Gli affreschi nella sacristia maggiore di San Giovanni in Morbegno

La sacristia del clero a San Giovanni di Morbegno.

L’oggetto della nostra attenzione è la sacristia edificata negli anni in cui il cantiere della fabbrica di San Giovanni Battista fu particolarmente attivo e assai vivace fu l’attenzione artistica per lo splendore del tempio stesso. L’esistenza di una sacristia, «ad latus Epistulae, humilis et angusta» [1], è ricordata per l’ultima volta dagli atti della visita pastorale di monsignor Francesco Bonesana, avvenuta nel 1706. Invece il suo immediato successore, monsignor Giuseppe Olgiati, nella visita compiuta nel 1718, attesta che la cappella maggiore era oramai collegata ad una sacristia «ex cornu Evangelii (…) picturis elegantibus exornatam», ricca pure di sacra suppellettile e di paramenti [2]. L’attuale edificio risulta dunque posteriore al 1706 e precedente al 1718, anni in cui per essa fu attivato il magistero del Bustino. Si trova al lato ovest del grande presbiterio con cui fa corpo. Ivi poterono trovare conveniente assetto gli arredi già appartenenti alle chiese di San Pietro e del vecchio San Giovanni.
Non ci si occuperà, invece, della sacristia secondaria edificata al lato est in un momento successivo, a partire dal 1752: questo complemento assai opportuno fungerà primariamente da luogo riservato ai ministranti e ai membri laici [3] di confraternite incaricati di un servizio liturgico, oltre che da spazioso deposito per la sovrabbondante oggettistica rituale.

La sacristia del clero –considerata nei sui aspetti generali– risulta oggi parzialmente riadattata nel confronto delle norme emanate dai legislatori postridentini. Si presenta come un ampio salone, che non guarda ad oriente: ha forma rettangolare e si prolunga con delle adiacenze a nord.
Nel corridoio che porta verso la casa parrocchiale è visibile una ben modellata fontana (lavabo), la quale forse serviva anche da sacrario (cisterna per ricevere l’acqua delle abluzioni liturgiche). Spicca, inserita sulla parete, col colore nero del marmo di Varenna, quale fu modellata nel 1715 dall’artista barocco ticinese Giovanni Battista Adamo di Giacomo [4]. Il lavabo rispondeva a necessità sia pratiche che simboliche. La lavanda rituale delle mani era previa all’indossare i paramenti sacri e tale gesto di purificazione doveva essere accompagnato da una formula di preghiera. Un apposito cartiglio doveva essere appeso nel luogo, per richiamarla alla memoria [5]. Delle trasformazioni avvenute, anche del locale separato a nord, non è possibile seguire la storia [6].
Le necessità pratiche e l’introduzione di nuove prassi resero inattuale l’applicazione di alcune delle norme codificate e opportuno un adattamento. Ad esempio, al centro dell’aula si trova collocato un grande tavolo/armadio, che non era previsto nella normativa generale data in precedenza. Esso fu introdotto in vari luoghi come necessario in seguito all’incremento quantitativo di preziosi tessuti o di linda biancheria; ma cominciò pure a servire da tavolato, ovvero da piano ampio per il dispiegamento dei paramenti predisposti per le celebrazioni più solenni [7]. Invero la messa (quella che si diceva: ‘in terzo’) richiedeva l’apparato vestiario del presbitero contraddistinto da ricca pianeta e inoltre quello di un diacono segnalato dalla dalmatica e ancora di un suddiacono connotato dalla tunicella. Queste vistose ‘sopravvesti’ erano indossate sopra l’amitto, il camice con cingolo e la stola. Ovviamente, per altre sacre funzioni, come il vespro, l’apparato dei piviali (pluviali) richiedeva spazio maggiore. Ogni rito di vestizione, soprattutto per la messa [8], doveva avvenire con un’arte superiore a quella con cui si prepara una sposa: e il simbolismo di ogni indumento assunto veniva esplicitato da una preghiera codificata nel messale [9].
La visione della parete est è, a tutt’oggi, la più esteticamente gratificante: occupata da un artistico imponente armadio intagliato di noce, del secolo XVIII [10]: le norme prevedevano un mobile insigniori opere, per contenere arredi sacri di valore [11], libri liturgici e vesti particolarmente preziose.
L’assetto delle pareti ad ovest e a sud invece ha subito numerosi rimaneggiamenti. Senza dubbio dovette esistere, in una di esse, il prescritto altare, forse in corrispondenza di una delle nicchie che tuttora appaiono. Dovettero essere presenti poi, oltre a plura armaria e cassapanche, anche degli inginocchiatoi sopra i quali si trovavano i quadri (spesso riccamente incorniciati) recanti le tabelle con le preghiere di preparazione e di ringraziamento per la messa [12]. Il Ritus servandus ne proponeva le formule (pro temporis opportunitate) e le stesse prime pagine del messale ne offrivano i molteplici testi [13]. Non è più rintracciabile il luogo di una stufa a camino, mentre sono numerose le voci di spesa di provvisione di gerle di carbone per il riscaldamento [14]. Quanto alla parete sud, inoltre, si sa che venne aperta una porta di uscita verso il pronao esterno [15].

Il nostro diretto interesse si concentra ora sugli affreschi della volta. Essi sono la voce più eloquente, rimasta inalterata, di un modo di concepire la sacristia ancora all’epoca della loro datazione, che dovrebbe risalire agli anni tra il 1716 e 1718 [16] . Simonetta Coppa a buona ragione li attribuisce, a partire da osservazioni stilistico/estetiche, a Pietro Bianchi, detto il Bustino [17] . L’artista in questo periodo fu attivo in San Giovanni per il fronte della cappella Parravicini (dedicata al Mistero della Pentecoste), e per la attigua ricca cappella della Deposizione, allora custode della Sacra Spina [18]. Può essere interessante richiamare una peculiarità che caratterizza l’impostazione figurativa del Bustino: si tratta della frequente (quasi abituale) abitudine di inserire delle scene complementari ai soggetti principali ponendole a fianco o al di sotto. Esse si presentano inquadrate in lunettoni diversamente incorniciati ed eseguiti a monocromo. Anche questo dato ‘tipico’ avvalla l’attribuzione al Bianchi degli affreschi della sacrestia, ove la presenza di tale procedimento si presenta sulla parete ad ovest. Poi spicca la scelta (questa programmatica) delle due autonome scene a tinta unica, varianti del più vasto gioco policromo dell’insieme.
L’apparato iconografico di questo luogo, ove il ‘clero’ doveva prepararsi spiritualmente ai sacri riti e poi assumere ritualmente il vestiario prescritto, si presenta come un insieme unitario, un programma tematico caratterizzato da una articolata rilettura di passi biblici. Il messaggio d’insieme è pensato –simultaneamente– in prospettiva morale ed apologetica: esso si dispiega quale esaltazione e memoria della qualità del sacerdozio ordinato.
Il tema viene declinato secondo gli aspetti costitutivi primari propri del clero. Per rimembrare la natura e la dignità del sacerdozio ordinato si fa ricorso precipuo alla tipologia veterotestamentaria, e si ripresentano delle antiche prefigurazioni. Viene supposta come scontata la realtà del trascendimento degli antichi paradigmi del profetismo e del sacerdozio levitico da parte della novità dell’istituzione cristiana: ma la visione dominante si radica in essi. Quei ‘modelli’ biblici continuano a caratterizzare i viri Dei e a orientare l’adempimento dei vari uffici loro affidati. Dell’ordine sacro il nostro intreccio compositivo/figurativo mette in rilievo il compito sacrificale (ministero di intercessione), il ruolo pastorale–caritativo, la fondazione ontologica di uno status ‘separato’ (con poteri gerarchici e non partecipabili), il mandato magisteriale (dovere di predicazione, insegnamento). Si tratta certamente di una ostensione apologetica della classe ‘sacerdotale’, entro la visione globale affermatasi con la dottrina e la spiritualità della Controriforma. Sono presenti, sullo sfondo, le contingenze storico/dottrinali delle nostre terre nella quali erano circolate varie concezioni nate in seno alla Riforma protestante. La memoria del ‘contagio eretico’, che era stato tanto influente in Valle, continuava ad essere avvertita. Non è l’unico caso in cui, nei confronti di essa, il Bustino è chiamato a sferrare dei colpi con polemica pittorica [19].
Dell’insieme raffigurativo qui si cercherà di fare una lettura organica, quale ci appare pensata da una acuta prospettiva di committenza (sono questi gli anni che vedono avvicendarsi l'arciprete Raffaele Paravicini, morto nel 1713, e Giovanni Pietro Castelli San Nazaro). È questo risultato sintetico la chiave di lettura che calamìta l’analisi dei singoli dettagli, e permetterne una loro retta o plausibile decodificazione, così da sottrarli al mediocre ruolo di ostensione ornamentale attinta da pia episodicità.

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note

[1] Archivio Storico della Diocesi di Como (ASDCo), Visite pastorali, b. XLII, p. 16.

[2] ASDCo, Visite pastorali, b. CXI, fasc. II, p. 376.

[3] Si ricordi la prescrizione del Bonomi di inserire una finestrella nella porta della sacrestia del clero per conferire con i laici maschi, ai quali era interdetto l’accesso. Quanto all’ingresso umquam pacto di donne, si prevedeva una pena in caso di violazione della norma. Cfr. BONOMI, Decreta Generalia, p. 53.

[4] Cfr. Archivio parrocchiale di Morbegno (d’ora in avanti APMrb), Libro della veneranda Fabbrica (1714–1718), p. 42: «Adì 1 dicembre ho pagato a Giovan Battista Adamo marmoraro per il lavandino della sacrestia, comandato dall’eccellentissimo signor dottor Francesco Castelli Sannazzaro, talleri 30, fanno 312». Lo stesso Adamo appronta la balaustrata dell’altare maggiore di San Giovanni nel 1717 (cfr. Scritti d’arte, p. 231).

[5] Il cartiglio doveva essere appeso in loco e l’orazione diceva: «Da, Domine, virtutem manibus meis ad abstergendum omnem maculam, ut sine pollutione mentis et corporis valeam tibi servire». Missale Romanum, Praeparatio ad Missam, n. 62. Si cita il Missale romanum, Editio princeps (1570), a cura di M. Sodi – A. M. Triacca, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1998, d’ora in poi citato come MR (1570).

[6] I lavori più intensi si svolsero negli anni 1714–1716, come si evince dai pagamenti riportati nelle pagine del succitato Libro della veneranda Fabbrica del 1714–1718. Ad esempio, il 4 novembre 1714 per lavori non meglio precisati (p. 26); nel 1715 per una canale (p. 40) e per tre finestre (p. 41); il 30 novembre 1716 ancora per canali del tetto (p. 53).

[7] In APMrb, Libro della veneranda Fabbrica, p. 50 si ha la testimonianza della provvisione del banco: «Adì 4 aprile 1716 pagato a magistro Marco legnamaro per giornate 34, a 11 parpaiole al giorno, per fare il banco della sacrestia di noce col suo compagno, pagato in tutto lire 74:16».

[8] Con rigorosa precisione le norme postridentine (in seguito non sempre osservabili) sacralizzavano l’atto di vestizione del presbitero: i suoi paramenti dovevano essere prelevati dal piano di un altare costruito appositamente nella sacristia, che, oltre alla croce e ai candelieri reggeva anche la tabella delle orazioni da recitarsi per ogni singolo indumento. Cfr. MR (1570), nn. 62*–68*. Tale altare, di dimensioni minori, poteva essere incorporato in un armadio, specie nelle sacristie delle chiese non monumentali. Un esempio morbegnese è quello della sacristia dei santi Pietro e Paolo.

[9] Per quanto concerne la qualità, l’uso di indumenti e paramenti sacri e la loro custodia in sacristia, si veda R. PEZZOLA, Paramenti nelle fonti d’archivio. Tra prassi liturgica, prescrizioni normative e usi sociali (secoli XVI e XVII), in Tesori e ricami sacri. I paramenti della basilica della Beata Vergine di Tirano, a cura di C. Ghibaudi e B. Ciapponi Landi, Tirano, Museo Etnografico Tiranese, 2006, pp. 47–69.

[10] L’attuale dovrebbe risalire al 1729. In APMrb, Libro della resa de conti, Amministrazione, n. 7, p. 230 si trova la nota di spesa per fare un armario in sacrestia «per comanda fatta dall’illustrissimo signor abate Giovanni Simone Parravicino». Già esisteva un ’credenzone’ del 1714, come si legge del Libro della veneranda Fabbrica, p. 23.

[11] Nell’anno successivo alla posa del grande armadio viene effettuata la provvisione di alcuni di questi arredi. Così nel Libro della resa de conti, p. 230: «Pagato al signor Giovanni Arrigoni intagliatore di Como, sotto li 25 agosto 1730, una tavorella con “In principio erat Verbum”, et lavabo con croce e piedestallo tutti inargentati et adorati, che importano di Milano lire 35, e questa consegnate a Giovan di Ciecallo, che fanno di Valtellina lire 56». Poi, nell’immediato 4 settembre: «Altre tre tavorelle con croce inargentate per uso degli altari» (ivi, p. 233)

[12] Le norme del Borromeo, riprese pure dal Bonomi, prevedevano addirittura l’esistenza un oratorium come stanza distinta dalla sacristia, ove il prete potesse ritirarsi in perfetto raccoglimento a pregare prima e dopo la celebrazione della messa. Cfr. Instructionum, cap, XXVIII, n. 128.

[13] MR (1570), nn. 47*–61* e –post missam– nn. 69*–86*.

[14] Queste provvisioni erano già in uso per riscaldare la sacrestia del vecchio San Giovanni e la angusta sacristia del nuovo, come appare ad esempio relativamente all’anno 1702, in Libro della resa de conti, p. 133.

[15] La notizia è in Scritti d’arte, p. 305. Tale uscita, secondo l’affermazione di G. Perotti, favoriva i predicatori nell’accesso al pulpito. Sotto il pronao esisteva una porta, ora chiusa, che portava al pergamo.

[16] Il vuoto documentario relativo a quell’anno e ai successivi non permette una datazione sicura. L’ultima notizia di intervento nella sacrestia che è riportata nel registro Libro della veneranda Fabbrica, p. 73, concerne un lavoro secondario di dipintura di cui oggi non rimane traccia: «Adì 8 agosto 1718 ho pagato il pittore G. Pietro Borla per dipingere a quadretti sotto il mezzanino della sacrestia». Riguardo a questo Borla cfr. G. PEROTTI, Affreschi del Settecento, in Scritti d’arte, p. 195. Cfr. anche la nota n. 18.

[17] Cfr. Il Settecento, a cura di Simonetta Coppa, Bergamo, Kriterion, 1994 (Civiltà artistica in Valtellina e Valchiavenna), pp. 283–284. Tale attribuzione è confermata dal succitato Marco Illini: «L’autore è Pietro Bianchi, che vi ha raffigurato una allegoria sacra». Circa questo artista (Como 1680 circa – 1724?) così si espresse G. B. GIOVIO, Gli uomini della comasca diocesi nelle arti, e nelle lettere illustri, Modena, presso la Società Tipografica, MDCCLXXXIV (ristampa anastatica, Sala Bolognese, Arnaldo Forni editore, 1975): «Bianchi Pietro portato da bambino all’ospitale di Como superò un sì triste destino col suo talento. I miseri esposti furono per lo più condannati a vestire una livrea, o a romper le zolle de’ campi; egli invece osò trattare i pennelli, e divenne scolare, e poi figlio adottivo del Crespi detto il Bustino. Il Bianchi era facile, ma non corretto. Molte nostre chiese, e case hanno dei suoi quadri , e freschi (…)» (p. 32–33). La denominazione ‘il Bustino’ appare riferita direttamente a Antonio Maria Crespi: a Pietro venne attribuita a titolo dell’adozione. Infatti, come annota sempre il Giovio (p. 92), Crespi Anton Maria «lasciò erede del suo studio Pietro Bianchi detto anch’esso il Bustino».

[18] Le chiese di Morbegno ridondavano ormai di interventi del Bustino. Aveva lavorato all’Assunta (1703–1706), in Sant’Antonio per la cappella del Rosario (1707), in San Pietro per la volta e le cappelle del tempio (1712–1713). Cfr. Scritti d’arte, pp. 194–195. Questo apprezzato risultato cittadino poté essere determinante per l’ingaggio nel tempio maggiore di San Giovanni, ove il Bianchi seppe offrire prestazioni più mature, a testimonianza della sua evoluzione stilistica. L’artista operò nella cappella della Spirito Santo (Cappella Parravicini) e nella Cappella della Deposizione (allora custode della Santa Spina), ove è fissata la data dell’intervento: «1716» si legge al termine della scritta del medaglione che fa memoria del vescovo Matteo Olmo. L’affrescatura della sacrestia è contemporanea o di pochissimo posteriore, certamente precedente al 1718 come provato dai citati atti della visita pastorale di monsignor Olgiati.

[19] Non è difficile verificarne le prove nelle chiese morbegnesi di San Pietro e dell’Assunta.