2. La forma della comunità: culture locali nel mutamento

2.6. Un’alternativa sempre percorribile: parità e indistinzione

2.6.4. La pianura comasca e il Sottoceneri: le sbiadite articolazioni interne alle comunità e l’uniformità delle esperienze di convivenza

Le comunità della pianura e delle colline comasche, nonché del lembo meridionale del Sottoceneri (la regione ticinese più prossima alla città), percorsero nel tardo medioevo una parabola molto diversa da quella delle omologhe istituzioni alpine. In particolare la massiccia mobilità della popolazione, la frammentazione insediativa, l’assenza di centri demici cospicui, la limitata superficie dei territori comunali non calarono le locali esperienze di convivenza nel calco di organizzazioni formalizzate altrettanto solide. Innanzitutto il comune rurale era qui un’istituzione più fragile, ma pure i gruppi corporati che lo articolavano o avrebbero potuto articolarlo dall’interno erano meno robusti, se non inconsistenti. Le contrade non si era affermate come in Valtellina o in Ossola Superiore, perché si trattava di comuni più piccoli e costituiti da un solo insediamento o la cui dispersione abitativa aveva una fisionomia pulviscolare, oppure perché i loci di rango minore non avevano saputo acquisire un’identica corposità istituzionale. Non vi erano aggregazioni parentali vaste come quelle della Valle del Bitto, a causa della grande frammentazione dei nuclei familiari, collegata anche agli alti tassi di immigrazione ed emigrazione. Poco marcate erano infine le distinzioni di status e reputazione tra gli abitanti, poiché i nobili e coloro che avevano percorso le più significative traiettorie di ascesa sociale avevano optato perlopiù per la residenza in città, lasciando nelle campagne circostanti una società relativamente appiattita di contadini dipendenti, fra i quali nessuno riusciva a farsi riconoscere titoli di dignità. D’altro canto, le smagliature del comune rurale produssero esiti singolari, come l’apertura di possibilità d’intervento, talvolta pure in forme coordinate, per soggetti di norma esclusi dalle istituzioni locali, come le donne e i giovani, o ai più influenti proprietari residenti altrove, come i cittadini comaschi che a volte diedero vita a «consorzi» in grado di affiancare i vicini.

I verbali delle assemblee dei capifamiglia di questi stessi comuni si presentano immediatamente alla vista come meno elaborati di quelli stilati in Valtellina. C’è da chiedersi, del resto, in questi piccoli centri le cui assemblee potevano raccogliere pochissimi intervenuti, addirittura quattro a Fino nel 1429, quale possibilità concreta vi fosse di organizzare i nomi in sequenze significative (ASCo, AN, 9, fasc. 2, p. 59, 1429.08.29). In ogni caso, per i motivi che si sono detti, non si sviluppò l’esigenza di leggere in filigrana le affiliazioni di parentela, né le appartenenze di vicinato. Pertanto la lista, lo strumento più flessibile nelle mani dei notai valtellinesi per riprodurre sulla carta il variegato e mobile incontro delle identità sociali, fu avvertita come uno strumento meno pertinente e conobbe un’introduzione più tarda nella regione. Anche nel pieno Cinquecento, in ogni caso, il suo uso restò intermittente – a fronte del favore che continuò a incontrare la sequenze continua di nomi lungo la riga – e non contribuì ad innovare la rappresentazione della comunità, spostando l’enfasi dall’omogeneità all’articolazione (ASCo, AN, 214, f. 138r., 1517.12.18).

Senza un’originale ricerca grafica alle spalle, le rappresentazioni documentarie della comunità restano più stereotipate: quelle del singolo comune variano impercettibilmente nel breve come nel lungo periodo. La sensibile mutabilità nel breve periodo in Valtellina era determinata dall’aperto disaccordo tra diversi notai, o tra differenti segmenti della società locale, circa l’immagine ideale della comunità, oppure dalla compresenza, anche agli occhi di un medesimo professionista, di più soluzioni plausibili per rappresentare la stessa esperienza di convivenza. Per converso, allora, l’invariabilità sul breve periodo degli schemi proposti dai notai per la comunità – è il caso di Civello, per cui Giovanni Giovio ripropose le stesse soluzioni nel 1444 (ASCo, AN, 10, fasc. 8, f. 60r., 1444.12.07), nel 1447 (ivi, fasc. 9, p. 137, 1447.10.12) e nel 1454 (ivi, fasc. 12, p. 127, 1454.02.20) – sembrerebbe una spia del carattere asfittico del dibattito locale attorno ai possibili modi di organizzare la convivenza. Evidente è anche la stabilità sul lungo periodo, che attraversa il lavoro di più notai: per fare qualche esempio tra i molti possibili, niente distingue la disposizione dei nomi dei convenuti a Capolago nel 1476, nel 1478 e nel 1528, nei documenti di Gian Luigi Riva (ASCo, AN, 106, f. 870r., 1478.04.26) e del figlio Gasparino (ivi, f. 851r., 1528.11.30), o a Ponzate, nel 1443 e nel 1507, nelle imbreviature di Giovanni Giovio (ASCo, AN, 9, fasc. 7, p. 165, 1443.12.15) e Paolo Orchi (ASCo, AN, 131, f. 588r., 1507.04.25) [50].

Il limitatissimo ventaglio di soluzioni alternative rende sostanzialmente identici fra loro anche gli schemi impiegati per i diversi comuni. Proprio negli anni segnati in Valtellina della massima divaricazione delle esperienze locali e delle loro rappresentazioni, attorno alla metà del Quattrocento, i ritratti notarili di più comuni di pianura non sono singolarmente identificabili e distinguibili fra loro: è il caso, ad esempio, di Fino (ASCo, AN, 9, fasc. 2, p. 59, 1429.08.29), Ponzate (ivi, fasc. 7, p. 165, 1443.12.15), Maccio (ASCo, AN, 10, fasc. 9, p. 134, 1447.10.11), Civello (ivi, p. 137, 1447.10.12), Casnate (ivi, fasc. 11, p. 229, 1453.03.11), Tavernerio e Solzago (ivi, fasc. 14, p. 50, 1457.02.19).


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note

[50] V. anche ASCo, AN, 106, f. 866r., 1476.09.13 (Capolago). Per le analogie con le rappresentazioni documentarie delle comunità della bassa pianura milanese, v. DEL TREDICI, Loci, comuni, homines, pp. 275–278.