Gli affreschi nella sacristia maggiore di San Giovanni in Morbegno

«Misericordiam volo». [1]

Lo sguardo ora va al medaglione parietale dirimpetto, eseguito con la stessa cornice e con lo stesso colore di quello esaminato poco avanti. Non si tratta solo della ricerca di un equilibrio estetico: c’è infatti una ragione più profonda da scoprire. La ricerca entro la sterminata galleria dei racconti biblici suggerisce di soffermarsi su un personaggio: Tobia. Probabilmente questa è la identificazione più plausibile, in quanto opportunamente contestualizzabile nell’insieme programmatico e avvallata pure dalla ‘complementarietà’ tematica con il monocromo in posizione speculare [2].
Tobia non era un sacerdote, ma un buon popolano, toccato dalla sventura; non offriva olocausti rituali ma era prodigo di carità, che è l’anima originante e il frutto originato dal vero culto. L’elogio della sua giustizia davanti a Dio qui trova il punto focale nella descrizione di una tipica ‘opera di misericordia’ (appartenente anche al catechismo cristiano): a rischio della vita seppelliva i morti di Israele. Eccolo, dunque, con le sue braccia forzute, sollevare un cadavere. Osservato da un personaggio il cui atteggiamento appare ambiguo.

Tobia

Tobia trascina un cadavere alla sepoltura.

Ma andiamo al racconto biblico in cui è il nostro stesso protagonista a raccontarsi.

«Quando Salmanassar morì, gli successe il figlio Sennàcherib. Allora le strade della Media divennero impraticabili e non potei più tornarvi. Al tempo di Salmanassar facevo spesso l’elemosina a quelli della mia gente: davo il pane agli affamati, gli abiti agli ignudi e, se vedevo qualcuno dei miei connazionali morto gettato dietro le mura di Ninive, io lo seppellivo. Seppellii anche quelli che aveva ucciso Sennàcherib, quanto tornò fuggendo dalla Giudea, al tempo del castigo mandato dal re del cielo sui bestemmiatori. Nella sua collera egli uccise molti Israeliti: io sottraevo i loro corpi per la sepoltura e Sennàcherib invano li cercava. Ma un cittadino di Ninive andò ad informare il re che io li seppellivo di nascosto. Quando seppi che il re conosceva il fatto e che mi si cercava per essere messo a morte, mi diedi alla fuga. I miei beni vennero confiscati e passarono tutti al tesoro del re» (Tb 1,15–20).

Per questo amore del prossimo Tobia riceverà, dopo le sue traversie, la benedizione divina. Le molteplici opere di misericordia da lui praticate avranno una evocazione e una esaltazione per bocca dall’arcangelo Raffaele stesso (cfr. Tb 12, 6–15). E il racconto terminerà con un grande cantico di benedizione, con una ‘liturgia’ che zampilla dall’esperienza di una vita vissuta come dono. Trova qui una magnifica illustrazione il detto di Osea profeta, che sarà citato da Gesù stesso, a diffida di un culto solamente rituale: «Misericordia io voglio e non sacrifici» (Mt 9, 13).
La lezione richiamata dall’affresco di Tobia è dunque limpida nella sua austerità, chiara nella sua profondità teologale. Vale ovviamente per tutti i credenti, ma in modo specifico per i sacerdoti e leviti dell’economia evangelica. Essi sono chiamati alla somma dignità di liturghi sull’altare, ma, come il Buon Samaritano della parabola ammonitrice evangelica (cfr. Lc 10, 30 e seguenti), inviati anche presso l’ara di ogni infelice [3].

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note

[1] «La misericordia mi è gradita »: il detto riportato da Mt 9, 13, proviene da una citazione di Os 6, 6 pronunziata da Gesù stesso.

[2] Di notevole interesse è anche la considerazione che il libro di Tobia era stato incluso dal Concilio di Trento tra i libri canonici, mentre come tale non era riconosciuto dai Riformati.

[3] In questa prospettiva è evidente la polemica suscitata da Gesù stesso contro la degradazione del culto templare quale esercitata dal sacerdote e dal levita, che non assistono l’uomo ‘semivivo’, abbandonandolo ai margini della strada. Il sacerdozio nuovo esige una identificazione tra ‘sacerdote offerente’ e ‘vittima offerta’.