3. Sulle tracce di una cultura locale della convivenza in comunità

3.1. L’interprete: il notaio di fronte alle comunità rurali

3.1.4. La negoziazione dei modelli documentari

Il documento già citato di Baldassarre Mandelli, relativo a Morbegno, conforta l’ipotesi che avanzo circa la negoziazione dei modelli documentari da un ulteriore punto di vista. Il notaio non era nobile; discendente da un immigrato che a Morbegno si era trasferito nel XIV secolo, era affiliato al gruppo dei vicini, ne aveva assunto la rappresentanza in una fase di tensione con la controparte aristocratica ed era amico e collega di altre guide prestigiose e combattive del ceto cui apparteneva. I suoi tentativi di rappresentare la società morbegnese nella rigida segregazione dei due ordini (ASSo, AN, 76, f. 348r., 1427.01.26; ivi, f. 348v.), dunque, non erano certo il frutto di una solitaria elaborazione di valori, bensì del dialogo con un più ampio contesto sociale entro il quale doveva negoziare i modelli politici con cui intendere i rapporti fra gli uomini nel luogo in cui abitava.

Gli esempi proposti in questo paragrafo e nei due precedenti, quindi, invitano tutti a scartare le due ipotesi semplici cui già accennavo (§ 3.1.2, § 3.1.3): quella di una dettatura degli schemi ai notai da parte degli ufficiali del singolo comune e quella di modelli da intendersi come soluzioni personali del notaio, quasi fossero marche del suo modo di lavorare, applicabili poi ad ogni situazione.

Non si trattava nemmeno di una «visione professionale» un’attitudine a rinvenire rilevanze e significati e a esprimerli secondo codici condivisi esclusivamente all’interno della categoria d’appartenenza. I notai, infatti, comunicavano senz’altro fra loro, fin dalla formazione, che avveniva presso un collega più anziano. La documentazione superstite testimonia indirettamente la trasmissione dei saperi, ma anche forme di interazione più aperta fra le diverse generazioni. Il giovane, infatti, spesso presente nella bottega del maestro, lo osservava al lavoro e ne applicava le indicazioni; al contempo, anche i primi prodotti grafici di colui che stava compiendo il proprio percorso formativo erano costantemente sotto gli occhi del collega più maturo, che ne valutava l’operato e a volte gli cedeva la penna, come mostrano le carte evidentemente di mano del primo che si rinvengono oggi inframmezzate alle imbreviature conservatesi del secondo. I cartulari dei professionisti defunti erano poi ereditati e custoditi da altri notai. Inoltre, sebbene le imbreviature fossero pertinenti al notaio rogatario, gli uffici delle cancellerie comunitarie potevano essere luoghi di conservazione promiscua delle carte; a maggior ragione, una cancelleria come quella della Valcamonica, dove i registri erano effettivamente accentrati a scopo di conservazione, si poneva come un deposito stratificato di informazioni, ma anche di tecniche di lavoro. Inoltre i notai quotidianamente leggevano e citavano – e dunque guardavano – atti stesi da colleghi [55]. Tuttavia quella dei notai non era una «comunità di pratica» che potesse esaurire al proprio interno la discussione circa la costruzione e la messa a fuoco degli oggetti del proprio lavoro, delle loro modalità di rappresentazione e delle griglie di rilevanza ad essi applicate; doveva infatti confrontarsi con clienti esigenti, con i quali, peraltro, dialogava grazie ad una cultura iconografica come vedremo più ampiamente condivisa (§ 3.2.2) [56].

I documenti qui esaminati sembrano dunque il punto d’incontro tra lo sguardo che un professionista gettava sulla comunità di cui certificava l’azione e la rappresentazione che la stessa comunità doveva avanzare; sono quindi i suoi tentativi, talvolta contraddittori o sofferti, di comprendere i modi specifici della vita associata e magari già l’opinione di sé che la collettività o la sua parte in quella fase più influente, o più vicina politicamente allo scrittore, aveva elaborato e gli proponeva [57].


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note

[55] DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità, pp. 322, 692–694; ID., Mappe di carte, par. 3.3; MANGINI, «Membra disiecta»; EAD., Il notariato a Como, pp. 46–56, 109–115, e relativa bibliografia.

[56] Per le nozioni di «visione professionale» e «comunità di pratica», in riferimento alle rappresentazioni grafiche e diagrammatiche elaborate da categorie di specialisti, cfr. Ch. GOODWIN, Professional Vision, «American Anthropologist», 96 (1993), pp. 606–633; C. GRASSENI, Lo sguardo della mano. Pratiche della località e antropologia della visione in una comunità montana lombarda, Bergamo 2003, pp. 191–194, 220.

[57] Risulta così confermata, per un periodo successivo, la prospettiva di FISSORE, Autonomia notarile; ID., La diplomatica del documento comunale. Cfr. il classico P. TORELLI, Studi e ricerche di diplomatica comunale, Roma 19802, nonché A. BARTOLI LANGELI, Codice diplomatico del comune di Perugia. Periodo consolare e podestarile (1139–1254), I, 1139–1237, Perugia 1983, pp. XXI–XXIV; ID., Notai. Scrivere documenti nell’Italia comunale, Roma 2006; D. PUNCUH, All’ombra della Lanterna. Cinquant’anni tra archivi e biblioteche: 1956–2006, a cura di A. ROVERE, M. CALLERI, S. MACCHIAVELLO, Genova 2006, pp. 727–753.