Gli affreschi nella sacristia maggiore di San Giovanni in Morbegno

«Non est tui officii». [1]

La scena sotto la volta della parete ovest è quella che più di tutte –e immediatamente– attira l’occhio dei visitatori. Si impone con le figure rivestite di colori sgargianti che il tenue azzurro di sfondo e la tinta uniforme e un po’ neutra degli elementi di ambientazione mettono in rilievo. Il contenuto è stato ravvisato tra le numerose storie dell’AT. L’episodio fa memoria di un sovrano che dopo aver servito per tanti anni e con fedeltà il Signore e il popolo di Giuda, dalla superbia era stato indotto alla prevaricazione: il riferimento è a Ozìa. Questa lettura iconografica sembra affidabile anche per la sua organicità col globale messaggio dell’impianto figurativo della sacristia.

«In seguito a tanta potenza il suo cuore si insuperbì, fino a rovinarsi. Difatti prevaricò nei confronti del Signore, suo Dio. Penetrò nell’aula del tempio del Signore, per bruciare incenso sull’altare. Dietro a lui entrò il sacerdote Azarìa con ottanta sacerdoti del Signore, uomini virtuosi. Questi si opposero al re Ozia, dicendogli: "Non tocca a te, Ozia, offrire l’incenso al Signore, ma ai sacerdoti figli di Aronne, che sono stati consacrati per offrire l’incenso. Esci dal santuario, perché hai prevaricato. Non hai diritto alla gloria che viene dal Signore Dio". Ozia, che teneva in mano il braciere per offrire l’incenso, si adirò. Mentre sfogava la sua collera contro i sacerdoti, gli spuntò la lebbra sulla fronte davanti ai sacerdoti nel tempio del Signore, presso l’altare dell’incenso. Azarìa, sommo sacerdote, e tutti i sacerdoti si voltarono verso di lui, che apparve con la lebbra sulla fronte. Lo fecero uscire in fretta di là; anch’egli si precipitò per uscire, poiché il Signore l’aveva colpito» (2 Cr 26, 16–20).

Il re Ozia

Il re Ozìa, usurpatore dell’ufficio sacerdotale, precipitato a terra.

Del complesso episodio l’affresco distilla il nocciolo significativo. L’evocazione drammatica pone davanti agli occhi il messaggio circa l’autenticità del sacerdozio cattolico e della legittimità dell’esercizio delle sue mansioni. Esse vengono da Dio soltanto e insindacabilmente; nessuno può arrogarsene la dignità, se non è legittimamente chiamato. A nessun titolo. L’usurpazione è oggetto di condanna divina e di pena.
L’autorità istitutrice, unica fonte genuina, è richiamata della scena del piccolo monocrono che sembra fare da antipendio al fantasioso altare dell’incenso dipinto al centro. Ogni grado e compito dell’ordo dei leviti dovrà essere conforme alle norme originanti, che provengono dalla teofania del Sinai: le tavole della legge di Alleanza, compendio di precetti invalicabili, vengono ulteriormente evocate nello spazio più in alto, sopra i tre angeli apteri.
Si tratta, pertanto, di una scena di ‘apologia’ dottrinale, anche figurativamente nervosa: ben spiegabile alla luce delle acri dispute sorte con i movimenti protestanti in campo dogmatico e sacramentario, ovviamente non slegate da risvolti giuridici e politici [2]. La vittoria di Azarìa su Ozìa, catapultato a terra col suo turibolo prevaricatore, sta a comprovare la verità del sacerdozio custodito nella Chiesa cattolica.

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note

[1] «Non è un diritto che ti appartiene», secondo il passo di 2Cr che viene citato.

[2] Forse sta, sullo sfondo, anche un residuo di memoria polemica nei confronti del principio formulato nella celebre ‘pace di Augusta’. Dal 1555 l’assetto da accettare avrebbe dovuto essere quello della unità confessionale di ogni territorio in base al principio «cuius regio eius religio», formulato dal canonista Joachim Stephani. Cfr. Storia del Cristianesim. Religione–Politica–Cultura, vol. 8, Il tempo delle confessioni (1530–1620/30), Roma, Borla/Città Nuova, 2001, p. 45. Comunque la nostra immagine resta una affermazione di un potere sacro e del suo esercizio. Nessuno può arrogarselo senza chiamata.