3. Sulle tracce di una cultura locale della convivenza in comunità

3.3. Mutamento, dissenso, comunicazione

3.3.6. La mobilità dei notai, la circolazione dei modelli, la rappresentazione delle particolarità locali

Gli ideali della convivenza non sono apparsi i prodotti di isole culturali non comunicanti tra loro. Il rilievo dei fenomeni di circolazione dei modelli è evidente: abbiamo considerato l’introduzione della lista; il passaggio dagli elenchi uniformi trecenteschi a quelli articolati (pure secondo diversi principi) del primo Quattrocento; la convergenza da esperienze distanti verso un più uniforme linguaggio della gerarchia sociale tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. Specialmente in quest’ultima fase, la precedenza e l’enfasi conferita all’intervento dei domini o dei ser delineano un orizzonte culturale sovra–comunitario largamente condiviso, laddove in precedenza si erano invece sperimentati i più vari criteri d’ordine (o di disordine).

Inoltre, le immagini su cui mi sono soffermato furono spesso elaborate non da notai che la loro stessa esperienza accrediterebbe come i più fedeli interpreti di una opinione locale attinta dall’interno della comunità (professionisti residenti nel suo territorio, regolarmente al servizio delle sue istituzioni e via dicendo), bensì da figure che, nelle rispettive parabole esistenziali, incarnano un ventaglio molto ampio di posizioni eccentriche rispetto alla realtà rappresentata nei loro documenti: dalla mobilità professionale a corto raggio al soggiorno temporaneo in una località con un incarico professionale, fino al trasferimento definitivo in una piazza diversa dal villaggio d’origine.

L’uso delle comunità di rivolgersi a notai non residenti fu senz’altro una via per la circolazione dei modelli grafici e dei criteri classificanti. Ad esempio Giacomo Brocchi, che ripensò il comune di Rasura secondo la graduatoria del prestigio, era originario di quella località, ma viveva a Morbegno. Vi fu accolto come vicino nel 1491 e avrà anche una fugace esperienza al governo del comune [102]. Quando tornò a considerare la realtà di Rasura, lo fece rivedendola alla luce dei valori che gli erano divenuti familiari nella località di approdo, piuttosto che entro il tradizionale prisma della parentela su cui Beltramo Guarinoni aveva a lungo insisto (ASSo, AN, 487, f. 1r., 1508.12.31; ivi, f. 1v.). Lo stesso Guarinoni, nel momento in cui provò a scompaginare l’ordine agnatizio per introdurne uno gerarchico (ASSo, AN, 346, f. 173v., 1481.09.21), era già da alcuni anni venuto organicamente in contatto con la realtà di Morbegno, dove dimorò sempre più a lungo e alla fine si trasferì, lasciando Rasura, per essere a sua volta accolto fra i vicini nel 1491. Ancora, fu Artuichino Castelli di San Nazaro, notaio di Morbegno, già abituato a scandire per distintivo di dignità i nomi dei convenuti del Consiglio maggiore di quel comune (§ 3.2.7), a graduare gerarchicamente i vicini di Sacco nel 1523 (ASSo, AN, 669, f. 198r., 1523.04.07; ivi, ff. 198v.–199r.) e di Albaredo nel 1524 (ASSo, AN, 670, f. 17r., 1524.01.17).

Tali casi mostrano come il frequente ricorso di particolari e istituzioni dei centri minori ai più prestigiosi notai residenti nelle terre principali della Valtellina sia stato pure uno degli strumenti con cui nel basso medioevo le comunità più ricche e popolose irretirono quelle circostanti in una maglia di rapporti di dipendenza. Alcuni aspetti del fenomeno possono essere più evidenti: il controllo delle funzioni di rappresentanza in giudizio, mediazione politica e scrittoria da parte delle terre maggiori e del loro personale politico, nei cui ranghi erano numerosi i notai; ulteriori risvolti significativi, emersi con questa analisi, furono l’esportazione di modelli sociali dalle località in cui si concentravano le scuole e le botteghe notarili (come appunto Morbegno), la conseguente riduzione alla subalternità e al conformismo culturali dei comuni le cui élites erano meno competitive sul piano intellettuale.

Questo condizionamento, però, è solo un versante della comunicazione sovra–comunale di cui gli atti notarili si fecero veicolo. A volte, infatti, proprio i documenti che più accentuavano il nucleo identificante di un’esperienza locale, gli stessi sui cui tratti di peculiarità mi sono più a lungo soffermato, furono stesi da notai estranei o discosti rispetto alla comunità che descrivevano. Alcuni risiedevano in un centro vicino: Baldassarre Mandelli, che nel 1431 ritrasse il comune di Cosio, era di Morbegno (ASSo, AN, 77, f. 111r., 1431.05.21; ivi, ff. 111v.–112r.); Donato Ruffoni, che viveva a Morbegno, fu chiamato a Bema nel 1428 (ASSo, AN, 127, f. 275v., 1428.12.02; ivi, f. 276r.). Antonio Fontana, che introdusse nel verbale del Consiglio di Valchiavenna una gerarchia delle località che vi avevano voce (ASSo, AN, 108, f. 99r., 1424.06.15), era di una famiglia originaria di Bema, lavorò a Morbegno e fu solo temporaneamente a Chiavenna come cancelliere per le cause civili. Furono inoltre i notai cittadini ad elaborare nel suo complesso la rappresentazione del disarticolato comune rurale della pianura comasca (§ 2.6.4, § 2.6.5).

Altro caso, poi, era quello di notai che contemplavano il paesaggio sociale delle loro origini, ma da cui poi si erano distaccati: in questo modo si poneva ad esempio Pietro Foppa, che viveva a Morbegno, di fronte a Bema, dove era nato (ASSo, AN, 208, f. 89r., 1460.01.31; ivi, f. 89v.).

Situazione ancora diversa era quella dei residenti però di origine forestiera e non ancora usciti da una condizione di semi–marginalità, come Beltramo Guarinoni. Quest’ultimo, finché abitò a Rasura, maturò un’esperienza molto personale del sistema delle parentele, che andava oltre la capacità di osservarne il ruolo nelle istituzioni. Antonio Guarinoni, infatti, si era trasferito a Rasura da Averara, nella montagna bergamasca, all’inizio del Quattrocento, ma era rimasto estraneo alla vita pubblica, come il figlio Tedoldo. Per Beltramo, figlio di Tedoldo, si aprì qualche spiraglio, ma egli poté intraprendere una vera e propria carriera politica solo quando lasciò Rasura e si trasferì a Morbegno. Dunque il notaio, estraneo alle cinque agnazioni che controllavano le cariche di Rasura, per questo poco coinvolto nella politica locale, quando tracciava sulla carta le linee che inscrivevano i nomi dei vicini entro blocchi consanguinei, rappresentava anche i confini interni al comune che avevano sancito la posizione di svantaggio sua e di ben tre generazioni della sua famiglia (ASSo, AN, 344, f. 48r., 1466.04.08).

La diversità poteva essere avvertita e rispettata anche all’interno del medesimo comune. Artuichino Castelli di San Nazaro, che risiedeva nella terra maggiore del comune di Morbegno, può forse aver sottoposto l’esperienza sociale di Albaredo e Sacco al filtro della sua cultura gerarchica; non sovrappose però alla realtà del Monte di Morbegno i valori che condivideva con i principali del capoluogo, e, come ho detto, non antepose la segnalazione dei graduati alla ripartizione dei convenuti per villaggio di residenza, che adottò come criterio d’ordine prioritario quando elencò gli abitanti di quella contrada (ASSo, AN, 670, f. 416r., 1527.01.01; ivi, ff. 416v.– 417r.).

Da tutto ciò mi pare che emerga di nuovo tutta la ricchezza del dialogo tra il notaio e la comunità che gli commetteva il documento: si dava il caso, come a Morbegno, di notai residenti e integrati socialmente che cercavano di cogliere i connotati distintivi della realtà in cui vivevano o, più attivamente, ne ponevano in discussione o ne affermavano la validità. Si è considerata la possibilità che il notaio portasse con sé i propri valori e le proprie precomprensioni, e le imprimesse sull’immagine delle collettività di cui documentava l’azione, presumibilmente condizionandone i vicini. Ciò non esclude che le comunità che si rivolgevano a professionisti non locali conservassero una forte capacità di trasmettere la singolarità della propria vita pubblica oltre l’ambito ristretto degli appartenenti.

Infine, i contatti tra la popolazione locale e uno sguardo esterno hanno diverse implicazioni di carattere più generale. Mostrano, infatti, che l’identificazione è un processo originariamente comunicativo, se la più accentuata enfasi sulla specificità delle forme di convivenza nacque tanto spesso al di fuori di una riflessione locale auto–centrata. D’altro canto evidenziano come la mobilità residenziale, l’esperienza di differenti linguaggi dell’appartenenza che le persone normalmente fanno, la circolazione di modelli ideali non abbiano necessariamente l’effetto di alleggerire e ibridare le identità sociali e politiche, se proprio i notai che si muovevano fra più località per lavoro o lasciavano il villaggio d’origine attratti dalle opportunità di carriera offerte da un centro maggiore, corroboravano poi rappresentazioni in cui erano così accentuati i caratteri idiomatici di ciascuna situazione.


precedente precedente | torna sutorna su | successivo successivo

note

[102] ASSo, AN, 380, ff. 250r.–251v., 1491.03.31; 667, ff. 164v.–166r., 1514.01.20.