III. Fra principe e sudditi

5. Le condizioni della rappresentanza

5.3. I tempi

Un altro motivo cruciale di divergenza fra le prospettive del principe e dei sudditi riguardava i tempi della decisione politica e dell’esecuzione del comando. Ho già mostrato come gli Sforza, non diversamente da altri principi italiani, con missive che contenevano esplicite indicazioni di durata, sollecitassero gli uomini a obbedire e a deliberare celermente. Con la stessa tempestività le comunità avrebbero dovuto costituire le loro rappresentanze: «subito» dovevano riunirsi gli uomini, senza «alchuna dimora», «senza più dilatione» eleggere i loro sindaci, che «subito» partissero alla volta della capitale [112].

I tempi della decisione comunitaria appaiono fisiologicamente più dilatati rispetto a quanto auspicavano i duchi. La costituzione di una rappresentanza poteva richiedere più riunioni e parecchi giorni di confronto fra i pareri, la ricerca, spesso difficile, dell’unanimità o perlomeno la formazione di un’opinione maggioritaria, il computo dei voti [113]. A causa della brevità delle cariche comunali, che annualmente dovevano essere rinnovate, si sospendevano le decisioni per settimane, nei periodi elettorali. Gli ambasciatori, poi, come si è detto, se si trattava di adempiere a incombenze gravose e onerose, erano inviati nella capitale per discutere piuttosto che per assumere impegni. Raramente istituiti con quel mandato ampio che si auspicava a corte, giunti a Milano, dopo aver esposto le lamentele o le richieste degli uomini e ascoltato i comandi o la replica del principe, dovevano tornare al cospetto delle assemblee locali che li avevano designati per esporre gli esiti della missione e lì ricevere nuove istruzioni. In ogni caso, dunque, e a maggior ragione se insoddisfatte dalle prime risposte, le comunità avrebbero formato ulteriori delegazioni, che si succedevano l’una all’altra, per affrontare lo stesso nodo problematico. In questa prospettiva, il mandato pieno conferito ai sindaci veniva caldeggiato tanto insistentemente da Milano anche perché sentito come garanzia di una più rapida ed indiscussa esecuzione del comando («aciò che quella comunità expeditamente dia amplo mandato alli nuncii soi de concludere el tutto») [114].

Le prospettive delle comunità e del principe, inoltre, divergevano pure per quanto riguardava la revocabilità o meno delle decisioni assunte. I precetti del duca, infatti, si volevano revocabili solo da un comando contrario dello stesso e dovevano essere eseguiti, dagli ufficiali e dai sudditi, senza discussioni. La cultura politica dei corpi locali, invece, profondamente segnata dalla tradizione comunale, sembrava non riconoscere alcuna «provvisione», nemmeno quella del principe, come definitiva e sottratta al dibattito. I consigli locali, quindi, ripensavano ed eventualmente smentivano deliberazioni assunte in precedenza nei medesimi consessi; non esitavano nemmeno ad inviare ambasciatori al duca e ad insistere perché egli per primo modificasse i propri ordini o annullasse quanto disposto dal primo segretario [115]. Gli Sforza reagivano contrariati a tale condotta. Mostravano insofferenza verso gli uomini, se questi intendevano ricontrattare gli impegni assunti, li consideravano «renitenti», che moltiplicavano le loro «scuse», manifestavano fastidio perché «hanno adducto molte difficultà per volere alterare questa taxa [...] et non aderirse alla voluntà nostra», mentre «non se doveriano retrare da questa nostra rechesta» [116]. In una di queste circostanze, Ludovico il Moro si disse chiaramente indisponibile a rinegoziare con gli ambasciatori della squadra di Morbegno una spesa dopo che la si era definita in modo meditato («per alterare el compartito una volta facto con bona maturità») [117].

In particolare, le federazioni sovra–comunali erano luoghi cruciali di interconnessione fra centro e periferie rurali del dominio, ma al contempo di lunga stagnazione dei comandi e delle decisioni. Innanzitutto, ostava alla rapidità delle deliberazioni la scarsa autonomia dei consiglieri–delegati dai comuni che li avevano eletti. Ancora nel 1541, per stabilire il testo dei capitoli da presentare al governo delle Leghe, i consigli dei tre terzieri della Valtellina designarono separatamente gli incaricati che dovevano incontrarsi, redigerli, convocare il Consiglio generale di valle per darne copia a tutti i decani dei comuni, che avrebbero dovuto discuterne con gli uomini, in assemblee di base cui era riconosciuta piena facoltà di riformularne il tenore, quindi riportarne a voce la risposta nel Consiglio generale, dove eventualmente ritoccare nuovamente il documento scritto, da sottoporre infine ai governanti per l’approvazione. È evidente quanto tempo e quante difficoltà avrebbe richiesto comporre una posizione unitaria se, già nel corso della seduta del Consiglio che previde questo iter, il rappresentante dei vicini di Sondrio dichiarò di non voler aderire all’elezione dei redattori dei capitoli [118].

In secondo luogo, i tempi della politica al livello delle università di valle e di lago erano dilatati dall’incerto riconoscimento della facoltà dei presenti, anche quando avessero costituito la maggioranza dei comuni membri, di impegnare gli assenti. In Valtellina la raccolta del sussidio da inviare per la guerra contro i turchi fu molto tormentata. A partire dal 10 settembre il commissario ducale Nicodemo Tranchedini cominciò a sollecitare – si direbbe singolarmente – i consoli dei comuni al pagamento, ma, diceva dopo alcuni giorni, «per ancora non ho saputo o possuto sì ben dire et operare che me habino resposto affirmative volergli pagare». Un primo Consiglio di valle, tenuto prima della fine del mese, designò due ambasciatori, che effettivamente si recarono a Milano. Al Consiglio, però, non erano intervenuti i rappresentanti della squadra di Morbegno, sicché il capitano di valle Ludovico Valeri dovette «convocare il Conscilio de la dita squadra». Ulteriore complicazione, i mandati conferiti dall’assemblea erano probabilmente insufficienti allo scopo di contrarre l’impegno richiesto. A Milano si poté effettivamente rivolgere un «comandamento» circa il sussidio a due dei messi; agli altri si diede «licentia» «de venire ad tuore pieno mandato da li homeni di potere acceptare tale richesta». Fu necessario allora un secondo Consiglio di valle, convocato il 28 ottobre; il vicario di Valtellina caldeggiò che i consoli dei comuni si presentassero avendo conseguito per primi la facoltà di assegnare a loro volta agli eletti i poteri necessari («amplia licentia da li homeni de potere fare tale pieno mandato»). Le avversità meteorologiche, però, impedirono la presenza di tutti; quindi si tenne una seconda convocazione a distanza di quattro giorni e finalmente si elessero i sindaci, con il mandato sufficiente a stipulare l’impegno per il sussidio. L’ufficiale tuttavia temeva un’ulteriore dilazione dei tempi, dal momento che ne ordinò la partenza entro sei giorni, pena una multa di 100 ducati che sarebbe stata addossata ad ogni comune. Poi le tracce della vicenda si interrompono; però risulta che a febbraio i comuni non intervenuti presumibilmente nel primo Consiglio generale non avevano riconosciuto la legittimità della decisione lì presa a maggioranza e si ostinavano a non pagare la missione ai due ambasciatori eletti in assenza dei loro agenti. Allo scopo, chiedevano che il principe ordinasse al capitano di valle la convocazione di un nuovo Consiglio di Valtellina, dove si deliberasse il rimborso [119].

In una circostanza, molti dei fattori considerati – la pausa imposta dal rinnovo delle cariche comunali, l’impossibilità dei consiglieri delle federazioni di decidere senza tenere conto del parere degli abitanti della giurisdizione, i mandati insufficienti conferiti agli ambasciatori, la ricerca insistita di un contatto diretto con il principe (fino a suscitarne l’irritazione), la volontà di ridiscutere ogni provvedimento – concorsero nel protrarre per mesi l’impegno di una federazione di comuni valtellinesi alla fortificazione del centro maggiore della giurisdizione. Il 24 novembre 1490 Ludovico il Moro ordinò che il Consiglio della squadra di Morbegno eleggesse «con amplo et pleno sindicato» un uomo in grado di «concludere et stabilire [...] omnia et quecumque oportuna et expedientia circha requisitam contributionem» per la fortificazione di Morbegno, arrivando a vietare l’allontanamento dei consiglieri fino all’avvenuta designazione. Il podestà, come precisa nella sua lettera, «subito» convocò il Consiglio per il 27 del mese. Alcuni consiglieri, però, nel corso di quella seduta, risposero «quod volunt confere cum hominibus communium suorum» e chiesero tre giorni di tempo per tornare con le opinioni della popolazione. A dicembre furono effettivamente inviati a Bartolomeo Calco due ambasciatori, ma il Moro lamentò «non con el sindacato et possanza che recercavamo de potere in nome de tutti concludere et promettere quanto bisognava». Il principe, intenzionato a far avviare i lavori a primavera, scrisse allora al podestà di Morbegno perché raccogliesse le cauzioni a sostenere gli oneri dell’impresa. L’ufficiale, Francesco Vicedomini, era un nobile di ascendenza locale, ma gli erano ben presenti i suoi impegni di ruolo e tenne a figurare ancora come esecutore sollecito della volontà ducale: disse che «a la receputa de dicte letere subito» fece di nuovo convocare i consiglieri della squadra, per il 21 dicembre. In quella circostanza cercò di «indurli et exortarli ad obedire quella [Signoria] con prompteza». Gli uomini, però, gli contrapposero il proposito di «mandare da E.v. ad fare loro excusatione ed deffensione». Essi si ripromettevano di inviare a Milano i propri sindaci prima della metà di gennaio, mentre l’ufficiale cercò perlomeno di accorciare i tempi, imponendo loro di essere al cospetto di Bartolomeo Calco entro il primo giorno del nuovo anno. La settimana successiva, di nuovo, ebbe a colloquio gli agenti dei comuni, i quali sostennero l’impraticabilità di quella data «per essere in la mutatione de novi consuli seu degani», motivo per cui richiesero un’ulteriore «prorogatione», che l’ufficiale concesse, fino alla metà di gennaio. Lo Sforza provò vivo fastidio per tutte queste «difficultà» e invitò il podestà a comunicare che non voleva più ricevere legati («non bisogna mandare più ad noi»). Alla fine l’urto fra la «prompteza» caldeggiata dal principe e la «prorogatione» di cui erano accusati i sudditi vide il successo della politica ostruzionista. Il 27 gennaio il Moro concesse un’altra dilazione, fino alla metà di febbraio, per l’invio dei nunzi a Milano; il 9 febbraio annunciò al podestà il differimento di un anno dei lavori, che né allora, né l’anno successivo, né in seguito sarebbero mai iniziati [120].


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note

[112] SCARAMELLINI, p. 384, doc. 347; ASMi, CS, 782, 1473.12.26. V. anche P. GHINZONI, L’inquinto ossia una tassa odiosa del secolo XV, «Archivio storico lombardo», XI (1884), pp. 499–532, pp. 507–508, doc. VIII, p. 514, doc. XIII. Cfr. DELLA MISERICORDIA, Decidere e agire in comunità, pp. 338–342; LAZZARINI, Il linguaggio del territorio, cap. I.2.

[113] A Bormio, per inviare due procuratori a Milano, si dovette convocare il Consiglio grande, il 25 gennaio 1490, senza esito; nei 15 giorni successivi si tenne una seconda riunione, nel corso della quale si designarono due ambasciatori, ma il rifiuto di uno dei due eletti impose la necessità di un nuovo mandato (ASMi, CS, 1152, 1490.01.27, 1490.02.09). Anche quando non se ne denuncia il ritardo, sembra inevitabile registrare come queste procedure di consultazione dei vicini e di deliberazione assembleare vedessero dilatarsi i tempi previsti (TD, II/1, pp. 391–392, doc. 431).

[114] SCARAMELLINI, p. 397, doc. 373.

[115] ASMi, CS, 1157, 1497.04.05.

[116] Nell’ordine, SCARAMELLINI, p. 448, doc. 472; ASMi, Comuni, 87, Valtellina, s.d.; SCARAMELLINI, pp. 397–398, doc. 373, p. 409, doc. 389.

[117] SCARAMELLINI, p. 371, doc. 320.

[118] Università degli Studi di Milano, Istituto di Storia del Diritto Italiano, ms. B 1 H 44, 1541.07 (il giorno del mese non è precisato). Nel 1484 l’impegno, garantito da una somma di denaro, a non esportare vettovaglie di contrabbando non poté essere prestato dal Consiglio generale, perché molti consiglieri non avevano ricevuto l’autorità per farlo. Di nuovo, allora, nei vari comuni furono riunite assemblee e conferiti i mandati ai procuratori che, di giorno in giorno – negli auspici del capitano di valle in meno di due settimane – si sarebbero presentati al cospetto del magistrato (ASMi, CS, 1152, 1484.02.29). Cfr. ancora ivi, 1485.09.29; ASSo, AN, 260, ff. 9r.–10v., 1455.05.31.

[119] ASMi, CS, 784, 1481.09.14, 1481.10.02, 1481.11.01, 1482.02.04.

[120] SCARAMELLINI, pp. 368–372, docc. 314, 316, 318–322; ASSo, AN, 380, f. 488r., 1490.11.27.