Como se tuta questa universitade parlasse.
La rappresentanza politica delle comunità nello stato di Milano (XV secolo)

Presentazione

Il saggio continua un lavoro unitario iniziato alcuni anni fa sulle culture politiche in uno stato territoriale tardo–medievale quale il dominio degli Sforza in Lombardia, con particolare attenzione al tema del rapporto comunità/principe.
La base documentaria è costituita dagli statuti urbani e rurali e dal carteggio politico conservatosi per la seconda metà del Quattrocento: le istruzioni e i comandi inviati in periferia dal principe, le relazioni dei suoi ufficiali, le suppliche delle comunità, le lettere dei maggiorenti locali e così via.

Si è indagata dapprima l’elaborazione ideale del patto di mutua obbligazione che legava i due soggetti, verificando già

  1. come anche nelle periferie rurali dell’Italia del Rinascimento la politica non si sia mai ridotta a sola pratica, ma è sempre stata elaborazione meditata di modelli ideali;
  2. come lo spazio culturale di uno stato regionale italiano del tempo non fosse omogeneo, ma segnato da scarti nella comunicazione e solcato da divisioni circa i valori proposti dai diversi soggetti (duchi, ufficiali, comunità, signori locali), che definivano la propria identità anche in quanto identità culturale [1].

Una volta delineate le condizioni del vincolo reciproco fra comunità e duca, restavano aperte ulteriori questioni: in che modi un soggetto plurale e problematico come la comunità poteva manifestare una propria volontà collettiva? E in che modi farla valere presso il principe?
Il primo problema ha suggerito un’indagine incentrata sulle pratiche, i valori e le scritture dei consigli e delle vicinanze (convocazioni plenarie dei capifamiglia). Tali assemblee, di nuovo, venivano guardate in modi diversi dai differenti attori, spesso con diffidenza dal duca e dai suoi magistrati in quanto occasioni di violenza, ribellione e manipolazione dei pareri dei più, mentre venivano difese dai sudditi come luoghi di costituzione, in modi regolati, di una volontà realmente condivisa [2].

Alla seconda domanda vorrebbe rispondere il presente intervento.
Le comunità lombarde vagheggiavano la possibilità di un accesso diretto, senza il filtro di scritture e magistrature periferiche o centrali, e con tutti i loro membri, alla presenza del principe, che tuttavia non incoraggiò mai questa aspirazione.
Si definì allora una soluzione di compromesso: il dialogo sudditi/duchi mediato da ambasciatori e sindaci. Sul loro profilo, però, di nuovo si accese il dibattito politico. I corpi locali, fedeli alla tradizione comunale, e soprattutto i ceti dei «popolari», volevano che fossero figure anonime, prive di autonomi poteri decisionali, semplici portavoce della volontà collettiva, accreditate esclusivamente dal mandato comunitario, conferito secondo procedure codificate: i nunzi si rivolgevano al principe, ma era sempre «como se tuta questa universitade parlasse». Le autorità centrali, invece, tesero a dissolvere il profilo unitario e istituzionale della comunità, e cercarono il contatto con le élites, nel linguaggio del tempo i «principali» o «migliori», che, con o senza delega formale, in virtù del loro prestigio sociale e della loro ricchezza, potessero porsi come rappresentanti degli altri sudditi. Gli stessi principali, però, erano poco propensi a sganciare la loro autorità dalla base comunitaria.
In molte occasioni le diverse posizioni si compenetrarono e lo stato per primo si fece garante delle forme con cui la volontà delle comunità poteva essere comunicata, mentre queste ultime non mancarono di elevare socialmente lo status dei loro rappresentanti. In altre circostanze, invece, il confronto divenne particolarmente aspro, i sudditi rivendicarono la possibilità di una comunicazione con il principe e i suoi agenti non ristretta alle élites locali, ma aperta a tutti gli uomini e a coloro che essi avessero scelto; furono allora accusati dai magistrati dello stato di disobbedire al duca e di riunirsi sediziosamente, mentre i loro ambasciatori, se privi di alta dignità personale, vennero allontanati dalla corte.
In gioco erano, evidentemente, le basi di legittimità della mediazione politica, cruciale servizio di interconnessione fra il centro e la periferia di uno stato regionale, e la stessa identità della comunità, come corpo territoriale dotato di un profilo unitario e, per così dire, di una «voce».

Ringrazio Andrea Gamberini, Federico Del Tredici e Isabella Lazzarini per i pareri che hanno espresso a proposito del testo.

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note

[1] «Per non privarci de nostre raxone, li siamo stati desobidienti». Patto, giustizia e resistenza nella cultura politica delle comunità alpine nello stato di Milano (XV secolo), in Forme della comunicazione politica in Europa nei secoli XV–XVIII. Suppliche, gravamina, lettere, a cura di C. NUBOLA, A WÜRGLER, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 147–215.

[2] Decidere e agire in comunità nel XV secolo (un aspetto del dibattito politico nel dominio sforzesco), in I linguaggi politici nell’Italia del Rinascimento (secoli XIV–XV), a cura di A. GAMBERINI, G. PETRALIA, Roma, Viella, 2007, pp. 293–380.