«Per non privarci de nostre raxone, li siamo stati desobidienti». Patto, giustizia e resistenza nella cultura politica delle comunità alpine nello stato di Milano (XV secolo)

pubblicato in Forme della comunicazione politica in Europa nei secoli XV–XVIII. Suppliche, gravamina, lettere, a cura di C. NUBOLA, A WÜRGLER, Bologna–Berlin, Il Mulino–Duncker & Humblot, 2004, (Istituto trentino di cultura. Annali dell’Istituto storico italo–germanico in Trento. Contributi/Beiträge, 14), pp. 147–215 distribuito anche da «Reti medievali»

INDICE

  1. Lo stato di Milano
  2. La cultura pattista nelle suppliche
    1. Il patto
    2. Il principe giusto
    3. Lo scioglimento del vincolo di obbedienza e la resistenza
  3. Le comunità
  4. Il mutamento politico e la memoria delle comunità
  5. Le circostanze
  6. Comunità, signori e ufficiali. La cultura pattista nell’interazione politica locale
  7. Il dibattito politico
  8. Conclusioni

PRESENTAZIONE – English version

Il lavoro è dedicato al linguaggio politico contrattualistico rinvenibile in lettere e suppliche delle comunità rurali della montagna lombarda.

La configurazione dei poteri nello stato di Milano costituiva sicuramente una condizione favorevole all’elaborazione di tali testi: qui le comunità avevano ottenuto precocemente quel riconoscimento dello status di corpi privilegiati che in altri domini territoriali costerà loro durissime battaglie politiche. Era infatti proprio in quanto «privilegiata» che spesso la comunità pretendeva di essere conservata nella propria condizione e avanzava le proprie rivendicazioni. Non a caso, le scritture dai contenuti politici più corposi erano uno dei prodotti dell’iniziativa politica di alcuni centri di medie dimensioni delle valli lombarde, non certamente paragonabili alle città della pianura, ma molto diversi dai villaggi più modesti. Erano le comunità che avevano redatto propri statuti e avevano stipulato con il duca propri capitoli, che godevano di privilegi ed esenzioni e che dunque avevano già conseguito quei riconoscimenti del proprio status che potessero fondare legittimamente la loro azione rivendicativa. Nel corso del Quattrocento, poi, il peso delle comunità nell’assetto dello stato crebbe ulteriormente, e pure i principi furono via via più inclini ad accettare una definizione del rapporto con i sudditi centrata sulla bilateralità del vincolo, anche se mai sulla piena simmetria dei rispettivi obblighi.

Tuttavia l’ordinamento corporativo dello stato e i suoi equilibri interni non erano una condizione data a priori e immodificabile. Attraverso suppliche che richiamavano il principe ad osservare le promesse e i privilegi accordati, difendevano le proprie norme scritte da ogni violazione, e prefiguravano, infine, un diritto di resistere (se non altro in modo passivo) al potere che ingiustamente calpestava le loro prerogative e ignorava le loro proteste, le comunità rurali contribuivano a istituire, proprio nel momento in cui lo reclamavano, il proprio posto in tale ordinamento corporativo.

Nelle lettere che sottoscrivevano, le comunità delineavano un rapporto con il principe regolato da privilegi e capitoli, base su cui esse fondavano pure la legittimità delle richieste e delle rivendicazioni che affidavano a questi scritti. Contenuto del patto era il reciproco impegno con cui i sudditi assicuravano la propria fedeltà e obbedienza e il proprio sacrificio per lo stato, il principe un privilegio o un’esenzione fiscale e lo svolgimento delle funzioni fondamentali del potere inteso come «ministerium». La fedeltà, così concepita, non era un obbligo senza contropartita: essa aveva invece, come corrispettivo, la difesa armata dei sudditi; la tutela della giustizia, intesa come la garanzia delle prerogative e dei diritti acquisiti dai corpi e dai singoli; il rispetto delle «condizioni» alle quali essi avevano accettato la soggezione; l’impegno a non alienare (tramite investiture feudali) la giurisdizione che il duca esercitava su di essi. Le suppliche sono molto esplicite nell’individuare nello svolgimento di queste mansioni il compito del principe giusto, colui cioè che sta ai patti e non consente che i sudditi siano vittime di ingiustizia.

Nella logica di reciprocità che i corpi territoriali ponevano alla base del rapporto di soggezione, solo l’effettivo svolgimento da parte del principe del proprio dovere di garante della giustizia vincolava i sudditi al loro dovere d’obbedienza. Alcune comunità arrivarono ad affermare che, per contro, all’«iniuria» o al «torto» non si deve obbedienza. Il diritto di opporre la disobbedienza all’ingiustizia poteva essere usato innanzitutto contro un magistrato, colpevole di abusi o malversazioni. Alcune suppliche, però, sebbene in modo prudente, estesero al rapporto con i duchi di Milano il medesimo diritto alla disobbedienza. In particolare alcuni testi svolgono con notevole lucidità i passaggi che portano dalla constatazione dell’infrazione dei privilegi e delle condizioni stabilite e sanzionate con l’approvazione dei capitoli di dedizione all’interpretazione di questo atto come il mancare del principe al suo ruolo di tutore della giustizia e, di conseguenza, come rottura dell’impegno bilaterale contratto con i sudditi, sino alla finale minaccia di uno scioglimento della loro obbligazione verso lo stato. Secondo altre suppliche, pure la mancata ottemperanza ad un altro dei doveri del sovrano, la difesa dei sudditi, avrebbe restituito questi ultimi alla loro libertas.

Le suppliche non definivano la posizione, le prerogative e le funzioni del duca, come i contenuti della sua giustizia, in modo analogo al modello proposto nella documentazione di emanazione centrale, cui Visconti e Sforza affidavano l’auto–rappresentazione del loro ruolo. Al contrario delle scritture delle comunità, la documentazione prodotta dal centro non raffigurava mai il vincolo tra sudditi e principe come perfettamente reciproco; mentre le suppliche invocavano il principe come colui che non lascia «innovare» contro gli statuti, cioè che ne preserva l’intangibilità, i duchi di Milano si erano sempre riservati la possibilità di intervenire sulle norme che centri urbani e rurali si erano dati; se nelle suppliche la «promessa» del signore era rivendicata come inviolabile, il principe affermò più volte di potervi derogare (e dunque di poter revocare concessioni e cassare provvedimenti). Alle tensioni politiche tra centro e periferia corrispondono quindi scarti significativi dei linguaggi politici, che consentono di affermare che scrivere un testo ispirato dalla cultura del pattismo era un modo per assumere una posizione precisa nel dibattito politico del tempo. Era cioè un modo per intervenire a proposito di una delle più generali ragioni di attrito fra l’autorità centrale e i suoi agenti periferici da un lato e le comunità dall’altro: la polarità tra l’orientamento legalista e garantista delle comunità – alla cui logica riporta la difesa puntigliosa e instancabile dei privilegi, dei capitoli e degli statuti – e le tendenze più decisionistiche e tendenzialmente arbitrarie che guidavano a volte l’iniziativa del principe e degli ufficiali.

Allora, in un contesto di pratiche di governo in cui il duca e soprattutto i suoi magistrati non erano sempre custodi dell’esistente (cioè delle norme e delle condizioni stabilite) così scrupolosi come le comunità li avrebbero voluti, in cui ufficiali centrali e periferici erano a volte ispirati da intenzioni consapevolmente antigiuridiche, richiamare il principe ad un ruolo tradizionale di conservatore degli status definiti e della giustizia, ricordargli le promesse fatte, rivendicare la lettera dei capitoli di dedizione e degli statuti, aveva un preciso significato di polemica politica.

Non a caso lo sviluppo articolato e coerente di un discorso politico così corposo individua ed isola un numero molto limitato di lettere e suppliche, quelle nate nelle fasi di più acuta tensione tra le comunità e lo stato. I numerosi documenti in cui si chiede la conferma di un magistrato gradito, la remissione di un carico fiscale, la licenza di alienare beni del comune, il consenso all’elezione del rettore della parrocchia e altri interventi d’ordinaria amministrazione sono spesso molto poveri. I testi sui quali si è soffermata l’analisi sono invece quelli cui le comunità hanno affidato, in forme particolarmente vive, il loro biasimo per l’operato degli ufficiali o per decisioni del principe.

È significativa, a questo proposito, la consapevole selezione di diversi linguaggi da parte degli stessi protagonisti con il mutare delle circostanze esterne in cui i vari documenti vedono la luce, che conduceva ad adoperare gli argomenti desunti dalla tradizione del pattismo solo nelle fasi di maggiore attrito. Allora si abbandonavano i modi deferenti e docili con cui fino a quel momento si era invocata la «benignitade» e la «gratia» degli Sforza, per invitare i duchi a rispettare il buon diritto dei sudditi, pena la perdita del loro «honore» di principi e lo scioglimento degli homines dall’«obligatione» verso lo stato.

Pertanto, sebbene tali fonti recepissero modelli alti, elaborati dal pensiero politico e giuridico, e adoperassero, a seconda delle occorrenze, diversi linguaggi politici, pare innegabile che la tradizione politica contrattualistica sia stata pienamente assimilata dall’iniziativa politica delle comunità rurali. Tale iniziativa, oltre che muoversi sul terreno dell’azione concreta, tese pure a tratteggiare i contorni di una «costituzione immaginaria» che, usata come arma rivendicativa, poteva spostare gli equilibri di forza tra i diversi protagonisti dell’interazione politica a vantaggio dei corpi territoriali.

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