La mediazione giudiziaria dei conflitti sociali alla fine del medioevo: tribunali ecclesiastici e resistenza comunitaria in Valtellina

pubblicato in Criminalità e giustizia in Germania e in Italia. Pratiche giudiziarie e linguaggi giuridici tra tardo medioevo ed età moderna, a cura di M. BELLABARBA, G. SCHWERHOFF, A. ZORZI, Bologna–Berlin, Il Mulino–Duncker & Humblot, 2001 (Istituto trentino di cultura. Annali dell’Istituto storico italo–germanico in Trento. Contributi/Beiträge, 11), pp. 135–171

INDICE

  1. Fra un tribunale diocesano ed altre opzioni
  2. Le molte opzioni della giustizia ecclesiastica
  3. L’iniziativa comunitaria
  4. Processo e pratiche alternative nella resistenza comunitaria
  5. Considerazioni conclusive

PRESENTAZIONE – English version

Dall’inizio del XV secolo il tribunale vescovile di Como si diede una nuova organizzazione: su una serie di questioni prima risolte in genere tramite arbitrato o intervento di giusdicenti civili, si affermò la competenza del vicario episcopale. A ricadere sotto la sua cognitio, oltre alle vertenze in cui fossero coinvolti ecclesiastici, furono anche tutte le cause che avessero per oggetto i beni della mensa vescovile. A causa della densità di tali beni in Valtellina e il numero e il rilievo dei loro detentori (comuni rurali, nobili e signori), le ragioni di una delicatissima conflittualità «laica» che, a motivo di patrimoni o diritti contesi, contrapponeva gli aristocratici locali tra loro, i patrizi cittadini ai coltivatori, i comuni ai loro signori, i comuni agli altri comuni, poterono ora indirizzarsi anche verso il foro episcopale. Questo divenne uno dei luoghi cruciali del confronto tra gli attori sociali e della mediazione della conflittualità; al contempo l’affermazione di un officio giurisdizionale prima non operativo, offrì alle parti in lite una nuova e ulteriore opportunità da usare nel corso della contrapposizione.

Il tribunale episcopale, tuttavia, incapace di affermare un monopolio giurisdizionale, dovette convivere con tutti gli altri strumenti e sedi di conduzione e mediazione delle controversie (l’arbitrato laico o ecclesiastico, l’intervento del giusdicente civile, la transazione). Alla sentenza del giudice vescovile, poi, seguiva di norma il ricorso alle successive istanze della giustizia della Chiesa, assicurata dai delegati apostolici operanti in Lombardia e dai tribunali romani, moltiplicando ulteriormente le circostanze di confronto giudiziario.

Più vicende mostrano come la vertenza davanti al vicario vescovile trovasse una propria collocazione all’interno delle strategie di conflitto messe a punto dalla nobiltà valtellinese e dai comuni, che nel corso di alcuni prolungati scontri ricorsero a tutto il ventaglio di soluzioni disponibili: l’arbitrato e la violenza, l’appello direttamente al principe, il foro civile e, appunto, quello ecclesiastico, con i suoi diversi gradi di giudizio. In particolare, tre cause protrattesi fra la metà del Quattrocento e il primo Cinquecento, che videro alcune comunità (Grosio, Tresivio Monte e Piano, Fusine e Colorina) affrontare potenti famiglie aristocratiche (Quadrio e de Valleve), mostrano come il tribunale vescovile fosse divenuto, fra l’altro, uno dei luoghi specifici della protesta antisignorile. Evidentemente ben consigliati, capaci di muoversi con la consapevolezza e le astuzie necessarie nella macchina giudiziaria del tempo, gli homines si rivolsero con successo ai giudici ecclesiastici. Grazie anche alle sentenze di questi ultimi, infatti, riuscirono a strappare ai signori locali il controllo di risorse economiche essenziali: il possesso di alpi, i diritti di decima o di uso e commercializzazione dei prodotti del bosco.

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