III. Fra principe e sudditi

5. Le condizioni della rappresentanza

5.1. I numeri

Le folte commissioni di ufficiali e mandatari, le regole della loro lottizzazione (per rappresentare ceti, parentele e contrade), la pioggia di mandati ad hoc assicuravano un concorso largo della popolazione alla guida e alla rappresentanza delle comunità, evidentemente più preoccupate dall’esercizio esclusivistico dei compiti di governo e mediazione con le autorità centrali che dai costi dei compensi o dei rimborsi per i viaggi e i soggiorni dei loro ambasciatori. Per contro il duca e i suoi agenti, si è detto, premevano per dialogare con gruppi il più possibile ristretti.

Date queste premesse, è comprensibile come il numero dei rappresentanti divenisse un primo motivo di controversia: una sotterranea contrattazione sull’ampiezza delle delegazioni pare svolgersi ad ogni elezione. Se il duca chiedeva la designazione di «uno sindico e più», la comunità ne eleggeva due [93], se domandava di conferire con due uomini, ne sarebbero stati inviati tre [94]. Anche al là dei confini milanesi sembra viva un’analoga tensione: nel 1458 il capitano di Valcamonica, terra prima viscontea e da un trentennio inclusa nello stato veneziano di Terraferma, ordinò al comune di Vione di indicare due o tre uomini che descrivessero le proprietà della chiesa parrocchiale e l’assemblea di vicinanza ne nominò quattro [95].

A volte una pur minima lievitazione del numero dei messi suscitava il conflitto aperto fra la comunità e il podestà inviato a governarla, impegnato a indurre gli uomini a contenere al massimo l’entità delle loro ambascerie. Nel 1490 il comune di Bormio, per trattare una controversia in corso proprio con l’ufficiale, deliberò in un primo momento di inviare a Milano un unico incaricato e, solo se la cosa avesse incontrato il consenso del principe, una delegazione più numerosa. Il podestà, però, riferì con vivo disappunto come poi l’ipotesi fosse caduta e «per istigatione» dei suoi oppositori si fosse tenuto il Consiglio grande per designare due ambasciatori. L’anno successivo, invece, l’ufficiale riuscì a persuadere il Consiglio: «non era de mandare tanti homini da quella [Signoria], ma che solamente satisfaceva uno messo» [96].

Una volta partiti i nunzi, il duca tendeva perlomeno ad evitare ulteriori incrementi, visti addirittura come lesivi del suo onore («non debiano mandare qui più homini de quelli hanno mandato, perché ad loro seria spesa et danno et ad nuy poco honore», scrisse Francesco Sforza) [97].


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note

[93] TD, I/2, pp. 74–75, doc. 723, p. 82, doc. 736; CHIESI, p. 91, doc. 943.

[94] SCARAMELLINI, p. 384, doc. 347, pp. 386–387, docc. 351–352. Cfr. TD, III/1, p. 240, doc. 269.

[95] Archivio Parrocchiale di Vione, Designamentum parochialis ecclesie Sancti Remigii de Viono Valliscamonice, 1458.05 (il giorno del mese non è indicato). I. LAZZARINI, Il linguaggio del territorio fra principe e comunità. Il giuramento di fedeltà a Federico Gonzaga (Mantova 1479), Firenze, Firenze University Press, 2009 (disponibile in rete nel sito di «Reti medievali»), cap. II.1.2, riscontra nel Mantovano lo stesso fenomeno.

[96] ASMi, CS, 1152, 1490.01.27; 1153, 1491.06.14. La versione degli uomini conferma che fu l’ufficiale a farli recedere da quell’intenzione: «congregato el Conscilio generale nel quale era deliberato mandare alcuni homini da v.S. per intendere l’opinione de quella et dispositione circa ciò, il prelibato magnifico commissario ne ha fatto soprasedere, confortandone non vogliamo de ciò prendere altro affanno, che luy sciveria insiema con noy per uno messo solo» (ivi, 1491.06.14).

[97] TD, I/3, pp. 110–111, docc. 1450–1451.