2. La forma della comunità: culture locali nel mutamento

2.6. Un’alternativa sempre percorribile: parità e indistinzione

2.6.2. La retorica dell’unità a Grosio

Grosio era un comune molto coeso, da un punto di vista sociale e istituzionale: la distribuzione della ricchezza tra i fuochi era meno sperequata che in altri centri della valle; i ceti dei nobili e dei vicini si compenetrarono precocemente, almeno dall’inizio del XIV secolo; le parentele non costruirono isole di autonomia residenziale, patrimoniale e politica; le contrade minori non animarono esperienze associative appartate o separatistiche rispetto all’unità comunale. La devozione, le pratiche della carità e di sfruttamento delle risorse del territorio contribuirono tutte a rendere più solida l’integrazione comunale, affermandola sul piano pratico e cerimoniale, piuttosto che a rafforzare l’identità dei singoli villaggi.

Le scelte dei notai ribadirono e manifestarono le peculiarità di questa configurazione. Nei loro documenti non graduarono i convenuti per titoli di dignità: a lungo, nel XIV secolo, nessuno di tali distintivi fregiava i vicini designati in assemblea e in seguito, anche quando, dispensati sempre con molta parsimonia, essi cominciarono ad accompagnarne i nomi, non furono mai usati per conferire un ordine gerarchico alle liste dei convenuti. A Grosio non si mancava certamente di riconoscere uno speciale rilievo a determinate persone, come dimostrano quattro verbali stilati nel corso di dodici anni (1415–1427), che presentano analoghe precedenze nell’elenco nominativo. Ma è un omaggio che prescinde da definizioni rigide del prestigio, come quelle marcate dagli attributi di dominus e ser, e sembra rilevare e premiare, piuttosto, l’impegno nelle istituzioni comunitarie. Alternativa possibile all’appartenenza cetuale o alla graduatoria delle reputazioni, l’appartenenza di contrada era valorizzata, come si è visto, negli statuti (§ 2.4.2), ma non destinata a riemergere in tutte le occasioni della vita pubblica. Nei verbali delle vicinanze, infatti, i notai non enfatizzarono con gli spazi lasciati bianchi sulla carta, le linee o le graffe la comune residenza dei designati, né del resto la loro consanguineità. La scelta per l’immagine indistinta della comunità fu accentuata dalla prolungata resistenza dei notai locali ad impiegare la lista, nella seconda metà del Quattrocento (ASSo, AN, 416, ff. 66v.–67r., 1476.05.29) e ancora nei primi decenni del Cinquecento, quando si trattava ormai di una preferenza singolare (ASSo, AN, 777, f. 180r., 1535.04.18).

L’opzione di fondo si rivela ancora più insistita quando, nei verbali del 1532 e del 1536, Pietro Pini ricorse alla lista, lo strumento che abbiamo visto altrove impiegato in modo assai flessibile per comunicare le appartenenze cetuali, parentali, residenziali, ma che nella penna del notaio grosino restò inespressivo sotto tutti questi profili. Erano gli anni in cui la comunità si contrapponeva al consorzio signorile locale (costituito dalle parentele dei Venosta e dei Quadrio), che rivendicava i propri privilegi e la propria separatezza dai vicini. Una delle dispute con il ramo dei Venosta con cui la comunità intratteneva il rapporto più tormentato, si riaccese proprio alla fine dell’aprile nel 1532, pochi giorni dopo la stesura del primo istrumento [47]. Inoltre, in quella stessa circostanza si dispose del patrimonio immobiliare collettivo, nell’altra assemblea si elesse il rettore della parrocchia; si trattava dunque di intervenire in merito a due dei fulcri della coesione sociale di Grosio. Ora, gli uomini cui erano conferiti titoli di dignità non furono menzionati all’inizio delle liste: il Pini nel 1532 fu indifferente alla presenza di domini presbyteri, disperdendo i loro nomi nell’elenco insieme agli altri vicini, contrariamente all’uso, in vigore a Morbegno (ASSo, AN, 497, f. 482v., 1507.01.03) e altrove, di riservare loro i primi posti, nel 1536, anche a quella dei domini membri delle parentele Quadrio e Venosta. Inoltre nessuna suddivisione delle colonne (nessun tratto di penna, nessuna riga bianca), interrompeva l’enumerazione, si direbbe intenzionalmente monotona, di coloro che si voleva fossero in primo luogo membri di una coesa comunità di pari. La massima visibilità individuale, all’apertura degli elenchi, fu accordata ai consiglieri: era il segno che a Grosio, in analogia con quanto avveniva all’inizio del secolo precedente e al contrario di quanto abbiamo registrato a Morbegno (§ 2.3.1), non era tanto un attributo della persona o della parentela, ma la carica ricoperta, a fondare il riconoscimento di una precedenza e inoltre che, a differenza che in molti centri della bassa Valtellina, erano i rapporti istituzionali, piuttosto che i legami di consanguineità e di vicinato, che si volevano porre al centro della convivenza in comunità (ASSo, AN, 776, f. 260r., 1532.04.25; ivi, ff. 260v.–261r.; ivi, ff. 261v.–262r.; ASSo, AN, 777, f. 341r., 1536.05.07).

Un altro elenco, steso dallo stesso notaio ancora nel 1535 sembrerebbe contemplare qualche interesse per modelli alternativi. In tale documento, fatta salva la solita precedenza del decano e dei consiglieri del comune, l’apertura è riservata alla menzione degli esponenti del consorzio signorile, cui dunque il Pini riconobbe, compattamente, la precedenza rispetto ai vicini. Inoltre il notaio dispose la sequenza dei membri delle parentele dei Quadrio e dei Venosta per titoli di dignità, anteponendo i domini ai ser, mentre disseminò i nomi dei loro agnati non titolati tra quelli dei vicini. Infine era soggiacente alla successione dei convenuti un ordinamento per residenza: Pietro Pini non solo enumerò i presenti procedendo tendenzialmente per «quadre» (come, si è detto, erano chiamati a Grosio i due villaggi minori e le tre contrade del capoluogo), in una decina di blocchi identificabili; al loro interno sono individuabili pure tre sequenze che seguivano lo stesso ordine nominale dell’estimo comunale del 1526, facendo ritenere che egli abbia considerato, in quei passaggi, oltre alla contrada, anche il più ristretto ambito del vicinato [48]. Eppure, rispetto alle soluzioni adottate altrove, questi orientamenti non divennero mai assolutamente rigorosi e non furono mai esplicitati con precisazioni di residenza (quali, per fare un’ipotesi, «omnes de Viale») o di status (come «omnes nobiles Groxii») e soprattutto tramite accorgimenti grafici che suddividessero in ulteriori sezioni l’elenco nominale. Anzi, proprio in questo documento Pietro Pini rinunciò allo strumento della lista, di cui si era servito tre anni prima e cui tornò l’anno successivo, quasi a voler controbilanciare le scelte tassonomiche che aveva compiuto, diminuendone la leggibilità. Così, ambiguamente, ai signori era riconosciuta un’eminenza, senza che però niente consentisse di isolare questo vertice nella comunità con un colpo d’occhio; l’appartenenza di contrada era una trama tenuta presente, ma non resa immediatamente visibile, dietro la prioritaria inclusione di tutti i vicini nella comunità (ivi, f. 180r., 1535.04.18).


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note

[47] ASCG, Cause e liti, 41, fasc. 3, 1532.04.29

[48] ASCG, Estimi e taglie, 37, fasc. 6, 1526.