2. La forma della comunità: culture locali nel mutamento

2.5. I diversi esiti di un incontro: gerarchia e segmentazione territoriale

2.5.2. La gerarchia del prestigio individuale e la rappresentazione degli spazi politici più ampi

L’immagine piramidale della comunità, che graduava in primo luogo le reputazioni personali, e quella molecolare, che enfatizzava l’assetto composito della stessa comunità, erano in competizione anche allo scopo di imprimere una fisionomia determinata ai livelli maggiori di aggregazione territoriale. In più circostanze, infatti, gli estesi spazi politici delle valli lombarde furono pensati alternativamente come mosaici di comuni rurali che componevano entità istituzionali più ampie o invece come gli ambiti unificati dal potere, di norma meno formalizzato, di famiglie di singolare autorità, forti dei seguiti personali che erano state capaci di reclutare.

In Valtellina le due opzioni furono interpretate, fra XIV e XV secolo, rispettivamente dalle comunità federali e dalle fazioni guelfa e ghibellina. Del modello egualitario che le prime proponevano si è già detto (§ 2.4.4); per contro le fazioni furono il linguaggio attraverso il quale diversi soggetti tentarono di plasmare la medesima arena politica come il luogo d’azione di pochi potenti senza rivali, e, giustapposte nel loro seguito, delle comunità e di alcune figure individuali di particolare reputazione.

I verbali dei consigli delle fazioni e delle federazioni stesi dallo stesso Abbondio Gaifassi presentano, non a caso, liste concepite in modo assai diverso. Nel Consiglio delle squadre di Cosio e Morbegno intervenivano solo i procuratori dei comuni, e ricoprire questa mansione era la condizione in base alla quale i maggiorenti potevano presenziarvi. Al Consiglio della parte ghibellina del Terziere Inferiore (la cui base, pure, era quasi coincidente con il territorio delle squadre di Cosio e Morbegno), come del resto al Consiglio della parte ghibellina valtellinese, alcuni dei nobili più influenti partecipavano invece semplicemente a nome proprio a fianco degli agenti delle comunità. Nella seconda tipologia documentaria, allora, sparivano quasi del tutto le graffe e le corrispondenze fra le colonne che nella prima enfatizzavano la delega di autorità da parte delle comunità di vicini e nobili come fondamento del potere dei politici locali (ASSo, AN, 52, f. 183r., 1393.10.31; ivi, f. 183v.), lasciando questi ultimi soli, forti della sola identità individuale, senza nessuna istituzione territoriale alle spalle, nella pagina come nell’attività pubblica (ASSo, AN, 55, f. 47v., 1406.07.08; ivi, f. 49r., 1406.07.11; ivi, f. 49v.).

Conseguentemente, la reputazione personale concorreva in modo più incisivo nel precisare l’identità, così concepita, dei maggiorenti guelfi e ghibellini rispetto a quella dei delegati dei vicini e dei nobili delle comunità. Gli stessi verbali dei consigli della parte ghibellina del Terziere Inferiore e della Valtellina, infatti, vedevano gli elenchi dei convenuti, ordinati secondo il loro grado: prima i domini, poi i ser, quindi i non titolati. Tale ricezione della cultura nobiliare della distinzione in quegli anni non ha mai luogo nei documenti analoghi relativi ai consigli delle federazioni stesi sempre dal Gaifassi: la menzione degli uomini designati in questi ultimi verbali, infatti, era inquadrata rigidamente entro le liste che riproducevano uno spazio occupato da comunità territoriali, una maglia che sarebbe stato necessario disgregare, opzione presumibilmente impraticabile agli occhi del Gaifassi, per liberare quei nomi dalle celle in cui erano costretti e ridisporli secondo l’ordine dei titoli di dignità che li accompagnavano.

In Ossola si ritrova la stessa competizione fra i soggetti territoriali e le fazioni, qui integrate più che in Valtellina da relazioni di carattere personale. Una lista di partigiani della parte pontesca e di quella brenesca, concorrenti a Domodossola e nelle valli circostanti, opera di un magistrato periferico e destinata al duca di Milano, poteva quindi mostrare la politica locale animata da un numero ristretto di persone: esse venivano separate nettamente in due gruppi, corrispondenti ai due schieramenti, delimitati sulla carta da più righe lasciate bianche, e venivano designate riconoscendo, nella prima come nella seconda sezione, la precedenza ai domini, identificati nei racconti degli ufficiali come i «capi» delle parti (ASMi, Comuni, 34, Domodossola, s.d.). L’Ossola Superiore, però, poteva essere ripensata come una coordinazione di più comunità: esse venivano magari rappresentate ancora dagli stessi capi–fazione (Anton Giorgio del Ponte per Domodossola e Paolo de Rido per Crevola), i quali però nella circostanza vedevano il loro potere vincolato dal formale mandato ricevuto dagli uomini. La pagina del documento che ne riferiva le azioni era allora partita dalla designazione dei soggetti istituzionali che organizzavano il territorio, e i nomi dei capiparte si trovavano incasellati nelle relative articolazioni, guadagnando, grazie al titolo di dominus la precedenza solo fra i delegati di un medesimo comune (ivi, 1475.05.21).

In Valcamonica le comunità furono in competizione, piuttosto che con le fazioni, con i Federici, la parentela nobile più potente della valle. Questi ultimi conseguirono e mantennero per secoli una propria voce, riconosciuta, ma distinta, all’interno dell’università di valle, accanto ai comuni rurali, contribuendo peraltro ai processi di tendenziale concentrazione oligarchica del potere e delle cariche delle sue istituzioni, più sensibili che in Valtellina. Alla fine del Quattrocento la sequenza dei nomi dei consiglieri e degli ufficiali dell’università, scandita per comune o pievato di residenza, impediva la loro sistemazione secondo un principio gerarchico. Essa sarebbe stata del resto impraticabile soprattutto per quanto riguardava il Consiglio generale, perché i suoi membri, nella loro quasi totalità, anche se qualificati (ad esempio come notai), erano privi di titoli di dignità (RP, Registri, 2, f. 1r., 1502.01.01; ivi, f. 1v.; ivi, f. 2r.; ivi, f. 2v.; ivi, f. 3r.; ivi, f. 3v.; ivi, f. 4r.). Diverso, invece, è il caso degli aggiunti al consiglio, che non costituivano un informale gruppo di «principali», ma una vera e propria magistratura rinnovata annualmente; essi non rappresentavano analiticamente i comuni ed erano di estrazione sociale più elevata rispetto ai consiglieri. L’elenco dei loro nomi divenne, non a caso, la palestra per mettere alla prova un ordinamento gerarchico: è evidente, ad esempio, nel 1508, come la sequenza degli additi si sottraesse alla rigida griglia territoriale che sezionava la parte restante dell’elenco, e si potesse presentare, in fondo alla colonna di sinistra, come una compatta sequenza di sei domini, chiusa da un ser (ivi, f. 167v., 1508.08.09; cfr. ivi – particolare).

Oltre queste realizzazioni, ancora sperimentali, si poté andare solo quando fu costituita la commissione ristretta dei deputati, dotata di poteri eccezionali. Alla fine del Quattrocento l’attività di tale magistratura, che avrebbe potuto sostituire con le proprie deliberazioni l’operato del Consiglio negli affari urgenti, fu intermittente, e la sua stessa istituzione rimase a lungo materia controversa. Poiché i deputati venivano scelti tra i nobili più influenti e più sistematicamente dediti alla politica, il progetto comportava una ridistribuzione del potere entro la comunità di valle a netto favore della componente aristocratica, suscitando di conseguenza l’opposizione degli esclusi. Appare allora notevole come il finale successo di un disegno dell’aristocrazia, che impose la costituzione extra ordinem della magistratura, non prevista dagli statuti di Valcamonica del 1433 e contemplata invece in quelli del 1624 [41], sia stato accompagnato anche da una revisione in senso gerarchico dell’immagine della comunità di valle nel suo complesso. Nel 1509 si costituì una commissione di deputati, e da subito il cancelliere tese chiaramente a graduare i suoi membri sulla base del titolo di dignità. Le soluzioni furono dapprima approssimative (ivi, f. 195v., 1509.04.13), poi approdarono rapidamente a rigorose successioni di spectabiles domini, domini e ser (ivi, f. 197r., 1509.04.20). Tali verbali, comunque, riguardavano riunioni dei soli deputati; ancora maggiore fu la novità del maggio 1509, quando convennero in un’unica assemblea i deputati stessi, nonché tutti gli altri magistrati e consiglieri della valle. L’elenco degli intervenuti alla seduta plenaria si aprì con la menzione dei membri del nuovo comitato e poiché i loro nomi erano ordinati per rango, l’ordine geografico dei comuni e dei pievati, pure ancora soggiacente alla sequenza degli altri ufficiali, perse radicalmente visibilità, mentre venne esaltata, con immediata evidenza, la presa della matrice gerarchica sulla comunità di Valcamonica. Lo stesso sindaco dell’università Antonio de Maligno non fu designato per primo, ma, in virtù del suo titolo di dominus, seguiva gli spectabiles domini Federici; come Guidosio Castelli d’Argegno a Morbegno (§ 2.3.1), dunque, il cancelliere Giovanni de Bonis di Ossimo credeva o era stato indotto a ritenere che nella vita pubblica il credito individuale non cedesse alla carica istituzionale (ivi, f. 207v., 1509.05.22; ivi, 208r.).

Un medesimo tentativo, pure in modo come vedremo più incidentale, fu condotto nella squadra di Morbegno alla fine del Quattrocento. Alcuni notai autori dei verbali delle sedute sperimentarono un criterio di preminenza di carattere individuale e non comunitario, designando per primi i procuratori o i consoli di maggiore prestigio personale, indipendentemente dal rango del comune per cui agivano. Per questo motivo aprirono spesso gli elenchi di quegli anni il piccolo centro di Albaredo, che inviava in consiglio il dominus Baraino Castelli di San Nazaro (ASSo, AN, 380, f. 578v., 1499.06.22), o quello di Bema, che si rimetteva al dominus Gian Mattia Foppa (ASSo, AN, 452, f. 55r., 1508.09.16).


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note

[41] I. PIANTONI, Aspetti e problemi di una comunità di valle: la Valcamonica nella prima metà del secolo XVII, Università degli studi di Milano, a.a. 1995/1996, rel. L. Arcangeli, pp. 51–58.