Una vita e tre incontri: ricordando don Giovanni Rapella

Primo incontro

Quando mi è stato richiesto un contributo per ricordare don Giovanni Rapella, ho subito accarezzato il progetto di un articolo dal tono solenne e adeguato alla circostanza. Del tipo, tanto per chiarire, «Defunctus adhuc loquitur …». La classica commemorazione di un bravo sacerdote. Poi, invece, ho pensato al don Giovanni che ho conosciuto, alle sue conversazioni, alla sua bonomia, alla sua amicizia. E allora ho cambiato registro. Ho deciso di rimestare nella pentola dei ricordi raccontandolo come l’imprevedibile avventura che è la vita me lo aveva fatto conoscere.

***

A dire il vero, la grande avventura aveva avuto inizio proprio cinquant’anni fa, a Como, nell’ottobre del 1961, in una splendida giornata di sole. Era uno dei primi giorni di quel mese autunnale, quando – un po’ frastornato – un ragazzino di undici anni, superata una piccola portineria, entrava sotto gli austeri portici del Seminario minore di Sant’Abbondio. Faceva il suo ingresso in un luogo, dove, da più di un secolo, tra antichi muri legati a una millenaria basilica, venivano forgiati, in modo spartano, i futuri sacerdoti della diocesi comense. Nei primi anni Sessanta del secolo scorso, il vecchio Sant’Abbondio ospitava ancora circa centocinquanta seminaristi, che frequentavano cinque classi scolastiche: dalla Prima Media alla Quinta Ginnasio.

Gini Giovanni

[foto 1. Almeno nei primi anni Sessanta, la veste talare bisognava indossarla anche quando si facevano lunghe escursioni sulle montagne e sui pascoli nelle vicinanze di Arnoga, dove c’era la casa estiva per i seminaristi di Como. Si restava ad Arnoga per un mese intero. Nella foto un seminarista nato nel 1950, Gini Giovanni di Villa di Chiavenna]

Ma torniamo al ragazzino undicenne. L’abbiamo lasciato all’ingresso del chiostro imponente, dove già si trovavano numerosi giovani in veste talare. Lui, invece, nuovo arrivato, era ancora “in borghese”; indossava, comunque, i pantaloni regolamentari (quelli alla zuava). Intanto, con i due giovani ed emozionati genitori – il papà Ettore aveva soltanto 35 anni e la mamma Doris 33 – era stato subito accompagnato nell’ufficio del Rettore, Eugenio Fontana, un sacerdote dai folti capelli bianchissimi, che lo accolse con un sorriso, ma che lo invitò perentorio a voler indossare senza indugio la veste talare.

cortile del Seminario minore di Sant’Abbondio. La classe V ginnasio

[foto 2. In un grande cortile del Seminario minore di Sant’Abbondio. La V ginnasio, nell’anno scolastico 1965–1966. Tra di loro, almeno sette futuri sacerdoti. Nel gruppo centrale (quello che si affolla attorno al rettore monsignor Eugenio Fontana, il sacerdote dai capelli bianchi) il quinto da sinistra è Giovanni Quadrio, il sesto è Ezio Viganò, mentre il settimo è Piero Piazzoli. Subito dopo il rettore c’è Eugenio Sertorelli. Sempre continuando verso destra, il terzo è Sergio Bradanini (futuro missionario del PIME, da molti anni in Brasile), il quinto è Lorenzo Falcinella. All’estrema destra, il severo vicerettore, don Mario Giana. Invece il primo a sinistra nel gruppo più in alto è Annino Ronchini. L’anno successivo il Seminario verrà completamente abbandonato]

Cominciava in questo modo, per quel ragazzo, un periodo fondamentale della sua vita. Avrebbe trascorso, in quel severo edificio, in quel microcosmo, cinque anni ricchi di preghiera, di studio e di gioco. Ogni istante della giornata era ritmato da qualcosa da fare o da meditare; il tempo veniva sempre occupato, non erano previsti tempi “morti”. Gli studi richiedevano un impegno costante ed assiduo: quanti esercizi da fare, quanti temi da svolgere, quanti “esperimenti” (i compiti in classe) da consegnare. Ma, nello stesso tempo, che insegnanti eccezionali! Alcuni – ancora a distanza di cinquant’anni – restano indimenticabili: don Luigi Corti e don Pierino Robustelli per le materie letterarie; e lo straordinario Giambattista Cossali per la lingua francese. I programmi settimanali, poi, prevedevano una lunga passeggiata al lunedì e al giovedì pomeriggio. Si usciva dal seminario, classe dopo classe, in fila per tre, accompagnati dal prefetto e dal viceprefetto, con il cappello da viaggio (un cappello nero, con un’ala rotonda tutt’intorno). Un seminarista di cappelli ne aveva due a disposizione. Quello da viaggio e quello più solenne “per andare in duomo” (infatti si indossava solo quando ci si recava in cattedrale). Quest’ultimo era il classico tricorno con il fiocco. E quanto giocare: dalle infinite partite al pallone alle gare di pallavolo (il vecchio seminario aveva, per questo, gli spazi adeguati) e le tante battaglie a cerbottane o ai “numeri” (ma questi ultimi due giochi venivano riservati ad alcune uscite in passeggiata, spesso nei dintorni del Baradello, oppure ad Arnoga, nelle vacanze estive). Ma osserviamo ancor più da vicino questo mondo. Era regolato come un orologio di gran marca e disponeva di una precisa organizzazione. Senza esagerare, la struttura gerarchica interna presentava molte analogie con quella di un’accademia militare. All’apice si trovava il Rettore (il generale); subito dopo veniva il Vicerettore (il colonnello), una figura fondamentale, quella che più incombeva sulla vita quotidiana dei seminaristi. Accanto a lui seguivano, nell’ordine, il Ministro (il maggiore) e i Professori (gli ufficiali superiori). Sui gradini più bassi stavano i Prefetti (i capitani) e i Viceprefetti (i sottotenenti). In una nuvola a parte, c’era il Padre Spirituale (il cappellano militare). Se si escludono i prefetti (che venivano reclutati tra i chierici che frequentavano i primi anni della Teologia e che, quindi, erano prossimi al sacerdozio) e i viceprefetti (che venivano scelti tra i seminaristi della Quinta Ginnasio) tutti erano dei sacerdoti.

cortile del Seminario minore di Sant’Abbondio. La classe IV ginnasio

[foto 3. In un cortile del Seminario minore di Sant’Abbondio. La classe IV ginnasio, nell’anno scolastico 1965–1966. Tra questi quindicenni una decina diventeranno sacerdoti. Ne posso citare qualcuno: nella prima fila in basso, il secondo da destra è Augusto Bormolini; nel folto gruppo centrale (partendo da sinistra) il secondo è Marco Folladori, il quarto Riccardo Pensa, il settimo Battista Rinaldi, il nono è il prefetto Sergio Lanza, al tredicesimo posto (accanto a monsignor Eugenio Fontana, il rettore) troviamo Mario Giovanni Simonelli. Partendo dal rettore – e continuando verso destra – il secondo è Andrea Salandi, mentre il terzo è Rinaldo Valpolini. Nell’ultimo gruppo, in alto, proprio sotto la statua della Madonna di Lourdes, si riconoscono a sinistra Silvio Bernasconi e a destra Roberto Vaccani… Il loro viceprefetto, autore di questo articolo, è assente nella foto. E’ tornato tra i suoi compagni di V ginnasio per essere presente nella foto della sua classe].

Il Seminario aveva, naturalmente, i suoi riti e le sue regole. Ogni seminarista, ad esempio, aveva in dotazione un Messalino (volumetto prezioso che permetteva di partecipare consapevolmente alla Santa Messa, stampato su due colonne, una in latino e l’altra – a fronte – in italiano) e un Liber Usualis (questo tutto in latino; permetteva di gorgheggiare in gregoriano sotto la guida del Vicerettore). Entrambi i volumi restavano depositati nel proprio spazio personale, in un banco della basilica di Sant’Abbondio; uno spazio che cambiava, come in un rito immutabile, a ogni inizio di anno scolastico. E le manichette? Quelle mezze maniche di stoffa nera, chiuse da due elastici, che si infilavano al momento dello studio e che permettevano di non rovinare le maniche della veste talare, la nera divisa dai tanti bottoni che si indossava dal momento in cui ci alzava al mattino a quello del riposo per la notte. Poi arrivò lo tsunami del Concilio ecumenico Vaticano II e, nel giro di pochi anni, addio messalino e Liber usualis, addio Latino lingua onnipresente, addio veste talare per i seminaristi. Intanto, perfino il vecchio edificio del Seminario di Sant’Abbondio, in Via Regina 37, stava rivelandosi vistosamente acciaccato. Venne deciso di non restaurarlo, ma di costruirne uno nuovo di zecca sul colle di Muggiò, alla periferia di Como.

seminaristi di IV ginnasio

[foto 4. Aprile 1965. Un gruppo di seminaristi di IV ginnasio, sul colle di Muggiò, davanti al nuovo seminario minore in costruzione. Hanno tra le mani il cappello da viaggio. Tra loro, almeno cinque futuri sacerdoti: si riconoscono l’attuale parroco di Buglio, il cappellano dell’Ospedale di Sondrio, un antico arciprete di Gravedona… almeno tre futuri medici, un futuro bibliotecario…]

Questa scelta determinò la sua triste chiusura definitiva, al termine dell’anno scolastico 1965–1966. Ebbene, è proprio in quel mondo (che adesso stava tramontando velocemente) che don Giovanni Rapella aveva mosso i primi passi verso il sacerdozio, partendo dalla I Media. E proprio grazie a quel luogo è avvenuto il primo incontro con lui. Ma andiamo per gradi. In seminario, tra le materie di studio, aveva un posto d’onore la musica sacra. Il professore di musica aveva tra i suoi compiti quello di selezionare alcuni seminaristi, per formare un coro che avrebbe cantato in cattedrale a Como, in occasione delle grandi solennità. Alla prova della voce, il ragazzino – di cui abbiamo parlato all’inizio di questo racconto – era stato scelto fra i contralti. Dovette imparare, tra l’altro, l’Adeste Fideles e un canto di cui nel ricordo restano solo la melodia e alcuni brandelli: «O gran Dio forze possenti … chi solea dar legge ai venti entro un speco ascoso sta». Si avvicinava il Natale. Il gruppetto dei cantori del seminario minore si trovò a provare i canti a più voci con i colleghi più grandi, i chierici del seminario maggiore. Le prove avvenivano nella cantoria del Duomo, dietro l’altar maggiore, sotto la direzione di Luigi Picchi, un omino magro, nervoso, dalla folta capigliatura bianca. Soltanto molti anni più tardi il ragazzino scoprì che Luigi Picchi era anche un musicista eccezionale. Intanto sperimentò che non ammetteva sbagli e che pretendeva un’esecuzione perfetta. Ecco, durante una di queste prove, nel mese di dicembre del 1961, il seminarista undicenne – proveniente da un paesino della Bassa Valtellina – incontrò per la prima volta Giovanni Rapella. Un simpatico chierico di Terza Teologia, dallo sguardo buono, ormai alla conclusione del suo percorso per diventare sacerdote. Qualcuno gli disse, durante la pausa tra una prova e l’altra, che il chierico Rapella era di Morbegno. Il seminarista alle prime armi (a Como da neppure tre mesi) e il chierico si salutarono cordialmente. E questo fu il primo incontro con Giovanni Rapella; un episodio lontano ma nitido nella memoria.



precedente precedente | torna sutorna su | successivo successivo