2. La forma della comunità: culture locali nel mutamento

2.3. Un nuovo linguaggio condiviso: la gerarchia sociale (Valtellina, metà XV–inizi XVI secolo)

2.3.1. La continuità: i centri maggiori

L’aspirazione cui la rappresentazione del prestigio individuale intendeva venire incontro era perlomeno duplice. In primo luogo si trattò della ricezione di una cultura sociale di ascendenza aristocratica: nella designazione dei gruppi di nobili le graduazioni della reputazione erano già valorizzate anche quando il codice della gerarchia non aveva corso all’interno del comune nel suo complesso (§ 2.2.2). Tale immagine fu dunque il mobile punto di incontro politico e culturale raggiunto tra più processi, potenzialmente contraddittori, che ebbero luogo in particolare nelle terre maggiori della valle: l’inserimento dei nobili nel comune, prima esclusivamente un’organizzazione dei rustici, in quanto nobiles communis, il ridimensionamento della loro posizione di privilegio, in cambio però del riconoscimento pubblico della loro eminenza. In secondo luogo il linguaggio della distinzione rispose pure ad esigenze maturate all’interno della compagine dei vicini, che non fu un passivo ricettore di valori elaborati da altri strati sociali: il mondo dei non nobili, infatti, divenne più variegato tra XIV e XV secolo, e pure in questa valle alpina perse quella connotazione pressoché esclusivamente «rustica» che nel primo Trecento pareva una semplificazione ancora accettabile della sua composizione, al suo interno si diffusero saperi professionali, crebbero particolari reputazioni individuali e dunque si affermarono distinzioni che esigevano un riconoscimento.

La vicenda di Morbegno svela con chiarezza entro quali tensioni sociali tale rappresentazione venne messa a punto. Qui i notai proseguirono la sperimentazione che avevano intrapreso precocemente (§ 2.2.2): dopo la metà del Quattrocento la lettura gerarchica della società locale incontrò un successo crescente, anche se raramente gli estensori dei verbali del Consiglio maggiore realizzarono prodotti dal rigore assoluto. Talvolta compilarono effettivamente sequenze dei gradi di prestigio con pochissime smagliature. Più spesso tenevano ad aprire gli elenchi dei partecipanti alle assemblee con dei titolati, ma, per converso, non li concentravano tutti a quell’altezza: insomma attribuivano un significato pregnante alla collocazione di alcuni di essi ai primi posti, ma non riuscivano o non si preoccupavano di fare di questa sensibilità un criterio generale che guidasse l’organizzazione dell’elenco nella sua interezza. Oppure riservavano una cura diversa a gradi di differente prestigio, maggiore per i domini, effettivamente riuniti all’inizio delle sequenze nominali, minore per i ser, dispersi nel loro prosieguo. Ciò non toglie che, nonostante molti graduati venissero variamente disseminati nel corso della lunga enumerazione dei partecipanti alle assemblee, l’impatto visivo dei primi nomi sistematicamente preceduti dalle qualifiche di spectabilis dominus, dominus magister, dominus e ser restava forte, come mostra bene, ad esempio, un istrumento rogato da Artuichino Castelli di San Nazaro nel 1517 (ASSo, AN, 667, f. 353r, 1517.01.04; ivi, f. 353v.).

Quali impulsi abbiano contribuito in modo decisivo all’affermazione del nuovo modello lo svela la considerazione analitica dei nomi cui i documenti conferirono la massima visibilità. L’opportunità che questi elenchi offrivano consisteva nel riconoscere un prestigio individuale eventualmente anche sganciato dall’appartenenza agli antichi ordini privilegiati e da un’illustre ascendenza familiare. Potevano cioè premiare i membri di lignaggi le cui generazioni si erano succedute alla guida del comune, come gratificare l’aspettativa sociale di uomini di estrazione vicinale o immigrati da poco, che avevano conquistato una reputazione personale e recente. L’elenco del 1456, già analizzato nel dettaglio, assegnava la precedenza a un novero di uomini che, se immaginati all’interno delle griglie cetuali ormai logoratesi, risulterebbe caratterizzato soprattutto da una grande eterogeneità sociale: erano membri di parentele di nobili e di cittadini, alcune già partecipi alla vita politica morbegnese nella prima metà del Trecento, altre di immigrazione successiva o comunque di recente inserimento nelle cariche locali. Il 18° designato, Aliolo Vicedomini, era esponente della famiglia degli antichi signori locali. Colui che, subito dopo, chiudeva questa prima parte dell’elenco, Baldassarre Ninguarda, al contrario, discendeva da un ricco milanese trasferitosi a Morbegno nel primo Trecento, la cui progenie non aveva partecipato alla vita politica fino all’inizio del Quattrocento e non era mai stata accolta fra i nobili locali; addirittura, nel 1447, i morbegnesi avevano discusso se accettare o meno tra gli uomini del comune Fomasio, il fratello di Baldassarre (ASSo, AN, 171, f. 41r., 1456.02.29).

Ancora più variegata è la composizione del vertice che l’atto del 1517 rendeva trasparente, poiché tra gli otto domini che aprivano l’elenco, accanto ai nobili di diversa provenienza (urbana e rurale, locale e forestiera) e a Gabriele Ninguarda, trovò posto anche Alessio Schenardi, uno dei maggiori politici locali, discendente però da una famiglia di calderai mai aggregata alla nobiltà morbegnese (ASSo, AN, 667, f. 353r., 1517.01.04). L’affermazione sociale della sua famiglia è leggibile allora anche come una scalata delle cellette del prestigio tracciate dalle due liste: nel 1456 la menzione del nonno si perdeva al 41° posto dell’elenco, dove era designato, senza nemmeno il cognome, «magister Bertramus coldirarius»; nel 1502 Alessio occupava l’undicesimo, con il titolo di ser, che lo costringeva ad accomodarsi dopo nove domini e un magister (ASSo, AN, 497, f. 401r., 1502.01.23); nel 1517 era il settimo nominato, penultimo fra i domini.

Per quanto riguarda l’inserimento dei forestieri, un elenco del 1502 si apriva con i nomi di undici domini: solo tre di loro appartenevano alla nobiltà locale trecentesca, ben quattro, invece, erano stati accettati in comunità solo un decennio prima (Giorgio e Martino Filipponi, Giacomo Bonini, Beltramo Guarinoni) (ivi, f. 398r., 1502.01.23).

Tra gli uomini che ambivano alla prima posizione, specialmente quelli che erano dotati dei saperi più apprezzati, come i medici, ebbero sempre meno bisogno di essere nobili, cittadini o membri di antiche discendenze morbegnesi: l’elenco dei convenuti in assemblea fu aperto nel 1474 da dominus magister Antonio Mantici, phisicus (ASSo, AN, 264, f. 159r., 1474.01.06) [25]; nel 1485 da dominus magister Gian Antonio de Zoiis, artium et medicine doctor [26]; nel 1523 dallo spectabilis artium et medicine doctor dominus magister Vincenzo Guarinoni (ASSo, AN, 669, f. 136r., 1523.01.04). Di loro, nessuno era di ascendenza nobiliare e due erano pure di sicura provenienza forestiera, ma occupavano la stessa posizione che era assegnata nel 1494 a magister Giovanni de Gabelleriis, anch’egli artium et medicine doctor (ASSo, AN, 497, f. 71r., 1494.02.05) [27], o a dominus magister Antonio de Gabelleriis, phisicus, nel 1445 [28], che invece erano di estrazione aristocratica.

Inoltre, senza che, almeno fino all’inizio del XVI secolo, si costituisse un’oligarchia chiusa, il pur composito gruppo eminente di Morbegno acquisì il controllo di vasti settori della vita pubblica. Un rapido confronto tra il comune di Grosio e quello di Morbegno è eloquente: a Morbegno le cerimonie di distribuzione caritatevole ai bisognosi erano spesso organizzate dai discendenti dei singoli benefattori presso le loro case, a Grosio le istituzioni del comune intervennero più direttamente, facendo della chiesa parrocchiale il luogo privilegiato di tali incontri festivi. A Morbegno il Consiglio maggiore si teneva nelle dimore dei membri dell’élite (a volte quella dello stesso Guidosio Castelli d’Argegno e poi dei suoi eredi) [29], dove pure i magistrati comunali svolgevano le mansioni inerenti al loro ufficio; a Grosio i medesimi atti erano compiuti nella casa del comune, edificio che a Morbegno mancava. Anche il modo in cui Guidosio Castelli assegnò i ranghi nell’elenco scritto nel 1456, riproducendo analogicamente lo spazio (politico, rituale, assembleare) della comunità, assecondava l’ambizione del gruppo dei maggiorenti, di cui egli era parte, di installarvisi.

La varietà di soluzioni adottate per la designazione del massimo ufficiale presente alle convocazioni è emblematica. Di norma in tali documenti alla menzione di consoli, sindaci, consiglieri si conferiva una visibilità che ne gratificava il ruolo istituzionale. Il segnale più comune della loro posizione era la precedenza: talvolta ne si anteponevano i nomi alla stessa lista, separando così enfaticamente la designazione di coloro che ricoprivano uffici stabili da quella dei semplici membri della comunità; altre volte li si includeva nella lista e nello spazio sociale che essa organizzava, rendendoli però ben visibili nella sua porzione iniziale. In quest’ultimo senso si orientarono, fra gli altri, Pietro Pini, verbalizzando le riunioni dei capifamiglia di Grosio (ASSo, AN, 776, f. 260r., 1532.04.25; ASSo, AN, 777, f. 341r., 1536.05.07), o Gian Battista Camozzi, che antepose il nome del sindaco della squadra di Morbegno alla griglia territoriale che il suo documento organizzava (ASSo, AN, 843, f. 22r., 1554.01.10) [30]. Lo stesso figlio di Guidosio, Nicola, proprio documentando un’assemblea morbegnese, aprì la lista con i nomi del console e dei due sindaci, uno dei quali, di modesta estrazione e privo del titolo di dominus, ma in forza della sua carica pubblica, si trovò a precedere tutti i più prestigiosi graduati (ASSo, AN, 497, f. 71r., 1494.02.05). Giovannolo Castelli d’Argegno, zio di Guidosio, che, come si è visto, preferiva qualificare singolarmente gli individui piuttosto che segregarli entro elenchi pensati per sequenze omogenee, nel 1376 fece precedere i nomi dei consiglieri di Morbegno (quali sono noti da un precedente documento dello stesso notaio, che lì impiegava la più consueta soluzione della precedenza) da due punti disposti orizzontalmente separati una breve linea verticale (ASSo, AN, 25, f. 238v., 1376.05.11 – particolare). Guidosio, dunque, nel 1456 sembra intervenire in un dibattito aperto, che sarà arricchito nel futuro, come lo era stato nel passato, anche dalle voci dei suoi consanguinei, per affermare che è la reputazione di cui gode l’individuo nella sua singolarità, non il suo ruolo istituzionale, a determinare le precedenze, negando l’esistenza di una sfera delle magistrature comunali autonoma rispetto al corpo sociale nel suo complesso. Egli, infatti, assegnò il primo posto al maggiore titolato presente e designò esclusivamente secondo l’ordine del suo rango ser Pietro de Carate (al 16° posto), la cui carica di console, pure ricordata, non consentiva di scalare la graduatoria (ASSo, AN, 171, f. 41r., 1456.02.29).


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note

[25] La qualifica è riportata in ASSo, AN, 425, f. 103r.–v., 1478.03.01.

[26] ASSo, AN, 379, ff. 108r.–110r., 1485.05.27.

[27] La qualifica è riportata in ASSo, AN, 381, ff. 230r.–232v., 1496.01.06.

[28] ASSo, AN, 121, ff. 14r.–15v., 1445.01.10.

[29] ASSo, AN, 240, ff. 149r.–151v., 1452.05.29; f. 247r., 1454.04.03; 242, ff. 317r.–323v., 1466.05.09; 138, ff. 502r.–503v., 1467.12.29; 264, ff. 159r.–161v., 1474.01.06 ecc.

[30] Cfr. ancora SAG, A B IV 8 a/2, pp. 217–218, 1520.03.03 (Colorina).