influenza e ricchezza (Quadrio, Beccaria, de Pendolasco, Venosta). Scomparvero allora nei documenti le delegazioni bipartite; per contro, verso la fine del secolo, nei verbali delle assemblee della comunità di valle, nello stesso modo in cui erano menzionati gli intervenuti pro communi de... o pro squadra de..., furono designati pure gli agenti pro exemptis de... (allorché gli aristocratici erano identificati tout court come i soggetti fiscalmente avvantaggiati), pro nobilibus de..., pro domo de... (ASSo, AN, 517, f. 191v., 1491.01.09), oppure singoli individui che intervenivano esclusivamente a proprio nome.

I nomi dei pochi soggetti che beneficiavano di una posizione d’eccezione a volte furono inseriti nell’elenco tra i procuratori dei comuni, avvicinandoli a quelli che agivano per la località in cui risiedevano, in altre circostanze vennero citati in apertura della sequenza o, con lo stesso significato, in chiusura, a suggerire la loro estraneità rispetto alla rete di istituzioni comunitarie che diveniva via via più forte. Ad esempio, nel 1492, un’ampia parentesi di chiusura comunicava un messaggio non scontato: la reciproca attinenza fra il decano del comune e Domenico de Pendolasco, esponente della nobiltà esente, nella rappresentanza di Montagna (ivi, f. 279v., 1492.02.16). In modo contrario era stata risolta, nel 1489, la posizione di Castellino Beccaria di Sondrio, ponendo particolare enfasi sull’eccellenza e il distacco del nobile, rappresentati espressivamente dalla precedenza e dalla lontananza, nella pagina, del suo nome da quello di tutti gli altri intervenuti (ivi, f. 51v., 1489.10.18).

Spesso si direbbe che non fosse facilissimo per i cancellieri trovare un posto a questi aristocratici, come è possibile esemplificare limitandosi ai Venosta. Essi furono citati a volte in fondo alla lista (ivi, f. 191v., 1491.01.09), altre volte dopo la menzione dei comuni della porzione di valle in cui abitavano (il Terziere Superiore) e dunque in posizione mediana (ivi, f. 123r., 1490.05.23), a volte accanto agli esenti Quadrio, secondo una logica priva di ogni ancoraggio ad un ordine territoriale e mirante invece a identificare un segmento sociale di pari livello (ivi, f. 115v., 1490.02.28). La posizione in questi documenti concorreva a precisare pure le varie identità di uno stesso nobile nelle diverse situazioni. È il caso di Cristoforo Venosta, esponente di un consorzio privilegiato, ma legato alle istituzioni del comune di residenza, Grosio, tanto da diventarne decano, e a quelle dei centri limitrofi. Egli, agente appunto per i comuni di Grosio, Grosotto, Sondalo, Tovo e Lovero veniva menzionato nel tessuto della lista partita per soggetti territoriali, al posto che assegnava a quei luoghi, come vedremo, la loro disposizione geografica, cominciando dall’alta valle; i nomi dei suoi agnati, che invece intervenivano per il casato, pure residenti in un centro vicino, erano collocati lontano, alla fine della lista stessa. Significativamente in queste circostanze Cristoforo fu sempre designato senza il cognome, ma con il solo toponimico (de Grosio), quasi che, in quest’età, il contrassegno della sua appartenenza al consorzio nobiliare non potesse seguirlo nel momento in cui operava come agente dei comuni, mentre non lo abbandonava la memoria della sua origine locale e pure del suo rango individuale (era detto, infatti, dominus) (ivi, f. 350r., 1492.05.29; ivi, f. 350v.).

Analogamente, nel Consiglio della squadra di Morbegno, collocati alla fine degli elenchi o all’inizio, affiancavano i comuni gli esponenti dei nobili Vicedomini (ASSo, AN, 381, f. 131v., 1496.01.16).

In seguito, con l’erosione dei privilegi politici ed economici della maggiore nobiltà locale, i cancellieri designarono esclusivamente le comunità e i loro procuratori; gli esponenti delle parentele ricordate, allora, solo accettando quest’ultimo ruolo, e parallelamente l’inserimento nella regolare griglia grafica costituita dai comuni rurali, poterono tornare a comparire nell’assemblea. Così, nel 1551, Fernando Beccaria agì per il comune di Sondrio, ad esso collegato, come gli altri consiglieri, da una linea orizzontale continua (SAG, A Sp III 11a III B 1, p. 885, 1551.01.10). Nelle federazioni intermedie si realizzò lo stesso obiettivo: le liste compilate con cura dal notaio Nicola Schenardi nel pieno Cinquecento recavano esclusivamente i nomi dei comuni, a destra, quelli dei loro procuratori, a sinistra (ASSo, AN, 1196, f. 60r., 1539.01.05; ivi, f. 60v.). Pure a questo livello, il ritorno nei consigli dei nobili privilegiati avvenne solo con l’inclusione di questi ultimi entro lo spazio che, nella politica locale e sulla pagina, era ormai strutturato dalle istituzioni comunitarie, come, nella bassa valle, verificò Gian Andrea Vicedomini, agente per Morbegno nel 1554 (ASSo, AN, 843, f. 318v., 1554.12.08).

Le liste, così, ridelineavano pure le forme della rappresentanza e gli ideali della mediazione politica. Le graffe, la disposizione sulla stessa riga del nome del procuratore e del comune, del ceto o della parentela che questi rappresentava, la linea continua o tratteggiata che collegava il nome di una persona con quello di un luogo o di una parentela, la scelta di isolare graficamente le diverse delegazioni nella pagina più o meno elegantemente spaziata enfatizzavano in ogni modo, già dalla fine del Trecento, lo stretto rapporto tra l’individuo attivo sulla scena pubblica e la formazione di base che l’aveva designato. Questi tratti di penna – la traduzione sulla carta della nozione di mediazione politica – intesero dunque riservare a pochissimi individui la facoltà di agire nei consigli federali semplicemente in virtù della propria posizione personale. Tutti gli altri derivavano la propria capacità consultiva e deliberativa dal ruolo di delegati di ceti, parentele e, in modo sempre più esclusivo, comuni e squadre, la cui menzione pare non abbandonare mai, come un’ombra, la designazione dei politici locali (ASSo, AN, 68, f. 242v., 1415.12.21). All’inizio del Cinquecento, poi, gli elenchi interpretarono il mutamento politico: allora, infatti, nella normativa statutaria e nella pratica, le comunità divennero l’unico soggetto locale che, con il loro mandato, poteva conferire ad un individuo il diritto di sedere nel consiglio federale. Pertanto i nomi di singoli nobili che rappresentassero solo se stessi o intervenuti per il proprio consorzio parentale, non trovarono più posto nella griglia di questi documenti, come nello spazio pubblico che essi istituivano; la reputazione personale dovette essere associata – ancora sulla carta come sulla scena politica – ad un’unità istituzionale per aprire ad un aristocratico le porte dei consigli (ASSo, AN, 1196, f. 60r., 1539.01.05; ivi, f. 60v.).


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note

[36] Cfr. ASSo, AN, 7, f. 157r., 1363.12.09 (pieve di Ardenno); 25, f. 328r., 1380.09.29 (squadra di Cosio).