Principat, communauté et individu au bas Moyen Âge. Cultures politiques dans l’État de Milan

pubblicato in «Médiévales», 57 (2009), pp. 93–111

INDICE

  1. Contre la forme. L’autorité du prince, les institutions communautaires, la qualité individuelle
  2. Les intermédiaires du langage : les lettres
  3. Communauté, gentilshommes, vilains
  4. Péchés et passions
  5. Mauvaises manières
  6. La transparence et l’obstacle : la communauté devant le prince
  7. La défense d’une possibilité anthropologique

PRESENTAZIONE – English version

L’intervento conclude una ricerca articolata attorno ad alcune domande fondamentali: se sia possibile decidere, agire ed esprimersi in quanto collettività; come una comunità – che evidentemente non può compiere determinate azioni, quali ad esempio parlare – le attribuisca comunque a se stessa nel momento in cui ne conferisce la responsabilità a dei rappresentanti.

Si tratta evidentemente di problemi assai generali, dalle vaste implicazioni giuridiche, filosofiche e antropologiche. È possibile infatti discutere a più livelli se l’azione sia solo individuale o anche collettiva, se dunque la comunità sia effettivamente un soggetto agente o solo uno spazio per l’iniziativa dei singoli. Pure il rapporto fra il rappresentante e il rappresentato trascende in buona misura la sola relazione esteriore di delega, comprensibile alla luce delle categorie razionali del diritto moderno, per comprendere forme più profonde e complesse di reciproca assimilazione, che possono preludere all’identificazione tra la comunità e gli individui incaricati di operare a suo nome.

Si sono affrontate tali questioni in riferimento ad una realtà determinata, che le specifica in modo peculiare: il ducato di Milano nel Quattrocento, nel quadro delle più generali trasformazioni che interessarono l’Italia settentrionale. In queste regioni, fra XI e XIII secolo si verificò una fioritura di esperienze di autogoverno urbano e rurale, su cui si sovrapposero, dalla fine del Duecento, i regimi signorili. Si determinò allora, fra XIV e XV secolo, un singolare incontro fra diverse culture politiche: la tradizione comunale, con i suoi valori partecipativi e di elevata formalizzazione istituzionale e giuridica della vita pubblica; la tendenza del principato ad adottare pratiche di governo arbitrarie, extralegali e straordinarie, «contra la forma», denunciavano le comunità, della normativa locale e dei privilegi concessi (§ 1).

Si è letta tale sovrapposizione di linguaggi alla luce degli statuti urbani e rurali, degli atti notarili, dei registri prodotti dalle cancellerie comunitarie e principalmente della documentazione pragmatica del governo della dinastia degli Sforza, vale a dire del variegato carteggio politico conservatosi per la Lombardia della seconda metà del Quattrocento. Le istruzioni e i comandi inviati in periferia dal principe, le relazioni dei suoi ufficiali, le suppliche delle comunità, le lettere delle stesse comunità o dei maggiorenti locali non costituiscono però solo una fonte particolarmente ricca allo scopo di ricomporre il ventaglio di posizioni che articolavano il dibattito pubblico in uno stato regionale. Esse rappresentarono anche un’innovazione documentaria nel panorama delle scritture pubbliche italiane, di immediato impatto politico, che merita una riflessione specifica: la forma della lettera, infatti, in quanto duttile strumento che poteva accogliere i più vari contenuti entro una malleabile cornice documentaria (priva delle rigidità formulari ad es. dell’atto notarile), fu lo stretto corrispettivo e il medium per eccellenza di pratiche di governo che miravano a superare i limiti della «forma» imposta dalla legittimità consuetudinaria (§ 2).

Da questa prospettiva si può rivisitare una tesi classica: se i poteri più accentrati costituitisi in Italia nell’età del Rinascimento abbiano condotto una polemica culturale e una battaglia politica contro le comunità (in particolare le comunità non urbane), promosso i valori della distinzione sociale al loro interno, legittimato il protagonismo politico dell’individuo. In effetti, si riscontra come, muovendo dall’assunto della «qualità» irriducibilmente diversa dei membri della comunità – alcuni gentiluomini, altri «villani», alcuni «principali», altri artigiani «minimi» –, le autorità milanesi abbiano prodotto il quadro di valori idoneo ad una squalificazione sociale e politica della collettività in quanto tale e alla promozione al suo interno di ristrette élites. Nel contesto del governo extra–legale di cui si è detto, i politici locali, anche quando agivano a nome della comunità, venivano trattati (premiati o puniti) come individui che operavano in una sfera di potere personale («licet se batizano la comunità, tamen se resolveno & concludeno in alchuni») (§ 3).

A questo punto era possibile colpire la comunità almeno da due lati: l’esperienza politica che essa organizzava in sede locale (§§ 4–5) e la sua possibilità di accedere, in quanto tale, al principe (§ 6). Si degradarono la vita pubblica comunitaria e in particolare il cruciale momento dell’assemblea, in quanto dominati da passioni negative, che mortificavano l’espressione della «voluntà» individuale, da veri e propri peccati (invidia, ira, superbia) (§ 4), da comportamenti segnati dalla sregolatezza tipica del villano, incompatibili con i codici curiali del Rinascimento (§ 5). Inoltre il principe, che divenne nel Quattrocento sempre più incline a mostrarsi irraggiungibile e circondato dal segreto dei suoi consigli e dei suoi archivi, respinse l’attesa di contatto diretto diffusa fra i sudditi e dunque gli ideali di accesso «trasparente» al vertice del potere che provenivano dalla tradizione comunale, dialogando solo con delegazioni ristrette e, ancora una volta, socialmente qualificate dei corpi territoriali (§ 6).

I corpi locali, tuttavia, non subirono passivamente una così aggressiva messa in discussione della loro soggettività politico–istituzionale, intervenendo in un dibattito che, al suo massimo grado di astrazione, investiva la natura stessa della comunità, la definizione dei rapporti fra quest’ultima e gli individui che la costituivano. Il valore dell’unità, la possibilità dell’assemblea di esprimersi «una voce», il legame, sul piano retorico stretto fino alla fusione, fra la comunità e i suoi ambasciatori furono gli argomenti usati nelle lettere inviate al centro dalle periferie del dominio per ribadire il protagonismo della collettività invece che dei suoi singoli membri, per quanto di origine sociale elevata (§ 7).

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