2. La forma della comunità: culture locali nel mutamento

2.4. Un esito parallelo: l’articolazione interna delle comunità (contrade, comuni rurali, federazioni) e la rappresentazione analitica e non gerarchica dell’ordine territoriale

2.4.6. Un modello alternativo al dualismo città/contado

L’analisi dei modi dell’articolazione interna delle comunità suggerisce una riflessione sulla trasmissione degli identici accorgimenti grafici fra i documenti che riguardavano diversi livelli dell’organizzazione comunitaria. Essa, infatti, implicava di per sé una proposta per interpretare il sistema politico–istituzionale locale. Lo stesso schema si ripeteva invariato nei verbali delle assemblee di contrada, per segnalare i diversi villaggi in cui risiedevano i convenuti, del comune rurale, per visualizzarne le contrade, dei consigli delle squadre e dei terzieri, per indicare il concorso dei delegati dei comuni, infine dell’assemblea dell’università di valle, per identificare gli agenti a nome delle squadre, dei terzieri e dei comuni in Valtellina, dei pievati e dei comuni in Valcamonica. Questa rappresentazione, dunque, inglobava i villaggi nelle contrade, le contrade nei comuni, i comuni nelle squadre, nei terzieri o nei pievati, questi ultimi nell’università di valle, sempre garantendo a tutti i soggetti la loro singolarità istituzionale e assicurando la riconoscibilità, anche visiva, dei quadri minori, che venivano a costituire la trama leggibile in filigrana di quelli maggiori. Gli accorgimenti grafici, quindi, interpretavano lo stesso principio di progressiva aggregazione senza fusione che assimilava le federazioni a comunità di comuni, per usare l’espressione («communitas [...] communium») che Romeriolo Castelli d’Argegno introdusse già nel 1366, in un documento che ho già considerato, pur non traducendo ancora in un’immagine documentaria specifica quella nozione (ASSo, AN, 7, f. 256r., 1366.06.06).

In questo senso, tali documenti erano chiaramente un prodotto ideologico. In primo luogo sopprimevano le possibili rappresentazioni alternative della società locale, ad esempio come spazio politico punteggiato dall’iniziativa di singoli individui o di clientele raccolte attorno ad un patrono e prive di base territoriale. In secondo luogo, rimuovevano la possibilità – invece sempre presente – del conflitto dai rapporti tra i diversi livelli istituzionali e territoriali, presentati invece come un armonioso incastrarsi di comunità concentriche.

Gli stessi documenti servivano anche ad un disegno politicamente molto ambizioso, la proposta di un’immagine complessiva del territorio radicalmente alternativa, per almeno due ragioni, a quella fondata sul dualismo città/contado. In primo luogo si trattava di una rappresentazione modulare e non polare, che non contemplava un centro capace di aggregare attorno a sé un esteso contado, ma una molteplicità di comunità che, a vari livelli, si componevano per progressiva inclusione delle une nelle altre, dal villaggio all’università di valle.

In secondo luogo si delineava un modello non gerarchico. Nella retorica dei documenti prodotti dai comuni urbani la preminenza politica e onorifica della città, il governo che essa esercitava con sollecitudine sul contado, erano intesi attraverso le metafore del «capo», che comanda e coordina le altre membra del corpo, o della madre che si preoccupa dei suoi figli. Il territorio, invece, nelle liste che esaminiamo, diveniva la superficie appiattita sulla quale si succedevano centri rurali di pari dignità. Le liste di comuni, squadre e pievati che inviavano i propri agenti nei consigli della Valtellina, della Valcamonica e, ad una scala inferiore, del Terziere di Mezzo della Valtellina (SAG, A Sp III/11a III B 1, p. 109, 1523.05.09) erano infatti organizzate secondo un principio esclusivamente geografico: le menzioni dei vari centri procedevano infatti dall’alta alla basse valle. È bene precisare che si trattava certamente di una scelta, non del frutto di un ipotetico modo naturale di guardare ai luoghi: risulta probante, in questo senso, il fatto che spesso, pure nei documenti che abbiamo visto più attenti a identificare i singoli villaggi che costituivano il comune (ad esempio ASSo, AN, 812, ff. 190v.–191r., 1520.11.30; ASSo, AN, 1033, f. 13r., 1552.01.10; ivi, f. 13v.), mancava qualsiasi interesse a designarli considerando la morfologia del territorio, magari secondo l’andamento della valle o l’altitudine (§ 2.2.4, § 2.4.2).

Se tale ordine veniva infranto negli elenchi relativi alla Valtellina era solo per considerare ulteriori elementi di carattere geografico, pure assorbiti anche nella carta circoscrizionale della valle. Nel 1428, infatti, limitatamente al settore sud–occidentale della valle, furono elencati prima tutti i comuni situati sulla destra orografica, poi quelli del versante sinistro: essi appartenevano a due diverse «squadre» delimitate dall’Adda (erano dette Citra Abduam e Ultra Abduam), sicché sembra che l’espressiva riga bianca lasciata fra le menzioni dei primi e dei secondi riproduca il corso del fiume nello spazio astratto della pagina (ASSo, AN, 517, f. 1v., 1428.12.11). In tal modo gli elenchi, quasi come delle carte del territorio stilizzate, allineavano tutte le località su un unico piano, percorso nel senso delle strade o dei fiumi che dalle cime e dai passi alpini scendevano verso la pianura, ulteriormente ripartito in versanti, a volte, ancora dai corsi d’acqua, negando ogni preminenza territoriale che, sulla base del rango istituzionale o della ricchezza, consentisse di assegnare la precedenza ai borghi e alle terre maggiori a scapito dei villaggi minori [38].

In questo senso, si verificò una stretta consonanza tra le aspirazioni espresse dal linguaggio visuale e da quello testuale dei documenti. I membri della comunità della pieve di Porlezza affermavano che nessuno dei comuni costituenti dovesse prevalere sugli altri («la mente nostra non he che uno comuno ho sia parte de quello habia a sotometere tuti li altri che sono nove, in fare alcuna cossa senza lor partecipatione»), traducendo in un principio deliberativo l’immagine che le liste suggerivano per le federazioni [39].

Nel terzultimo decennio del Quattrocento, i comuni che costituivano la porzione settentrionale del Terziere Superiore della Valtellina (Sondalo, Grosio, Grosotto, Mazzo, Vervio, Tovo e Lovero) chiesero, per il maggiore agio dei loro abitanti e per la sicurezza dello stato, il trasferimento del capoluogo da Tirano, dove risiedeva il podestà sforzesco, si amministrava la giustizia e si tenevano le assemblee della federazione, a Mazzo. I supplicanti, evidentemente, non concepivano Tirano come un centro dotato di un’intrinseca superiorità, con una corona di villaggi minori, secondo il modello radiale di ascendenza urbana. Per contro, proponevano un’immagine esclusivamente funzionale della posizione del capoluogo: «per più comoditade de essi comuni et homini de dicti lochi», oltre che per ragioni strategiche («per mayore custodia de li passi confini et suspecti»), Mazzo era il «più comodo che niuno altro locho» del Terziere a fungere da sede giurisdizionale e residenza dell’ufficiale milanese. Inoltre ritenevano che, proprio in virtù della pari dignità istituzionale dei componenti della federazione, nell’assunzione di decisioni non potesse pesare alcuna preminenza riconosciuta a priori ad una comunità fra le altre; nella circostanza di un conflitto interno, allora, i singoli comuni contavano in base al numero dei loro abitanti e all’entità della loro ricchezza («que communia sunt due partes trium partium tam respectu facultatis quam hominum dicti Tertierii»), principio che, come nella vicenda in esame, avrebbe consentito a più piccoli centri coordinati tra loro di prevalere su quello maggiore.

In un dettaglio, poi, la logica delle liste contenute nei verbali delle federazioni e quella dell’argomentazione prodotta dai comuni si avvicinavano ancora di più: le ragioni della loro comodità inducevano gli autori della supplica a preferire la collocazione della sede giurisdizionale a Mazzo, piuttosto che a Tirano, perché Tirano «è quaxi in fundo de tuti quanti li altri lochi», Mazzo invece «è in lo mezo del Terzierio». Ora, credo che queste parole consentano di apprezzare il contributo delle liste alla pensabilità del terziere come uno spazio non gerarchizzato fra un centro e una periferia, bensì modulato dall’allineamento di comuni disposti esclusivamente secondo la loro posizione geografica. Anche grazie a quelle soluzioni grafiche, infatti, l’ordine fisico delle località, da Sondalo a Lovero, seguito dai cancellieri dall’alta alla bassa valle, divenne uno schema istituzionale legittimo. Nella stessa supplica, nel passaggio in cui presentavano se stessi, i comuni promotori vi si attenevano, con un’unica infrazione. Mazzo e Tirano potevano allora essere detti, con pari plausibilità, l’uno «in lo mezo», l’altro «in fundo» sia di una concreto spazio geografico fatto di «lochi», sia degli elenchi recati nei documenti che registravano l’azione politica dei loro abitanti: nel 1428, ad esempio, nella prima sezione di una sequenza che riguardava l’intera Valtellina, si collocavano rispettivamente alla quinta e alla nona di dodici posizioni (ASSo, AN, 517, f. 1r., 1428.12.11) [40].

La rappresentazione non gerarchica, ma modulare del territorio poteva conoscere un’applicazione estensiva e raggiungere il vertice del potere. Una nuova intesa tra la cultura politica dei sudditi e quella dei governanti si realizzò quando la Valtellina si distaccò dallo stato di Milano e venne assoggettata dalle Tre Leghe, un dominio costituitosi come una stratificazione di comunità, analoga a quella in cui si erano organizzate le valli del versante italiano delle Alpi centrali. Esso, infatti, consisteva in sostanza nella federazione fra tre federazioni di comuni rurali (la Lega Grigia, la Lega della Casa di Dio, la Lega delle Otto e poi Dieci Giurisdizioni); per contro non conosceva una tradizione urbana incisiva come in Lombardia (l’unica sede episcopale era Coira) e non era imperniato politicamente sulle città, al punto da essere privo di una vera e propria capitale. Ebbene, la compenetrazione dei modelli costituzionali si accompagnò alla circolazione di soluzioni documentarie. Nel 1531 la Dieta delle Leghe designò nove commissari che venissero in Valtellina e rivedessero gli statuti riformati della valle. L’elenco degli eletti, nel verbale di un’assemblea della comunità di valle, li divideva in tre gruppi, quello degli inviati «pro Domo Dei», «pro Lega Grixia» e «pro Octo Iuridictionibus». Ognuna delle tre federazioni contava su tre agenti, secondo una prassi di equilibrata composizione delle commissioni seguita dai tre soggetti sovrani pure in altre circostanze e osservata nello stesso modo dalle istituzioni dei territori sudditi. I loro nomi erano raccolti da una parentesi quadra, a destra della quale era precisata la formazione che rappresentavano (SAG, A Sp III/11a III B 1, p. 155, 1531.05.24). Così l’ideale di una autorità che veniva costituendosi dalle cellule comunitarie minime, e poi, attraverso meccanismi di concorso paritario fra queste ultime e di rigorosa riconduzione dei singoli uomini politici alla collettività che rappresentavano, si componeva in formazioni sempre più ampie, arrivò a disegnare un’immagine non verticale, bensì plurale e articolata orizzontalmente della stessa sovranità.


precedente precedente | torna sutorna su | successivo successivo

note

[38] Circa le rappresentazioni del territorio di carattere più schematico, v. sotto n. [89] e testo corrispondente. In particolare v. Ch. JACOB, L’empire des cartes. Approche théorique de la cartographie à travers l’histoire, Paris 1992, pp. 269–270, 297 e sgg., sul rapporto spazio–liste dei luoghi–carte.

[39] ASMi, Sforzesco, 1152, 1485.03.31.

[40] ASMi, Sforzesco, 782, [1471.09.02]; ASMi, Comuni, 79, Sondalo, s.d., post 1473.02.22.