4. Conclusioni

Lungo l’arco cronologico compreso tra l’inizio del Trecento e l’inizio del Cinquecento si è seguita la trasformazione del comune rurale da realtà relativamente indistinta, in grado di offrire un quadro identitario forte, ma esclusivo e, in ultima istanza, semplice – lo status di vicino – a sintesi complessa di altre identità, e dunque a dimensione sociale variegata e accuratamente differenziata al suo interno. Venne meno, infatti, l’enfasi originaria sulla parità e indistinguibilità delle condizioni dei membri del comune; per contro fu riconosciuta loro l’appartenenza a un ceto, la discendenza da un lignaggio, la residenza in uno dei villaggi che punteggiavano il territorio comunale, il prestigio individuale. Si dovette nel frattempo cercare una composizione tra opposte esigenze e aspirazioni: il riconoscimento delle singole unità insediative, delle parentele, degli ordini e la loro integrazione istituzionale; la gratificazione per la reputazione dei singoli e il concorso ideale di tutti i membri del comune alla vita pubblica.

I notai furono incaricati, tra le altre cose, di riconoscere la pluralità dei soggetti politici e sociali e di immaginarne la compatibilità; essi adempirono al loro compito con le forme, mutevoli nel tempo e di località in località, dei loro documenti, in quanto testi e prodotti grafici. È diffusa senz’altro l’esigenza di non restringere la categoria di linguaggio a quella di testo e di includere a pieno titolo le fonti iconografiche fra i documenti della storia sociale e politica, è viva l’attenzione al peculiare nesso fra immagine e scrittura che si stabilisce nei codici; raramente, però, si considera in che misura anche la pagina scritta da un notaio è a sua volta un’immagine che richiede di essere guardata. Grazie a questa prospettiva si sono identificate nelle imbreviature delle mappe schematiche delle comunità rurali, ma, se è valido il paragone proposto con le tecniche di organizzazione del sapere medievale, si potrebbe dire delle enciclopedie dei rapporti sociali e istituzionali all’interno delle comunità stesse e del territorio, che hanno consentito di illustrare e ricordare progetti di convivenza a volte mai elaborati esplicitamente in altri modi (nella forma del trattato, dello statuto o della cronaca).

Tale lettura, naturalmente, ha richiesto alcune cautele di ordine più generale. In primo luogo ho ricostruito il rapporto fra i notai e le comunità (o fra il bagaglio di strumenti tecnici di cui si avvalevano i primi e le esigenze che prospettavano loro le società locali) in termini di interazione circolare, piuttosto che di condizionamento unilaterale. Inoltre ho evitato di assumere l’ipotesi di una cultura locale immobile e monolitica. I notai non paiono, allora, i filtri passivi di un’opinione locale, né coloro che hanno calato su di essa le griglie mentali che i ferri del loro mestiere (la lista e la graffa, la possibilità di stabilire precedenze fra i nomi, di marginalizzarli nello spazio grafico) potevano offrire ad un progetto tassonomico. Sono piuttosto gli interpreti autorizzati della comunità che negoziavano il loro punto di vista con le varie componenti di quest’ultima. Quindi, poiché i rapporti fra i membri delle comunità mutavano nel tempo e non sempre erano intesi dagli stessi protagonisti in modo concorde, le rappresentazioni che essi proponevano risultano assai disomogenee: vengono aggiornate nel tempo, tradiscono incertezze, a volte si contrappongono apertamente le une alle altre, pur riferendosi alla stessa località.

D’altra parte, è altrettanto importante domandarsi se dalle sperimentazioni dei notai emerga un modello più generale, astraibile dai singoli casi in cui la massima evidenza grafica era conferita all’uno o all’altro dei segmenti sociali del comune rurale o dei soggetti costituenti le federazioni. Ho ritenuto, in effetti, che un tale modello potesse essere identificato nell’ideale corporativo della pluralità nell’unità e dell’armonia nella gerarchia, uno dei concetti centrali del pensiero politico e giuridico del basso medioevo. Questo ideale rappresentava la comunità come una sintesi di parti a loro volta dotate di una fisionomia propria, un’unità nella distinzione dei compiti di ciascuna componente e nella riconosciuta diversità del ruolo di ogni individuo.

Tuttavia penso che sovrapporre rigidamente il paradigma elaborato nei termini più generali ai documenti notarili cui sono dedicate le pagine precedenti potrebbe sortire effetti fuorvianti; per questo ho deciso di discutere la loro possibile identità solo alla fine del mio percorso analitico. Questo non per mantenere una rigida dicotomia tra cultura «alta» e cultura «popolare» (definizioni e polarità che oggi, si diceva, hanno esaurito la forza euristica che avevano alcuni decenni fa), né tra elaborazione filosofica e pratica politica e sociale (§ 1). Piuttosto, era cruciale scongiurare il rischio di produrre l’ipostasi meta–temporale e meta–locale di una «comunità medievale ideale» e di cercarne poi le conferme locali, quasi fossero semplici applicazioni di un modello di convivenza che si diffondeva dall’alto verso il basso. È possibile però riconoscere l’intesa di fondo fra i valori esemplari elaborati in luoghi almeno a prima vista così distanti fra loro – i vertici della speculazione giuridica e filosofica europea e una periferia rurale dell’Italia dei comuni urbani e degli stati territoriali –, nonché la ricchezza di declinazioni possibili di un ideale, a patto di non adottare una versione semplificata di quell’ideale e di riconoscere la varietà dei contributi offerti alla sua messa a punto.

A stimolare la meditazione sui paradigmi organistici sono infatti fenomeni di vasta portata nell’Italia basso–medievale: la corporativizzazione delle società urbane e rurali; le nuove definizioni dell’eccellenza sociale, in città e, tema assai poco esplorato, nelle campagne, dove pure vi erano significativi settori della popolazione che si volevano, in vari modi, «nobiles»; il rapporto fra tale condizione e l’esercizio delle arti meccaniche; l’organizzazione del territorio allorché la polarità fra la città e il contado, come capo e membra, fu rimessa in discussione dalla loro inclusione nei domini di scala regionale. Le zone che si sono considerate – i loro abitanti, le loro istituzioni –, pur partecipando di questo dibattito, non si limitarono ad accogliere quanto elaborato da lontani centri di pensiero, accademici, cortigiani o urbani, e furono invece uno dei molti ambiti in cui, con impegno tenace e capillare, si costruirono modelli di convivenza adeguati alle esigenze locali.

Per questo ritengo sia stato utile mettere in rilievo il ruolo attivo dei notai che, nella loro qualità di professionisti tardo–medievali della riflessione sulla società, rischiano di essere schiacciati dall’attenzione riservata ai maestri degli studia o ai predicatori. E ricostruire la meditazione sulla convivenza che essi elaborarono nel dialogo con i membri delle comunità e affidarono – invece che ai trattati – ai documenti, alle liste, alle graffe ed altri segni grafici, oltre che alle parole del loro latino. La creatività dei notai o di quanti suggerirono loro le forme in cui intendere le comunità produsse infatti una pluralità di immagini e un significativo numero di variazioni su quello che pure può essere riconosciuto come un unico paradigma. Soprattutto, il valore politico e sociale della composizione delle parti in un tutto rispettoso delle loro articolazioni, fu un punto d’equilibrio molto sofferto. In primo luogo, in determinate epoche e in particolari località, fu formulata un’opzione radicale a favore della rappresentazione del tutto comunitario come omogeneo, senza riservare alcun interesse a rilevare le sue tensioni interne e la sua stratificazione. In altre circostanze la trama delle componenti della comunità fu lasciata ora in maggiore ora in minore evidenza, fino all’opzione opposta a quella appena illustrata, di sacrificare l’insieme alla visibilità delle parti. Inoltre, la determinazione delle parti (ceti, parentele, contrade) è parsa molto libera e soprattutto assai variamente specificata di luogo in luogo, per ragioni intrinsecamente legate alle singolari esperienze di convivenza.

Anche l’incontro tra gerarchia, unità della comunità e sua articolazione in corpi non fu mai scontato: in alcuni momenti o circostanze si volle produrre l’immagine di una collettività non solcata da nessuna significativa discontinuità sociale. Talvolta si ritenne che la comunità dovesse essere pensata in primo luogo come un mosaico di unità minori (parentele e contrade) e solo all’interno di queste potesse essere riconosciuta una precedenza individuale, quasi che la reputazione fosse una risorsa immateriale spendibile in primo luogo tra agnati e vicini, che non consentiva di astrarre da quegli ambiti un vertice unificato della società locale. Altre volte si pensò, invece, che il principio gerarchico potesse calare sulla comunità nel suo complesso un’unica graduatoria del prestigio, che la ordinava dal vertice alla base, se necessario scardinando i quadri intermedi. Questi modelli operarono in modo competitivo: ad esempio la produzione simbolica di tale vertice gerarchico poté segnare in alcune situazioni la repentina rinuncia all’articolazione dei gruppi corporati sub–comunali, anche dove la loro identificazione era stata a lungo un fattore cruciale della coscienza civile.

Insomma l’equilibrio tra il tutto e le parti, tra la posizione individuale e l’appartenenza collettiva, anche in una medesima località, non poté mai divenire un’acquisizione definitiva: esso fu alterato dal mutamento sociale, dalle ambizioni individuali e di gruppo, dalla circolazione di modelli, come quello gerarchico, che potevano indicare a determinati segmenti della comunità nuove forme di riconoscimento pubblico cui ambire. L’aspirazione a quell’equilibrio non fu per questo abbandonata, ma ogni volta dovette essere ricercato o discusso il nuovo punto in cui situarlo.

Tutto ciò non significa, però, che lo studio delle culture locali possa limitarsi ai loro contesti più immediati e alle circostanze contingenti della loro produzione. In primo luogo si sono identificati fenomeni di elaborazione e precisazione delle differenze sociali e politiche nel dialogo fra le varie società locali. Nel momento in cui adotta un approccio comparativo, lo storico rileva le peculiarità di ciascuna configurazione ed enfatizza la diversità fra una configurazione e l’altra, astraendo gli elementi di peculiarità e diversità dalle pratiche sociali e istituzionali o dalle auto–rappresentazioni proposte dagli attori. Resta però il problema se tali elementi si rendano intelligibili solo nella prospettiva del ricercatore odierno, dunque a posteriori e dall’esterno, o siano stati meditati ed elaborati consapevolmente anche dagli uomini del tempo. Ora, proprio la mobilità professionale dei notai, la varietà dei loro clienti e dunque l’estesa conoscenza di luoghi e situazioni maturata delineano una delle esperienze potenzialmente più propizie alla percezione della diversità sociale e politica, soprattutto nelle realtà e nei periodi qui studiati, non documentati altrimenti da relazioni di viaggio, ampie descrizioni del territorio a fini di controllo politico, inchieste e via dicendo. Significativamente, il medesimo notaio spesso rappresentò coscientemente i soggetti istituzionali, pure di uguale rango e di identico profilo giuridico che si presentarono al suo sguardo, insistendo sulle loro particolarità, modulando i suoi schemi grafici, utili ad illustrare le peculiarità locali e al contempo a renderle comunicabili e confrontabili.

Infine l’analisi interna del linguaggio grafico dei documenti considerati ha posto in rapporto i diversi piani e le varie sedi dell’elaborazione culturale nell’Europa del tempo, con le rispettive cronologie, delineando un contesto largo per la tradizione notarile e i lessici politici dell’area. Forse non si può non rilevare il ritardo con cui tale documentazione assunse i sistemi più innovativi di disposizione del testo, adottati specialmente nel libro universitario per meglio meditare e ricordare tramite la pagina e la sua architettura, cui era rimasta impermeabile per larga parte del Trecento. Allo stesso modo, non intendo porre sullo stesso piano gli esiti della ricerca estetica in un manoscritto miniato e in un quaderno di imbreviature. D’altro canto appare degno di nota come la pratica notarile dell’alta Lombardia abbia partecipato di alcuni dei principali mutamenti intervenuti nel campo della comunicazione scritta nel medioevo e condiviso determinate tecniche di quella visiva. La precedenza e la dimensione accresciuta dei nomi degli uomini di maggiore prestigio trasponevano sulla pagina modalità di rappresentazione della gerarchia proprie delle arti figurative. L’integrazione di più livelli informativi accessibili alla vista, con l’articolazione analitica del testo in capitoli e paragrafi, la compenetrazione fra testo stesso e schemi diagrammatici (anch’essi, peraltro, cruciali risorse espressive delle opere pittoriche) che ne sorreggono l’argomentazione, sono soluzioni diffusesi, dopo una più o meno lunga sperimentazione, con le epocali trasformazioni del lavoro intellettuale del XII secolo. La lista fu introdotta nei documenti dei governi delle città italiane nel Duecento, ai fini di controllo politico, economico e sociale. Anche dalle nuove tecniche basso–medievali di calcolo, che si affermarono in Italia ancora nel Duecento, venne un contributo rilevante ad una concezione tabulare del testo.

Tali fenomeni, anzi, suggeriscono un approccio alla storia sociale e culturale che eviti le scansioni derivate da facili qualifiche di anacronismo e innovatività attribuite ai suoi oggetti. Quelli che una prospettiva evoluzionistica identificherebbe senz’altro come progressi della razionalità (l’organizzazione schematica della pagina, collegata pure alle attitudini di pensiero indotte dall’introduzione delle cifre indo–arabe e al calcolo posizionale), infatti, contribuirono a rendere visibili e politicamente rilevanti entro il comune rurale le micro–solidarietà vicinali e consanguinee, spesso per contro liquidate come arcaismi. L’indagine qui condotta mostra invece come proprio il ruolo pubblico assunto dalla contrada e dalla parentela, non a caso emerso con forza solo verso la fine del XIV secolo, fu, tra l’altro, il prodotto della potenza analitica di una nuova visione del sociale e al contempo lo stimolo per una messa a fuoco concettualmente più nitida dei soggetti collettivi.

Fu insomma l’originale lavoro di ricerca sviluppatosi su scala continentale e indirizzato nelle direzioni più diverse, che si è cercato di tenere presente come sfondo, a mettere a disposizione i segni e le tecniche con cui nell’alta Lombardia, fra XIV e XVI secolo, si espresse un originale dibattito circa l’ordine gerarchico, le relazioni fra individui e collettività. Con gli apporti che offrirono la tradizione diagrammatica, la struttura del testo universitario, l’iconografia e la matematica degli ultimi secoli del medioevo si costituì il codice che consentì, nelle pagine dei notai, di riflettere sul vincolo sociale, pensare la funzione delle magistrature elettive e la natura di soggetti come la parentela o la comunità, e, in particolare fra Quattro e Cinquecento, di sezionare l’unità istituzionale e al contempo ricongiungerne la parti in modi inconcepibili dalle logiche sostanzialmente orali della locale scrittura pubblica trecentesca.


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