Per nos hodie consecrata

Chiese, clero e fedeli nella Valtellina del Quattrocento

I verbali che i vicari del vescovo di Como Gerardo Landriani redassero in occasione delle visitationes compiute in Valtellina nel febbraio del 1445 offrono un prezioso punto di osservazione sull’organizzazione religiosa della valle: un punto di osservazione che permette di cogliere alcune importanti dinamiche delle relazioni tra clero e fedeli, nonostante la mediazione di non pochi filtri connaturati alla fonte –le ‘preoccupazioni visitali’ dei delegati del Landriani, la specificità dell’oggetto di indagine (dalla quale, ad esempio, furono escluse le confraternite), la probabile parzialità delle dichiarazioni rese da qualche personaggio interrogato–.

I visitatori episcopali percepirono in primo luogo le profonde trasformazioni che andavano interessando le strutture territoriali della cura d’anime: nei distretti che essi ispezionarono, infatti, le prerogative delle antiche chiese matrici –le pievi dove dall’altomedioevo i fedeli erano battezzati, ricevevano i sacramenti, ascoltavano la messa ed erano sepolti– risultarono erose da ecclesie ed ecclesie curate organicamente inserite nel tessuto delle comunità locali e in parte o in toto dotate delle funzioni proprie dei centri pievani. In qualche caso i nodi di questo nuovo sistema corrispondevano a località dove già alla fine del Duecento esistevano cappelle officiate da chierici delegati dai canonici residenti presso le matrici: così a Morbegno, dove già nel 1295 l’arciprete di Ardenno manteneva un cappellano, a Stazzona, dipendente dai canonici di Villa, a Montagna e a Chiuro, nella pieve di Tresivio. Al tempo stesso, però, non poche erano le chiese affermatesi solo recentemente come fulcri dei servizi religiosi: così a Delebio (dove un beneficio curato fu dotato nel 1429), a Postalesio (la cui chiesa, attestata almeno dal 1250, fu separata da Berbenno nel 1426), a Caiolo, i cui vicini avevano ottenuto nel 1377 l’autorizzazione a eleggere e mantenere uno o più sacerdoti responsabili dell’amministrazione dei sacramenti. Come accadde un po’ ovunque nell’Italia centro settentrionale, la diffusione di questo modello microterritoriale di cura animarum era stato sollecitato da diversi fattori, in connessione alle strutture dell’ habitat, alla distribuzione delle attività produttive, all’esercizio di diritti signorili o a condizionamenti di ordine ambientale: con ogni probabilità, la chiesa di Sant’Andrea a Gera di Chiuro e quella di Fusine –importanti centri minerari della valle– erano sorte per far fronte alle esigenze spirituali della popolazione impegnata nel’attività estrattiva, mentre a Teglio l’attribuzione di prerogative parrocchiali alle chiese del borgo sin dal Duecento dovette essere favorita dalla giurisdizione esercitata dall’arcivescovo di Milano; a Castione Andevenno, ancora, il trasferimento della comunità per sfuggire alla malaria e alle piene dell’Adda fu accompagnato dalla sostituzione della chiesa di San Martino alla più antica San Pancrazio in planitie quale fulcro dei servizi religiosi.

Quale era l’identità dei canonici e dei preti legati a vario titolo a "vecchie" e "nuove" chiese? Le risposte date dai preti interrogati dai vicari vescovili circa i titoli di possesso dei loro benefici confermano che, in accordo con una tendenza più generale, anche in Valtellina i meccanismi che regolavano la provvista beneficiaria –cioè il conferimento delle cariche ecclesiastiche– mutavano in relazione alle funzioni cui erano chiamati i titolari, per cui mentre i canonicati presso le pievi, oramai privi di obblighi pastorali, potevano essere conferiti a forestieri senza incontrare particolari resistenze da parte dei fedeli, nell’assegnazione dei benefici curati prevaleva l’aspirazione delle comunità ad avere un chierico residente presso il villaggio. In misura maggiore rispetto ai canonici infatti, i preti che si presentarono ai visitatori del Landriani risultano per lo più ben radicati nella società della valle: da Dazio proveniva il beneficiale di Campovico; la chiesa di San Fedele a Buglio era officiata da un oriundo della Valchiavenna; era stato rettore a Morbegno fino al 1442 e quindi a Talamona Pietro de Gabeleriis, molto probabilmente legato al decretorum doctor Tommaso, figura eminente dei sostenitori dei Visconti in Valtellina. Anche quel poco che conosciamo delle carriere di questi personaggi avvalora l’impressione di un clero poco mobile, solidamente legato alla valle. Se l’esistenza di qualche prete tra quelli interrogati nel 1445 si consumò presso il villaggio dove esercitava la cura d’anime –come Nicolino da Modena, che reggeva ancora la chiesa di Valfurva quando morì nel 1475– la carriera dei più non superò comunque i confini della regione d’origine: esemplari in tal senso sono le biografie di Giovanni Pili, che dopo aver rinunciato alla rettoria di Teglio nel 1452 ottenne la cura d’anime presso la località di Granìa, di Silvestro Porta, che prima di accedere al beneficio curato di Carona aveva esercitato a Castello dell’Acqua, di Giovanni Serponti, attestato come rettore prima a Chiuro e quindi a Grosio.

Gli atti visitali offrono inoltre molte indicazioni sulla ‘cultura’ del clero in cura d’anime, che i visitatori intesero come complesso di conoscenze funzionali più all’amministrazione dei sacramenti che all’evangelizzazione e che, probabilmente, erano acquisite principalmente per osmosi, attraverso la frequentazione di preti più anziani ed esperti. Il quadro che si compone dalle interrogationes cui i chierici furono sottoposti appare alquanto sfaccettato, in quanto accanto ad esami dall’esito positivo non mancano prove lacunose, riguardanti soprattutto i contenuti dottrinali di formule e di nozioni. Pur enunciando correttamente le formule usate nella consacrazione eucaristica e nel battesimo, ad esempio, l’arciprete di Berbenno non fu in grado di elencare sacramenti, peccati mortali, opere di misericordia, dogmi di fede e cinque sensi, e dichiarò di confessare chiedendo ai fedeli «si firmiter credunt in Deo et postea super decem preceptis Ecclesie»; all’impegnativa domanda sulla virtus del battesimo, il rettore di Castione rispose che consisteva nella formula canonica «Petre, ego te baptizo in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti amen».

Più omogenea è la panoramica sulla condotta del clero: mentre esigue sono le testimonianze di trascuratezze attinenti al ministero o di aperte trasgressioni –solo i rettori di Montagna e di Traona furono accusati di ostentare un atteggiamento irriverente durante le celebrazioni; il cappellano di Cosio fu denunciato come giocatore, mentre del beneficiale di Grosotto si segnalò la propensione per il vino– la maggior parte degli ecclesiastici esplicitamente interrogati in merito ammise di avere, o di avere avuto, illecite frequentazioni femminili. Attraverso queste testimonianze, che convergono nel tratteggiare relazioni lunghe e stabili, generalmente corredate di prole, si viene delineando una quotidianità spesso gravosa, che connotava il prete anche come buon ‘padre di famiglia’: oltre all’esempio dell’arciprete di Mazzo, che aveva un figlio, vale la pena ricordare le famiglie di frate Bertrame, beneficiale a Sernio e padre di due bambini che vivevano presso la canonica, di Stefano Castelletti, cappellano a Ponte e padre di tre figli, del rettore di Stazzona, che aveva avuto quattro bambini dalla propria concubina o, infine, la più numerosa prole del rettore di Grosio, la cui compagna era in attesa del quinto figlio.

Se la condotta personale del prete difficilmente poteva costituire un elemento di frizione coi parrocchiani –a meno che essa non comportasse trasgressioni lesive della tranquillità del villaggio o dell’onore di gruppi famigliari eminenti– era invece sul piano delle risorse materiali che i rapporti tra il pastore e il suo gregge potevano inasprirsi, a causa della vigile e sollecita partecipazione dei fedeli al governo delle strutture materiali delle chiese. Un po’ ovunque, in primo luogo, le sollecitazioni delle comunità avevano avuto un peso decisivo nel favorire l’insediamento in loco di preti con funzioni di cura d’anime; generalmente i fedeli avevano provveduto a costituire un patrimonio che consentisse il decoroso sostentamento del responsabile dei servizi religiosi; di norma, ancora, il populus delle nuove chiese aveva ottenuto dalla curia episcopale comasca il riconoscimento del giuspatronato (il diritto di elezione e di presentazione al vescovo del candidato al beneficio curato), che era esercitato con tempestività soprattutto per impedire che della chiesa si appropriasse qualche ecclesiastico estraneo al contesto locale. Talora, invece, presso chiese ancora prive del riconoscimento dello status di parrocchia o presso parrocchiali di recente istituzione la volontà dei vicini di assicurare al villaggio i servizi divini si traduceva nell’assunzione e nella retribuzione di un chierico i cui obblighi venivano fissati da patti che formalizzavano l’impegno del prete ad esercitare con continuità, distinguevano i rispettivi ambiti di azione in merito all’amministrazione patrimoniale e definivano strumenti e spazi di intervento contro inadempienze e contro comportamenti irregolari.
L’elemento che poteva condizionare in maniera determinante le relazioni con il proprius sacerdos era però costituito dal controllo esercitato dai vicini sulle risorse delle chiese, in particolare sul patrimonium fabricae –il complesso di redditi destinati al mantenimento dell’edificio sacro e costituito da beni immobili, lasciti testamentari, oblazioni legate all’amministrazione di alcuni sacramenti, offerte consuetudinarie per feste patronali, donazioni compiute in occasione di matrimoni e funerali. La gestione di questo patrimonio talora era affidata a un monachus, una sorta di custode (non sempre laico) che di norma assumeva anche la cura dell’edificio sacro e di alcuni aspetti connessi alla sua officiatura; più frequentemente però, i redditi della fabrica –e in particolare i legati testamentari– erano amministrati da organismi ad hoc, come il «capitolo delle elemosine» a Grosio –costituito da tre consiglieri eletti dalla comunità e da un canevario, responsabile dell’affitto di bestiame e di terreni e delle distribuzioni di grano, burro, formaggio, vino a favore dei poveri– o come gli «accoladri» ai quali gli statuti di Teglio attribuivano ampie competenze a proposito della manutenzione e dell’illuminazione degli edifici religiosi disseminati entro i confini del comune. Nel 1445, la delicatezza di questi aspetti della vita delle chiese non mancò di destare l’insistita attenzione dei vicari del Landriani, che in linea di massima stabilirono la gestione congiunta di tali redditi da parte di laici e di ecclesiastici, pur nel rispetto della consuetudine o di quanto disposto dalla locale normativa statutaria. A Buglio, ad esempio, i visitatori imposero di destinare «in fabricam sacristie dicte ecclesie» gli ornamenti offerti dalle famiglie in occasione delle esequie e di conservarli in una cassa, alla quale avrebbero avuto accesso il prete e il decano del comune, tenuti a rendere conto della loro amministrazione alla fine dell’anno; un principio analogo fu fissato anche a Teglio e a Berbenno, dove si riconobbero competenze su funeralia e su lasciti testamentari all’arciprete e a due canevari eletti tra gli abitanti dei due nuclei abitativi in cui si articolava il borgo.

L’assiduo esercizio del patronato comunitario sulle chiese e sul personale officiante certamente complicò e condizionò il rapporto tra i laici e i loro rettori. Almeno sul piano delle risorse materiali, questi si trovarono spesso in una posizione di debolezza e subordinazione, dalla quale derivarono da un lato la perenne conflittualità in materia di decime ed offerte, dall’altro, agli inizi del Cinquecento, il ricorso alle forme di solidarietà, certo non esclusivamente economica, attivate dall’adesione dei preti a consorzi chiericali come quelli di Ponte e di Chiuro. Probabilmente però fu anche grazie all’esercizio di tali prerogative, che in ambito civile trovavano rispondenza nell’importanza che gli istituti comunitari avevano nella vivace dialettica politica della valle, che le istituzioni ecclesiastiche ‘di base’ nella fascia alpina della diocesi di Como non presentarono ai vicari di Gerardo Landriani né particolari segni di vitalità e di iniziativa religiosa ma neppure, nel complesso, quegli abusi e quelle trascuratezze –dall’abbandono di chiese al rapidissimo alternarsi di preti al governo di una parrocchia– sovente individuate da altri visitatori quattrocenteschi nelle pievi della pianura.



Elisabetta Canobbio



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Note bibliografiche