2. La forma della comunità: culture locali nel mutamento

2.7. La marginalità

I documenti che abbiamo finora letto come discorsi sull’inclusione (dell’individuo o del gruppo nel comune come del comune nella federazione) si prestavano anche ad affrontare la condizione dell’esclusione. Nelle sue forme più radicali essa era non era rappresentabile negli atti che verbalizzavano l’attività di vicinanze e consigli, poiché gli immigrati più recenti, gli ebrei (presenze comunque assai sporadiche nell’area in esame), in molte realtà le donne e i giovani maschi non avevano diritto di intervenirvi: la loro posizione, dunque, era espressa da un silenzio eloquente, la mancata designazione. Diverso è il caso delle esperienze di marginalità meno estranianti, come, vedremo, il disaccordo con i propri vicini o l’incerta identità agnatizia e residenziale in un comune di parentele. Se lo spazio della pagina, infatti, stilizzava lo spazio della comunità, era possibile articolarlo in modo più o meno ricco, per rappresentarvi le condizioni e i rapporti fra loro di quanti parevano del tutto integrati in tale ambito sociale e istituzionale; un’ulteriore possibilità, però, era collocarvi uno o più nomi in una posizione eccentrica, significandone immediatamente la separazione da quelli dei vicini [52].

L’11 maggio del 1376 Giovanni Castelli d’Argegno fu chiamato a redigere l’istrumento con cui i morbegnesi assumevano l’impegno di sostenere le spese che avrebbe comportato la causa per reintegrare alcune prerogative della parrocchia. Insolitamente, egli dovette registrare che la deliberazione non era condivisa da tutti i presenti: Mossa Castelli d’Argegno, Martino Cavagna, Martinolo Castelli l’avevano respinta. Subito dopo il notaio redasse l’incarico conferito dal comune ad alcuni procuratori per il reperimento di un’ingente somma di denaro. Egli riprodusse l’elenco incluso nel primo documento, ma stavolta tradusse graficamente quella dissidenza che in un primo momento aveva registrato solo nel testo: scrisse infatti i nomi dei tre contrari nel margine inferiore della pagina, senza aggiungere una parola che esplicitasse ulteriormente le ragioni di tale relegazione, segnalando almeno nel caso del primo il posto che avevano occupato (e perso) accanto agli altri nell’elenco originario (ASSo, AN, 25, f. 238r., 1376.05.11).

A Rasura le squadre si definivano al contempo su base residenziale e lignatica: le cinque unità che costituivano il comune erano parentele (cui si aggregavano alcuni individui e famiglie isolati) tendenzialmente insediate in settori determinati del territorio. Dal momento che le parentele mediavano l’accesso alla politica, distaccarsi dalla propria agnazione complicava la partecipazione del singolo alla vita del comune. Lo mostrano bene le conseguenze dell’insolita scelta di Martino fu Antonio detto Trento Pedesina, che lasciò la contrada di Pedesina, dove vivevano i suoi agnati, e si trasferì nel luogo di residenza della moglie, Comina Migazzi, presumibilmente in località «Mulini». Egli da quel momento ebbe accesso alle cariche in quota alla parentela dei Migazzi e non più dei Pedesina, situandosi in una posizione assai ambigua. Il notaio Beltramo Guarinoni ebbe a volte difficoltà a riconoscergli, per questo, il cognome Pedesina e preferì identificarlo solo con il nome e la paternità. Nel 1465, addirittura, il notaio designò Martino per ultimo fra i vicini di Rasura, dopo la menzione dei vari blocchi parentali e soprattutto all’esterno degli spazi dell’elenco riservati ai Migazzi, ai Pedesina e alle altre agnazioni di Rasura, quasi riconoscendo di non sapergli trovare un posto nella comunità (ASSo, AN, 344, f. 3r., 1465.02.03).

Ai livelli superiori di integrazione del territorio si riproducevano meccanismi simili per comunicare condizioni di estraneità che però potevano essere difese come immunità vantaggiose. Dei modi in cui, nei verbali del Consiglio di Valtellina, la menzione di un nobile influente poteva essere isolata da quella degli altri intervenuti ho già detto (§ 2.4.4). Anche una comunità come Teglio vantò la propria posizione di privilegio rispetto a tutte le altre, costituendo una giurisdizione separata. A volte i suoi procuratori furono convocati comunque nei consigli generali di Valtellina, ma non mancarono di rivendicare la propria estraneità a quell’assemblea. Quando, nel XVI secolo, tali convocazioni divennero più frequenti, essi ottennero comunque o il cancelliere fu per primo disposto a porre un segnale di distacco dagli altri centri. La menzione di Teglio, infatti, è perlopiù fuori posizione nell’ordine geografico che la lista seguiva, dall’alta alla bassa valle, non inserita cioè fra quelle di Chiuro e Bianzone, ma confinata in chiusura (SAG, A Sp III/11a III B 1, p. 89, 1522.09.07). Le negoziazioni per la redazione del nuovo estimo di valle approvato nel 1531, però, sotto la pressione congiunta delle altre comunità e dei governanti, infersero un duro colpo all’autonomia di Teglio, a poco a poco assorbito entro il corpo territoriale valtellinese. Significativamente solo da quel momento il comune fu ricompreso organicamente nello spazio anche scrittorio organizzato dalle liste, che sancirono la crisi dell’enclave privilegiata ricucendo anche in questo tratto l’ordine geografico già applicato al resto della valle (ivi, p. 885, 1551.01.10).


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note

[52] Una marginalità, dunque, meno metaforica di quella cui si riferisce E. B. TRIBBLE, Margins and marginality: the printed page in Early modern England, Charlottesville–London 1993.