in La chiesa della Santissima Trinità di Teregua in Valfurva. Storia, arte, devozione, restauro, Milano 2011, pp. 17–97
1. Le informazioni sulle origini della chiesa della S. Trinità di Teregua per ora note sono molto scarne, ma questo non impedisce di inquadrarne la fondazione nel panorama generale della vita religiosa e associativa delle comunità nelle valli dell’Adda. In tali iniziative, infatti, alla fine del medioevo e agli albori dell’età moderna, il ruolo attivo non spettava alle autorità ecclesiastiche, ma a soggetti locali, come le parentele aristocratiche più potenti, le comunità rurali, le confraternite e via dicendo. In particolare, in Valtellina e nel Bormiese, come del resto altrove nelle Alpi e nell’area padana, tutto ciò che riguardava la chiesa del borgo o del villaggio mobilitò per lo più le comunità rurali: tali istituzioni si impegnarono per erigere l’edificio, abbellirne l’interno o arricchire la prebenda annessa, perché fosse possibile mantenervi un sacerdote residente, in ultima istanza conseguire per essa il titolo di parrocchia. Obiettivi come questi assorbirono parte significativa delle risorse economiche della collettività e impegnarono direttamente le energie della popolazione, dai maggiorenti che prendevano i contatti con gli artisti o tenevano i rapporti con le autorità ecclesiastiche al complesso dei vicini, almeno in alcune circostanze vincolati a contribuire con una prestazione di lavoro gratuito nel cantiere. Le fondazioni, infatti, nascevano senz’altro da un impulso religioso – garantire ai fedeli una più assidua assistenza sacramentale – ma riuscivano anche a consolidare il senso dell’appartenenza degli abitanti alla comunità locale. Quest’ultima innanzitutto, se già non l’aveva, doveva darsi un’embrionale organizzazione e istituire una rappresentanza formale che si occupasse dell’impresa edificatoria. Pure sul piano simbolico, poi, essa avrebbe manifestato per così dire la propria stessa esistenza in quanto collettività grazie alle cerimonie che si tenevano nella chiesa e ai riti che ricordavano i defunti nel cimitero, come la distribuzione di vivande a tutti coloro che partecipavano alle commemorazioni. Infine le opere che adornavano gli edifici sacri avevano, fra i loro scopi espressi, quello di rivaleggiare, quanto a pregio artistico, con le realizzazioni dei villaggi vicini.
2. Questi sono gli elementi di sfondo della realtà cui ci mettono di fronte le notizie pure laconiche relative alle origini della chiesa di Teregua. In presenza di una tradizione complessa, in cui si accavallano notizie ricavate da fonti non più esistenti e valutazioni contraddittorie fra loro, e a volte del tutto improbabili, fornite dagli eruditi locali, è bene attenersi a quanto certamente documentato: dunque, lasciando aperta la possibilità di nuovi rinvenimenti archivistici, ai contenuti di quei registri del comune di Bormio in cui sono verbalizzate le sedute del Consiglio ordinario e in cui sono tenuti i conti delle entrate e delle uscite dell’ente. Ebbene, l’11 settembre 1520 la prima menzione della chiesa si riferisce in realtà ad un semplice progetto di possibile realizzazione. Nella primavera del 1521 la chiesa della S. Trinità era definita «fienda» (da farsi), dunque era già stata progettata, si era pure decisa la sua intitolazione, ma l’opera non era ancora compiuta. Il 30 giugno del 1523 le fonti bormiesi si riferiscono ad essa come alla «ecclesia que noviter fit» (la chiesa che recentemente si fa). Per abbozzare una qualche soluzione dell’annoso problema dell’origine del luogo sacro, sulla base di documenti tanto asciutti, è inevitabile un’analisi dettagliata che pesi ogni loro parola. Bisogna dunque soffermarsi sull’avverbio «noviter» (che la documentazione coeva induce a tradurre «recentemente» o «ultimamente» piuttosto che «di nuovo»), i verbi «fieri» e «facere», che descrivono un’edificazione più probabilmente che un restauro (nel qual caso le fonti preferiscono termini come «reficere», «reaptare»), nonché il tempo presente del modo indicativo del verbo «fieri», che prospetta un’azione in corso, infine il gerundivo «fienda», che nella grammatica latina esprime l’eventualità o l’impegno non ancora realizzati, ma di cui comunque si prevede il prossimo compimento. Tutto ciò farebbe ritenere che, nonostante le notizie tramandate, la chiesa fosse una fondazione ex novo, pensata entro il 1520 e non ancora terminata, ma in fase di realizzazione, nel 1523, non la ricostruzione di un più o meno antico luogo di culto pre–esistente.
I secoli XV e XVI in tutta la valle dell’Adda si confermano così, anche alla luce di questa singola vicenda, come l’età in cui si verificò una moltiplicazione delle chiese di «contrada». Con tale termine le fonti del tempo classificavano i villaggi che non costituivano un comune autonomo, ma potevano avere una qualche forma di organizzazione della loro vita associata. Se infatti in precedenza erano stati soprattutto i centri di taglia medio–grande a fondare e a mantenere uno o più luoghi sacri, in questa fase anche i più modesti agglomerati umani si impegnarono per la costruzione di una propria chiesa. Teregua era per l’appunto una delle contrade della Valfurva: così era definita già nel 1379 da una pergamena oggi conservata nell’archivio parrocchiale di S. Nicolò, che attesta il diritto dei suoi abitanti di concorrere alla designazione del sacerdote che esercitava la cura d’anime in tutta la valle. La sua iniziativa, peraltro, non era isolata, ma il segnale della vivacità organizzativa e devozionale dei piccoli centri di quest’angolo del Bormiese negli stessi decenni: è rivelatrice, da questo punto di vista, la quasi concomitanza con l’analoga decisione della vicina contrada di Uzza, che fra il 1491 e il 1496, come fa ritenere la documentazione conservata a Bormio e nel locale archivio parrocchiale, aveva edificato la chiesa di S. Rocco.
3. Anche il protagonismo della comunità è attestato fin dall’inizio. Bisogna tenere conto che gli individui, in questa età, non erano e non si sentivano membri di una sola comunità: vi era il villaggio in cui abitavano (nel nostro caso Teregua), una realtà territoriale più estesa, che comprendeva altri insediamenti, come la Vallata nel suo complesso (la Valfurva) e, ad un livello ancora superiore, il comune propriamente detto (Bormio). Ad ognuno di questi piani potevano corrispondere esperienze di partecipazione politica e di condivisione delle risorse naturali con gruppi umani di diversa estensione, dal piccolo nucleo del vicinato a quello organizzato da un potente soggetto istituzionale come il comune di Bormio, che allora estendeva la sua autorità sulla superficie vastissima degli attuali territori di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro, Livigno.
Particolarmente interessante è che tutti questi livelli di organizzazione comunitaria si siano interessati alla chiesa di Teregua. I primi ad agire furono i «vicini de Teregua», cui i registri del comune di Bormio nel 1523 attribuivano senza incertezze l’iniziativa: la chiesa, infatti, «fit per eos vicinos» (si fa per opera o da parte dei vicini). Il comune di Bormio, però, soccorreva le comunità minori dislocate nel suo territorio in ciò che promuovevano «pro amore Dei» e «ad honorem» dei santi; intervenne pertanto anche stavolta con proprie sovvenzioni, come del resto aveva fatto a favore degli abitanti di Uzza. Destinò ai vicini di Teregua vino, frumento e domega, una varietà locale di orzo, derrate che avrebbero potuto poi essere vendute, procurando la liquidità necessaria per sostenere i lavori in corso, o costituire parte del salario delle maestranze, corrisposta in natura. È attestata la sollecitudine anche dell’intera comunità della Vallata (ossia di tutti i fedeli sottoposti alla parrocchia di S. Nicolò, nella cui cura d’anime Teregua restò sempre inclusa): nel 1614, infatti, il vescovo di Como, giunto in loco nel corso della visita pastorale, registrò l’intenzione degli «homines Vallis Furbae» di ingrandire la chiesa.
È senz’altro per i vicini di Teregua, comunque, che l’edificazione dovette avere la maggiore importanza nella messa a punto e nel rafforzamento di un sentimento di identità comunitaria, in primo luogo consolidando una vera e propria organizzazione della contrada, al di là degli accordi informali o dei taciti rapporti di reciprocità che dovevano integrare il piccolo gruppo degli abitanti. Nel 1521, infatti, i destinatari dell’offerta del comune di Bormio non sono, genericamente, i vicini, ma degli interlocutori istituzionali che l’ente riconosceva come tali: i «deputati supra ecclesiam Sancte Trinitatis». L’uso di tale termine fa ritenere già conclusa un’articolata procedura, che testimonia quanto si fossero già precisati tanto il progetto architettonico, quanto la posizione della comunità di Teregua, in qualità di promotrice dell’iniziativa; gli uomini adulti, infatti, dovevano essersi riuniti pubblicamente, alla presenza di un notaio incaricato di verbalizzare la decisione assunta dall’assemblea, e aver conferito un esplicito mandato presumibilmente ad alcuni di loro, perché, appunto in qualità di «deputati», seguissero le sorti dell’edificio da elevare con la formale autorità di agire a nome dell’intera contrada.