Un’altra ragione di urto fra comunità e principe riguardava i gradi di autonomia degli ufficiali e dei rappresentanti dei corpi locali. Ridimensionatosi il ruolo delle vicinanze dei capifamiglia, nel Quattrocento l’ideale dell’intervento diretto degli uomini in politica continuava a vivere nelle facoltà comunque trattenute dalle assemblee di base (quelle larghe a danno di quelle ristrette, quelle dei comuni a discapito dei consigli federali o dei sindaci) e nel conferimento di mandati a breve termine e circoscritti.
Gli statuti sancivano tali prerogative di controllo. A Sondalo i messi del comune erano tenuti a riferire al decano dei negozi che avevano trattato. A Teglio l’ambasciatore avrebbe ricevuto istruzioni per iscritto, «in esecuzione dei deliberati del Consiglio». Da parte sua doveva, entro dieci giorni dalla fine della missione, «rendere conto ai procuratori e consoli del detto comune circa l’attività svolta» e «consegnare agli stessi i documenti e le lettere di ogni genere che avrà avuto in relazione al suo incarico» [98].
Difficilmente nel carteggio di un borgo o un centro minore si troverebbe traccia dell’autonomia esibita dagli agenti della comunità cittadina di fronte agli organi che li istituivano, quando ad esempio gli «oratores Cumarum» firmavano come tali le lettere al duca, dunque prendendo la parola per conto proprio, piuttosto che presentandosi come la voce dei loro concittadini [99].
Insomma, i rappresentanti dei comuni nelle riunioni delle università di valle, di lago e di pieve erano concepiti come gli interpreti e i trasmettitori della volontà collettiva, piuttosto che come i mediatori che la sostituivano grazie all’autorità che erano in grado di interporre. A maggior ragione, coloro che i corpi territoriali inviavano a Milano o a trattare con i commissari sforzeschi operavano entro vincoli molto stretti, ascoltando e riferendo notizie o lamentele loro affidate, in quanto «informati» della «mente» dei loro mandanti, ma senza poter impegnare la comunità, che si sarebbe espressa nuovamente sulla base della loro relazione. Erano, per attenersi alle definizioni giuridiche e al linguaggio delle lettere sottoscritte dai corpi che a tali definizioni è piuttosto fedele, «ambasiatori», «oratores», talvolta detti, sinonimicamente, «legati», senza piena facoltà di agire in vece dei mandanti, piuttosto che «procuratores» e, denominazione di largo uso, «sindici» autorizzati a compiere atti giuridicamente validi e vincolanti (mentre le parole «messi» e «nuntii» paiono usate in modo meno univoco) [100].
Per quanto, si è detto, il duca rispettasse queste pratiche, il basso profilo decisionale dei magistrati e degli ambasciatori non era gradito. Costante era la preoccupazione che fossero elette persone in grado di assumere decisioni e contrarre obblighi a nome dei costituenti. Pertanto, quando si trattasse di assumere carichi fiscali e militari, stipulare compromessi, assicurare il rispetto delle interdizioni commerciali disposte a Milano, prestare fedeltà al feudatario, le lettere dal centro precisavano con cura il carattere del mandato che le comunità avrebbero dovuto conferire. Gli ufficiali periferici e i consigli locali erano allora responsabilizzati perché al cospetto dei commissari o a Milano giungessero sindaci «cum legiptimo et sufficienti mandato obligandi et obligare posendi [...] communia et homines» [101], «con ampla facultà de promettere per tutti» [102], che avessero cioè «opportuna facultà et arbitrio de concludere et stabilire quanto bisognirà» [103], «amplia licentia», «piena commissione [...] de fare quanto serà expediente» [104].
Non mancano i casi in cui i sudditi obbedirono prontamente, designando uomini dotati della «posanza» richiesta [105]. Spesso invece resistettero, più o meno attivamente. Inutilmente, per ottenere che la Val Blenio eleggesse un sindaco con un mandato adeguato a concludere un compromesso, Francesco Sforza, come accennavo, fece inviare il formulario del documento già preparato, che il notaio locale avrebbe dovuto semplicemente riprendere, affinché la designazione soddisfacesse tutte le condizioni richieste: la comunità, comunque, inviò a Milano messi privi dell’incarico richiesto [106]. I consigli delle comunità federali, costituiti da consoli e rappresentanti dei comuni, affermavano di non poter decidere in merito a ciò che non era stato anticipato nella convocazione da parte dell’ufficiale dello stato e preventivamente discusso dagli uomini, e dunque di non avere essi per primi il mandato sufficiente per eleggere a loro volta procuratori dell’università che trattassero a Milano con le facoltà piene che si pretendevano [107]. Gli ambasciatori inviati nella capitale opponevano analoghe ragioni. Al «maravigliato» Ludovico il Moro Sforza, che attendeva sindaci della squadra di Morbegno investiti della «possanza» per contrarre un impegno pecuniario, gli inviati risposero «de non aver portato altro sindacato né possanza», adducendo come causa il fatto di «non sapere quello havessero a promettere», e dunque che gli uomini non erano disposti a rimettere loro una decisione così delicata [108]. In tutte queste circostanze, allora, i membri delle assemblee federali, come gli ambasciatori inviati al cospetto del duca o delle magistrature centrali, dovevano necessariamente tornare a consultare i consigli e le vicinanze dei comuni, ridiscutere le questioni in sospeso («diseno volere andare a participarne con li altri vicini», si scrisse nel 1467), raccogliere il loro assenso e semmai riconseguire un mandato adeguato [109].
Gli esiti di queste procedure potevano essere paralizzanti, anche nelle circostanze più estreme. La stipulazione della pace fra due comuni confinanti in lite, conclusa sotto la tutela del vice–podestà locale, aveva carattere provvisorio se gli agenti delle parti non godevano di mandati pieni [110]. L’accordo tra la comunità di Val Lugano e la Repubblica ambrosiana, il regime affermatosi nella vacanza dell’autorità ducale, dopo la morte di Filippo Maria Visconti (1447), non poté essere concluso perché gli ambasciatori della prima «potestatem et arbitrium plenum non habebant a prefata comunitate» [111].
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[98] Archivio Parrocchiale di Sondalo, Liber ordinum universitatis Sondali, f. 59r., cap. 131; Teglio: terra dell’Arcivescovo. Statuti ed Ordini della Castellanza e del Comune di Teglio, a cura di D. ZOIA, Villa di Tirano, Tipografia Poletti [1996], p. 57, cap. 12.
[99] ASMi, CS, 1632, s.d.; 782, 1471.05.24.
[100] In generale, per la tradizione giuridica e il ricco dibattito storiografico in materia, cfr. ad es. i classici G. POST, Studies in Medieval Legal Thought. Public Law and the State, 1100–1322, Princeton, Princeton University Press, 1964, parte I; MICHAUD–QUANTIN, Universitas, pp. 305–326, le sintesi di H. F. PITKIN, The concept of representation, Berkeley, Los Angeles, London, University of California press, 1967; La représentation dans la tradition du ius civile en Occident, «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen âge», 114 (2002), pp. 7–159; HOFMANN, Rappresentanza–rappresentazione, cap. VI. Per l’Italia comunale, v. G. POST, Roman Law and Early Representation in Spain and Italy, 1150–1250, «Speculum», 18 (1943), pp. 211–232, pp. 224–232; S. ANGELINI, La diplomazia comunale a Perugia nei secoli XIII e XIV, Firenze, Olschki, 1965, pp. 17 e sgg.; V. CRESCENZI, Le origini del Sindicus–procurator a Siena (secc. XII–XIII), «Archivio storico italiano», CXXXI (1973), pp. 351–438. Per i modelli documentari, v. anche C. CARBONETTI VENDITTELLI, Per un contributo alla storia del documento comunale nel Lazio dei secoli XII e XIII. I comuni delle province di Campagna e Marittima, «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen âge», 101 (1989), pp. 95–132, pp. 109–113. In una prospettiva di storia politica, v. PARMA, Dinamiche sociali, pp. 71–79. Il dibattito tardo–medievale circa gli ambasciatori di repubbliche e principati evoca temi (istituzione, credenziali, prerogative, numeri, dignità personale e via dicendo) in parte affini a quelli affrontati a proposito delle figure che qui vediamo rappresentare le comunità all’interno dei confini del dominio sforzesco: D. E. QUELLER, The office of ambassador in the middle ages, Princeton, Princeton University Press, 1967; R. FUBINI, Quattrocento fiorentino. Politica, diplomazia, cultura, Pisa, Pacini, 1996, pp. 11–98; ID., L’istituzione diplomatica e la figura dell’ambasciatore nel XV secolo (in particolare riferimento a Firenze), in L’Italia alla fine del medioevo: i caratteri originali nel quadro europeo, I, a cura di F. SALVESTRINI, Firenze, Firenze University Press, 2006, pp. 333–354; F. SENATORE, Uno mundo de carta. Forme e strutture della diplomazia sforzesca, Napoli, Liguori, 1998, pp. 50 e sgg.; B. FIGLIUOLO, Il diplomatico e il trattatista. Ermolao Barbaro ambasciatore della Serenissima, Napoli, Guida, 1999, pp. 77–90; FOLIN, Rinascimento estense, pp. 150–156.
[101] ASSo, AN, 381, ff. 596r.–597r., 1499.07.13. Cfr. TD, I/2, pp. 74–75, doc. 723; ASMi, CS, 1156, 1495.09.09.
[102] SCARAMELLINI, p. 409, doc. 389.
[103] SCARAMELLINI, p. 365, doc. 307. Cfr. ivi, p. 383, doc. 345, p. 384, docc. 347–348.
[104] ASMi, Missive, 38, p. 664, 1458.10.22. Cfr. LAZZARINI, Il linguaggio del territorio, capp. I.2, III.2.1.
[105] SCARAMELLINI, pp. 386–387, doc. 351; ASMi, CS, 1153, 1493.05.06, 1493.08.17. Cfr. ASCB, QC, 5, 1509.01.02.
[106] TD, I/2, pp. 78–79, doc. 729, p. 82, doc. 736.
[107] ASMi, CS, 784, 1481.11.01; ASSo, AN, 517, f. 112r., 1492.02.07: «quod ipsi non fuerunt citati nec moniti pro imponendo aliquas taleas ex causa dictorum incantuum, et quod de nec pro hoc habuerunt nec habunt aliquod spiciale mandatum ad hominibus communium pro quibus comparuerunt».
[108] SCARAMELLINI, p. 369, doc. 316. V. ancora ivi, pp. 410–411, doc. 393; ASMi, CS, 1153, 1492.02.05; ASSo, AN, 381, ff. 590r.–592r., 1499.06.29. Si trattava di una ragione di frequenti tensioni politiche negli stati proto–moderni: cfr. ad es. A. MARONGIU, Il Parlamento in Italia nel medio evo e nell’età moderna. Contributo alla storia delle istituzioni parlamentari dell’Europa occidentale, Milano, Giuffrè, 1962, pp. 491–506; J. A. MARAVALL, Stato moderno e mentalità sociale, Bologna, Il Mulino, 1991 [1972], I, pp. 430–431; J. H. ELLIOTT, La spagna imperiale. 1469–1716, Bologna, Il Mulino, 1982 [1981], p. 169; N. BULST, Les dirigeants, les institutions représentatives et leur membres: élites du pouvoir rivales ou partenaires?, in Les élites du pouvoir et la construction de l’État en Europe, a cura di W. REINHARD, Paris, PUF, 1996, pp. 53–75, pp. 73–74; W. REINHARD, Storia del potere politico in Europa, Bologna, Il Mulino, 2001 [1999], pp. 260–261; P. BLICKLE, Kommunalismus. Skizzen einer gesellschaftlichen Organisationsform, München, Oldenbourg, 2000, II, pp. 280 e sgg. Per l’Italia, v. Parlamento sabaudo, I/1, Patria cismontana (1286–1385), a cura di A. TALLONE, Bologna, Zanichelli, 1928, p. CXVIII; L. ARCANGELI, Milano durante le guerre d’Italia (1499–1529): esperimenti di rappresentanza e identità cittadina, «Società e storia», XXVII (2004), pp. 225–266, p. 261; A. DE BENEDICTIS, Una guerra d’Italia, una resistenza di popolo. Bologna 1506, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 57.
[109] V. ad es. TD, II/1, pp. 391–392, doc. 431 (per la frase citata); SCARAMELLINI, p. 396, doc. 370; ASMi, CS, 1152, 1484.02.29; ASSo, AN, 517, f. 112r., 1492.02.07.
[110] ASMi, CS, 1632, 1494.05.30: «l’e ben vero che la [pace] non se feze alhora per instrumento, perché li agenti in nome de quelli de Cosio non haveveno mandato in scriptis di poterla fare, che la fusse ben secura».
[111] G. CHIESI, Il Sottoceneri e la signoria dei Sanseverino (1438–1447), «Bollettino Storico della Svizzera Italiana», CII (1990), pp. 119–172, p. 161, doc. 60.