Decidere e agire in comunità
(un aspetto del dibattito politico nel dominio sforzesco)

pubblicato in Linguaggi politici nell’Italia del Rinascimento, a cura di A. GAMBERINI, G. PETRALIA, Roma, Viella, 2007, pp. 293–380

INDICE

  1. Valori e meccanismi della decisione comunitaria
    1. Le regole dell’assemblea
    2. Maggioranza, dissenso, unanimità
    3. Particolari e comunità
    4. Pluralità e singolarità della comunità
    5. Scrivere la comunità
  2. Intese. Conferme statali delle pratiche comunitarie
  3. Scarti. La qualità degli uomini, la potenza individuale e le collettività
    1. La distinzione sociale: fra compagnia cortese e comunità
    2. La potenza di pochi
  4. Rotture
    1. Il tempo del principe, il tempo della comunità. Comando, obbedienza, decisione
    2. Le assemblee e la parola politica
    3. Principali e popolari: la lettura analitica dell’assemblea
    4. La disobbedienza
    5. Dalla comunità all’unione
    6. Scrivere contro la comunità
  5. Aggirare la comunità: un’alternativa per il governo locale e l’opposizione dei sudditi
    1. Località e comunità
    2. Il peso sociale dei voti
    3. Le voci degli individui
  6. Conclusioni

PRESENTAZIONE – English version

Le comunità lombarde, grazie alle norme contenute negli statuti, ai verbali su registro e agli istrumenti notarili relativi alla loro vita decisionale, alle lettere inviate al duca di Milano, adottarono e applicarono una serie di procedure che consentissero di pensare una decisione come una risoluzione assunta collettivamente da tutti gli abitanti. Cruciale era il pronunciamento di un’assemblea dei capifamiglia o di un consiglio più ristretto svoltisi secondo regole formalizzate, nel corso dei quali fosse emerso un parere unanime o maggioritario. A tali funzionamenti erano connesse opzioni di valore: l’unanimità dei pareri, specchio dell’unità della popolazione; la preminenza della collettività sui singoli individui, e dunque di quanto interessava la prima rispetto a ciò che toccava i particolari. Molti capitoli statutari posso essere letti come un vero e proprio galateo, che prescriveva le parole e i gesti appropriati nella vita pubblica (cap. 1).

Il duca di Milano e i suoi ufficiali non respingevano questi ideali e non impedivano questi funzionamenti; anzi, offrivano loro una decisiva conferma, arbitrando i casi in cui i conflitti interni alle comunità rendessero problematico stabilire una linea condivisa dalla popolazione, riconoscere l’effettività di una maggioranza che si autoproclamava tale o la legittimità di chi si pronunciava a nome della collettività (cap. 2). Ciononostante il principato poggiava su una sensibilità sociale e una concezione del potere non in tutto compatibili con i valori di ascendenza comunale radicati fra i sudditi, codificati nelle norme politiche e negli scritti giuridici. Gli Sforza e i loro magistrati, attribuendo una diversa «qualità» agli individui, erano condotti a rilevare, fra uomini ritenuti perlopiù politicamente passivi, l’influenza di pochi: i maggiorenti in grado di guidare i loro vicini o al contrario i facinorosi capaci di sollevarli contro il regime. Inoltre, alla socialità politica che aveva al centro l’assemblea della comunità era possibile opporre la «compagnia» cortese fra persone di estrazione eletta, che consentiva di immaginare il governo delle periferie nei termini di una collaborazione personale fra gli ufficiali ducali e i gentiluomini locali, e di un incontro fra i rispettivi codici d’onore (cap. 3). Soprattutto, i meccanismi e i valori stessi delle assemblee delle comunità profilavano un tipo di decisione – assunta al termine di un serrato, autonomo e prolungato confronto consiliare, magari preceduto da un dibattito pubblico ancora più aperto – che, nonostante i compromessi trovati sul terreno della pratica, non era in linea ideale conciliabile con l’altro tipo di decisione – il comando del principe, revocabile solo da colui che l’aveva impartito, mediato dai suoi ufficiali periferici, che esigeva obbedienza indiscussa ed esecuzione immediata – introdotto dalla dominazione signorile. Per queste ragioni il duca e i suoi uomini svilupparono un’articolata critica della vita politica delle comunità, inconcludente, violenta, ribelle, sfigurata da tali eccessi emotivi da risultare assimilabile, nella loro prospettiva, all’associazione sediziosa (cap. 4).

A questo punto erano poste tutte le premesse per sperimentare pratiche di governo del territorio che aggirassero, almeno parzialmente, le istituzioni che organizzavano il «paese». Da Milano si cercarono come interlocutori i soli maggiorenti o i singoli individui, che agivano a nome non tanto di una formazione comunitaria, ma di una «terra», denominazione che la documentazione centrale prediligeva rispetto a quella di «commune» o «universitas», identificando così la realtà materiale di un insediamento, piuttosto che la sua fisionomia giuridico–politica. In particolare, tenere conto dei pareri dei sudditi attingendoli però direttamente, attraverso pronunciamenti individuali raccolti dagli ufficiali periferici, senza la mediazione delle procedure che li coagulavano nella volontà espressa da un’istituzione, pare il progetto più radicale: minando la credibilità dell’assemblea si ponevano le condizioni per la decostruzione politica e culturale della comunità e si legittimava il dialogo fra le autorità statali e le «singulare persone» non filtrato dai corpi territoriali. Le lettere sottoscritte dalle comunità e le azioni degli uomini replicarono a questo attacco polemico, nel contado con fermezza non minore, anzi a volte con maggiore determinazione che in città. Pur non rigettando del tutto i valori della distinzione sociale e senza mettere in discussione l’obbedienza dovuta al duca, difesero in modo energico la possibilità, per le istituzioni territoriali del dominio, di interpretare le aspirazioni e le esigenze dei sudditi, espresse in modo autonomo e ordinato, secondo i principi egualitari che attribuivano perlopiù a ciascun individuo adulto di sesso maschile un voto. Modellarono così il profilo della comunità in quanto formazione politica collettiva, dotata di una propria volontà irriducibile ai particolari che la costituivano, in grado di perseguire un proprio bonum superiore agli interessi parziali (cap. 5).

torna su torna su