2. La forma della comunità: culture locali nel mutamento

2.2. L’emergere delle singolarità e la divaricazione delle esperienze locali in Valtellina nella prima metà del XV secolo

2.2.2. Classificazioni gerarchiche: gli ordini e il prestigio individuale

Di alcuni comuni demograficamente cospicui, abitati da una popolazione articolata in nobili e vicini, i notai proposero un’immagine gerarchica, fondata al contempo sulla dicotomia dei ceti e sulla precedenza dei titolati, segnalati anche con il ricorso a liste curate e nitide. È il caso, ad esempio, di Traona nel 1422 (ASSo, AN, 76, f. 157r., 1422.01.01), di Ponte, dove l’elenco dei convenuti in assemblea nel 1430 si aprì con i membri della maggiore agnazione locale – i Quadrio – alla testa dei quali erano tre uomini che, soli nella comunità, si fregiavano del grado di ser (ASSo, AN, 131, f. 160r., 1430.02.28), e, si vedrà più nel dettaglio, di Bormio (ASCB, Quaterni consiliorum, 1495.06.16–10.15) (§ 2.5.3). È il caso di Morbegno, che si presta, grazie alla documentazione sopravvissuta, ad essere seguito analiticamente sul lungo periodo.

Morbegno costituiva la realtà di maggiore complessità sociale nella bassa Valtellina. Già all’inizio del Trecento la popolazione era articolata formalmente in tre ordini, quello dei cittadini, dei nobili e dei vicini, i quali attorno alla metà del Trecento addivennero ad una coabitazione all’interno del comune, che tuttavia a lungo non si assestò pacificamente: i nobili e i cittadini si integrarono, venendo a costituire un unico ceto nobiliare, che fino alla metà del Quattrocento si giustappose, e talvolta si contrappose, a quello dei vicini. Intanto Morbegno conobbe un notevole sviluppo commerciale e artigianale, anche grazie al trasferimento di cittadini, commercianti e artigiani qualificati, originari delle terre circostanti, ma anche del Lario, del territorio bergamasco e milanese. Essi, o meglio i più ricchi o i dotati dei saperi più stimati (i notai, i causidici, i medici), si fusero con l’élite locale e scalarono i vertici delle istituzioni locali. L’amalgamarsi precoce degli ordini, il ricambio sociale, il successo di uomini estranei agli antichi gruppi dei nobili e dei cittadini, perché di origine forestiera o di estrazione vicinale, l’ipertrofia del ceto nobiliare continuamente dilatato dall’esigenza di accogliere le nuove famiglie eminenti, logorò entro la metà del Quattrocento l’efficacia delle antiche distinzioni. Nella seconda metà del secolo, dalle ormai scompaginate griglie cetuali, si costituì un embrionale patriziato composito. Tali fenomeni, però, riguardarono soprattutto il capoluogo del comune, la terra di Morbegno propriamente detta, mentre gli abitanti dei villaggi minori situati a più alta quota furono estromessi dalle responsabilità decisionali e dall’appalto dei dazi, i più ricchi tra gli introiti di spettanza collettiva: così, a fronte dell’integrazione al livello del vertice economico e politico, si produsse una nuova linea di segregazione sociale.

Ora, nei documenti della metà del Trecento, le prime testimonianze di azioni politiche comuni dei cittadini, dei nobili e dei vicini di Morbegno, il principio tassonomico fondamentale era offerto dagli ordini: i convenuti erano collocati con precisione entro la compagine di appartenenza, i cui aderenti venivano elencati in sequenze continue. Un’attenzione spiccata per la gerarchia veniva riservata soltanto ai gruppi nel loro complesso, piuttosto che ai singoli individui: Romeriolo Castelli d’Argegno nel 1338 (ASSo, AN, 4, f. 74v., 1338.07.17) elencò prima tutti i nobili, poi tutti i vicini, nel 1343 prima tutti i cittadini, poi tutti i nobili, poi tutti i vicini (ivi, f. 267r., 1343.07.13; ivi, f. 267v.). In entrambe le occasioni, però non ricorse a particolari espedienti grafici: enfatizzavano i confini tra i gruppi le specificazioni omnes cives, omnes nobiles, omnes vicini de Morbegnio, inserite come una pausa nell’elenco, al termine della serie dei nomi degli affiliati ai rispettivi gruppi.

A mano a mano che l’unione tra nobili, cittadini e vicini si stabilizzò, la scansione rigidamente tripartita dei convenuti alle assemblee fu avvertita come problematica e si aprì una lunghissima fase di ricerca degli strumenti per comprendere la nuova unità istituzionale che si voleva costituire e, parallelamente, degli accorgimenti capaci di dare una forma all’elenco degli uomini del comune. Negli stessi anni Bertolino, il fratello di Romeriolo (ASSo, AN, 9, f. 123r., 1343.09.14), e Fancolo Forbecheni fecero a loro volta della divisione nei tre ceti la griglia ordinatrice della società morbegnese, elencando gli uomini in una successione che rispettava rigorosamente le delimitazioni dei cittadini, dei nobili e dei vicini. Eppure, quasi sentendo già come poco convincente quella distinzione, rinunciarono a renderla trasparente: non denominarono i gruppi cui appartenevano i convenuti e dunque non esplicitarono i loro confini, come invece aveva fatto Romeriolo [23]. Di lì a poco anche quella scansione tacita fu abbandonata e iniziò una stagione assai dinamica, in cui tutte le soluzioni adottate di volta in volta furono parziali e restarono, in qualche misura, realizzazioni incompiute degli stessi principi che pure suggerivano, e non furono mai adottate in modo unanime e irreversibile. Solo alla fine del Quattrocento la sperimentazione arrivò a mettere a punto opzioni relativamente stereotipate, anche se mai cristallizzate in un nuovo canone.

Nel 1377 Giovannolo Castelli d’Argegno, fratello di Romeriolo e Bertolino, fece l’ultimo tentativo per esplicitare la distinzione fra le tre componenti del comune. Egli, redigendo le sequenze dei presenti alle assemblee, non era solito tenere separati i nomi a seconda dell’appartenenza, come facevano i suoi consanguinei e colleghi nei decenni precedenti, e invece, nel 1377 come già nel 1376, li elencò alla rinfusa. Il documento del 1376 condivide la propria organizzazione con quella di analoghi atti notarili della seconda metà del XIV secolo, opera dei contemporanei di Giovannolo, che rappresentavano l’integrazione sociale che si stava verificando a Morbegno mischiando fra loro i nomi degli appartenenti ai tre ceti e sopprimendo ogni indicatore, grafico o testuale, del loro status (ASSo, AN, 25, f. 238r., 1376.05.11). Nel 1377 il notaio ebbe però un ripensamento e, per segnalare comunque la condizione degli intervenuti, nell’elenco, fece precedere i nomi dalle lettere «c» per qualificare il cittadino ed «n» per il nobile, poste in apice con un più minuto corpo della scrittura; con l’assenza di indicatori connotò invece i vicini.

In termini generali, troverei riduttiva una definizione storiografica esclusivamente in negativo di quanti le fonti identificano come «homines», «rustici» o «vicini», come tutti coloro che non appartenevano agli ordini privilegiati dei nobili e dei cittadini, questi ultimi, invece, qualificati in «positivo» da prerogative specifiche: anche i vicini, infatti, si vedono riconosciuto uno status non solo in virtù di un’esclusione, ma di un’inclusione, come coloro che derivavano i propri attributi sociali – privilegi e oneri – dall’appartenenza a una comunità rurale (invece che dalla cittadinanza o dal rango aristocratico). È evidente, però, che nella circostanza Giovannolo ricorse proprio a una definizione per negazione: cittadini e nobili erano infatti gli abitanti classificati come tali, mentre i vicini erano pensati soltanto come i non nobili e i non cittadini, coloro al cui nome non si aggiungeva alcuna qualifica.

L’espediente molto originale pensato da Giovannolo, che resta un unicum nella documentazione da me esaminata, sembra scaturire dal difficile incontro tra vecchie e nuove esigenze di classificazione sociale, in bilico tra l’aspirazione ancora forte a distinguere per affiliazioni cetuali e la cautela a sezionare rigorosamente la comunità nei suoi ordini interni. Gli status dei nobili, cittadini e vicini, quali erano rigidamente contornati nei documenti di trent’anni prima, probabilmente sembravano offrire un criterio troppo semplice o troppo poco significativo per raggruppare gli uomini e dettare la sequenza dei loro nomi. Il notaio non intese percorrere nemmeno la possibilità di una disposizione gerarchica per titoli di prestigio riconosciuti agli individui, dando la precedenza a coloro, fra i presenti, che insigniva dei titoli di dominus e ser. Fece invece dell’ordine di appartenenza un attributo del soggetto, che, senza isolarne il nome entro segmenti omogenei per ascrizione cetuale, lo accompagnava, segnalandone singolarmente il rango, fra gli altri membri di una comunità della quale l’elenco – che pare una sequenza del tutto casuale – enfatizzava soprattutto l’unità (ivi, f. 267r., 1377.07.05; cfr. ivi, particolare).

Nel Quattrocento una vera rivoluzione grafica, che contribuì a rendere più articolata e flessibile l’immagine documentaria delle comunità, fu rappresentata dall’introduzione della lista (§ 3.2.1, § 3.2.2). A Morbegno essa sostenne i tentativi più vari: conferire la massima enfasi all’unità del comune, al di là e, vedremo, persino in polemica con la sua concezione gerarchica; mantenere la visibilità degli ordini; manifestare una graduatoria del prestigio individuale sganciata dall’inclusione in questo o quel ceto. Tali opzioni, per di più, non si collocarono in una direzione a senso unico.

L’anziano Baldassarre Mandelli, ad esempio, conservò il rilievo della distinzione tra nobili e vicini ed anzi, nel 1427, ne fornì una delle rappresentazioni più rigide. In occasione della vicinanza che definì la partecipazione del primo e del secondo ordine agli stessi oneri e prerogative, stilò un elenco dei convenuti su due pagine, in tre colonne. Non introdusse nel testo nessuna esplicita precisazione di carattere cetuale, ma la ripartizione dei nomi separò nettamente la compagine dei nobili, cui fu riservata la precedenza, e quella dei vicini. L’uso dello spazio grafico parrebbe infatti del tutto irrazionale: la prima facciata resta quasi tutta bianca, occupata dalla data cronica, dalle formule d’apertura dell’istrumento e da appena 17 nomi disposti su una sola colonna, mentre la maggior parte delle designazioni si addensa nelle due colonne della seconda. Con questo accorgimento, però, egli rese immediate e trasparenti, mentre il testo le taceva prudentemente, le distinzioni tra i due gruppi, elencando i nobili sul recto della carta, i vicini sul suo verso. Come ulteriore elemento gerarchizzante, la cura grafica del notaio non restava invariata nel corso dell’elenco, era invece maggiore nella colonna che ospitava i nomi dei nobili, cui ha lavorato con una grafia posata e un’essenziale ornamento delle iniziali, e nella prima colonna che menzionava i vicini, diveniva invece minima nell’ultima, che compilò con più affrettati tratti di penna (ASSo, AN, 76, f. 348r., 1427.01.26; ivi, f. 348v.).

I colleghi del Mandelli, tuttavia, si orientarono prevalentemente in un senso diverso: di norma, soprattutto nei primi decenni del secolo, mischiarono tra loro i ceti (anche se spesso tendevano a raggruppare i nomi dei nobili nella prima parte dell’enumerazione, quelli dei vicini nella seconda) e le parentele, e non ordinarono le sequenze per titoli di dignità, che dispensavano peraltro con molta parsimonia.

In genere, però, si venne via via preferendo al disordine degli elenchi o all’ordine dettato dalla separazione per gruppi sociali, una disposizione suggerita dalla gerarchia del prestigio individuale e scandita dai titoli di dignità. Questi ultimi offrivano un criterio classificante riconosciuto già nei documenti del primo Trecento, subordinato però a quello della segregazione gerarchica dei ceti, l’indicatore allora prioritario usato per la determinazione delle precedenze. Nell’elenco, già esaminato, stilato da Romeriolo Castelli d’Argegno nel 1343, la sequenza era aperta dai cittadini e, fra loro, dal dominus Nicola Castelli, seguito dagli altri membri dello stesso ordine, pure non titolati. Soltanto esaurita la loro serie e iniziata la successione dei nobili, il notaio menzionò, primo fra questi ultimi, ser Giobbe Gaifassi, che dunque precedeva tutti i membri del suo stesso gruppo, ma era a sua volta preceduto dalla menzione di uomini di reputazione individuale minore, appartenenti però a un ceto nel suo complesso dotato di maggiore spicco (ASSo, AN, 4, f. 267v., 1343.07.13 – particolare). Inoltre il criterio dei titoli di dignità nel Trecento e nel primo Quattrocento, era pleonastico rispetto alle distinzioni tra gli ordini e probabilmente anche per questo non fu valorizzato. Nel documento appena esaminato, in quello steso da Giovannolo Castelli d’Argegno (ASSo, AN, 25, f. 267r., 1377.07.05) e in altri analoghi, solo i nobili e i cittadini, anche se non tutti fra loro, si fregiavano del grado di dominus e, più spesso, di quello di ser: tali titoli quindi, riferiti ai convenuti o ai loro padri già defunti, valevano ad enucleare entro i ceti privilegiati una cerchia ancora più prestigiosa. Sicché, nei pochi casi in cui, nell’elenco dei capifamiglia o degli eletti nel Consiglio, i notai assegnarono la precedenza ai ser, non fecero altro che evidenziare l’eminenza di quella cerchia. Invece, rispetto alla separazione tra nobili e vicini, i titoli non avevano altro ruolo, se non quello di ribadirla.

Nel corso del Quattrocento, però, la corrispondenza tra delimitazioni di ceto e titoli di dignità si spezzò, e i secondi si prestarono dunque a offrire una misura del prestigio sganciata da criteri ascrittivi rigidi: vicini e immigrati che non avevano trovato immediatamente posto nell’uno o nell’altro ceto cominciarono allora a fregiarsi del distintivo di ser. Ora, proprio questa funzione assunta dalla titolazione – suggerire una forma per la società locale che fosse sì gerarchica, ma più flessibile rispetto all’ordine dei ceti – spiega e rende molto significativo il successo, pure lento e non lineare, di tale criterio di classificazione. È emblematica, in questo senso, pure l’indifferenza per il nuovo principio ordinativo manifestata da chi compì gli ultimi tentativi per proporre una distinzione forte tra i ceti: ad esempio Baldassarre Mandelli nel 1431 divise i gruppi sociali, pur senza nominarli, anteponendo la menzione di tutti i nobili ai vicini; per contro non raccolse i titolati, sebbene questi ultimi fossero tutti nobili, cosa che gli avrebbe consentito di valorizzare i gradi individuali di dignità senza rinunciare alla prioritaria divisione dei convenuti per ceto di appartenenza (ASSo, AN, 77, f. 99v., 1431.01.01; ivi, f. 100r.). Pure i notevoli scarti nelle sequenze nominali approntate dallo stesso notaio nel 1427 (ASSo, AN, 76, f. 348r., 1427.01.26; ivi, f. 348v.) e nel 1431 confermano che il Mandelli non immaginava la comunità come una scala di reputazioni individuali da tradurre nella logica della lista graduata gerarchicamente, ma come la giustapposizione di due ordini, all’interno dei quali non era poi necessario specificare il posto di ciascuno.

Nel 1456 Guidosio Castelli d’Argegno, per la prima volta in modo così rigoroso, impresse su un suo documento la matrice della gerarchia individuale. Stilò un elenco aperto dallo spectabilis miles dominus Giovanni Castelli di San Nazaro, cui seguivano dominus magister Antonio de Gabelleriis, medico, e quindi 17 uomini che si fregiano del titolo di ser. Il rigore di questa concentrazione dei titolati al vertice della comunità fu infranto solo in due casi, quando altri ser furono collocati al 31° e 32° posto, se non altro visibili perché posti a capo della seconda colonna; la qualifica di magister venne invece ignorata, con l’unica eccezione di Antonio de Gabelleriis, che però era anche dominus, al fine di determinare il posto dell’individuo nella sequenza. Grazie all’impiego della lista, al posto della scrittura continua dei nomi sulla riga, l’immagine piramidale della società morbegnese acquisì particolare nitidezza. A questo criterio il notaio sacrificò ogni alternativa possibile, ad esempio quella dell’accorpamento delle parentele, soprattutto se i loro esponenti, accomunati dal cognome, erano separati dal differente titolo che portavano e per questo allontanati nell’ordine di dignità che il documento proponeva. Gli spazi della scrittura esaltavano inoltre il principio organizzatore scelto: solo il nome che apre l’elenco occupa una riga in tutta la sua estensione orizzontale, quelli degli altri convenuti hanno a disposizione solo una delle due colonne in cui la carta è partita; per questo motivo il cognome del primo poté essere specificato nella sua interezza («de Castello Sancti Nazarii»), già quello del quarto dovette essere abbreviato («de Castello» invece che «de Castello Arzegnii») Inoltre nella prima facciata le due colonne non dividono la pagina in modo equilibrato: lo spazio occupato da quella che designa gli uomini di maggiore prestigio è sensibilmente più dilatato, conferendo ai loro nomi una più chiara leggibilità e dunque un’accresciuta visibilità. L’accorgimento risalta in modo ancora più vistoso se si considera che nella facciata successiva le due colonne, che designano uomini di pari dignità (nessuno porta titoli di prestigio), ripartiscono la pagina senza più quella netta asimmetria (ASSo, AN, 171, f. 41r., 1456.02.29; ivi, f. 41v. ).


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note

[23] Cfr. ASSo, AN, 12, ff. 10v.–11r., 1350.02.07