Gli individui, quando interagiscano fra loro, operano sulla scena politica, assumono responsabilità istituzionali, accompagnano costantemente la loro attività pratica con un’implicita o esplicita interpretazione della realtà e della propria posizione, che implica un impegnativo ricorso a modelli culturali. Da una parte, dunque, le esperienze della convivenza, dalla solidarietà al conflitto, come i rapporti tra gli individui e i gruppi che li includono (un ceto o una comunità territoriale), sono inconcepibili senza considerare le rappresentazioni dei soggetti collettivi e delle identità personali, che in qualche misura possono venire tramandate nel tempo e guidare i comportamenti contingenti. D’altra parte, però, trasformazioni sociali più o meno repentine e traumatiche sfidano spesso la capacità di coloro che ne vengono investiti di attribuire senso al vivere in comunità, suggerendo loro l’abbandono o la modifica di tali immagini ideali [1].
Storici noti, basti ricordare Georges Duby o Otto G. Oexle, recentemente discusso anche in Italia, hanno invitato a ricomprendere questi temi nella ricostruzione storica del passato [2]. La fortuna conosciuta dagli anni Ottanta dello scorso secolo ad oggi dagli studi sui «linguaggi» ha offerto un ulteriore stimolo in tal senso. Eppure pochi anni or sono Giuseppe Petralia rilevava come per l’Italia, nel periodo compreso fra il 1350 e il 1550, l’esplorazione delle griglie interpretative del ‘politico’ e del ‘sociale’ fosse ancora da realizzare, appena ci si allontanasse dai «livelli più alti della cultura letteraria e artistica» [3]. La situazione degli studi non è rimasta immobile nel frattempo; se tuttavia possiamo registrare un avanzamento nell’identificazione di alcuni linguaggi economici e politici di largo successo nell’Italia tardo–medievale e delle circostanze del loro uso [4], resta ancora largamente inesplorato un altro ambito, quello dei più sfuggenti, mobili e frastagliati strumenti intellettuali della classificazione sociale e della tassonomia politica locale. Lo stesso Duby, del resto, come emerge dalla ricostruzione che egli stesso fornì del proprio itinerario di ricerca, era pessimista circa la possibilità di analizzare, almeno per i secoli centrali del medioevo, i modelli culturali immanenti all’azione sociale di soggetti diversi dai membri dell’aristocrazia laica ed ecclesiastica [5].
In questa direzione non si è spinta nemmeno l’esperienza di ricerca che più ha inteso accostarsi alla concretezza dei comportamenti sociali e alla scala locale della progettualità politica, la microstoria. Edoardo Grendi ha in effetti espresso interesse per l’«identità collettiva» e la «coscienza di appartenenza» [6], Angelo Torre per l’«appartenenza politica» e l’«identità politica» locale [7]. Rispetto a queste aperture, però, sono parse alla fine prevalenti le ragioni di una polemica, spesso ripresa, nei confronti degli approcci culturalistici. Trovo condivisibile, in effetti, l’esigenza di non calare sui rapporti sociali e politici il condizionamento unilaterale e normativo di «schemi mentali» concordemente condivisi e dati una volta per tutte, di «mentalità» trasmesse sul lungo periodo nella loro coerenza non scalfibile. Non credo, però, che tale prudenza debba impedire di sviluppare gli spunti di cui ho riferito in una pratica di storia locale che includa programmaticamente nel proprio campo lo studio dei paradigmi di classificazione, ordinamento, comprensione e comunicazione della realtà sociale, delle relazioni interpersonali o degli spazi politici. Naturalmente queste posizioni sono state articolate da una pluralità di voci non unanimi, nel corso di una discussione tutt’altro che esaurita [8]. Mi sembra significativo, però, che pure la proposta di indagine sulla «produzione storica dei luoghi» elaborata più di recente abbia scelto di non tematizzare, in sostanza, il possibile «senso» attribuito ai luoghi da chi li abitava o attraversava, elaborato cioè da residenti e migranti, nei linguaggi testuali, figurativi, rituali dell’età medievale e moderna [9].
Ha nuociuto allo sviluppo dell’indagine anche lo spegnersi dell’interesse per la «cultura popolare». Tale nozione, condivisibilmente, nell’ultimo ventennio è apparsa sempre più inadeguata: la contrapposizione frontale fra una cultura subalterna e i programmi autoritari delle élites e dei maggiori centri di potere generava una serie di dicotomie (oralità/scrittura, irrazionalismo/razionalismo, arcaico/moderno, persistenza/innovazione e via dicendo) che non hanno retto alla verifica empirica; il ventaglio degli esiti di tale dialettica (sconfitta, resistenza, assimilazione) è a sua volta risultato, con il progredire delle ricerche, troppo povero [10]. Vedremo proprio in queste pagine come una cultura politica che due o tre decenni fa si sarebbe forse detta «popolare» – elaborata in piccole e medie comunità di un’area periferica – sapesse continuamente rinnovarsi ed elaborasse, per il tramite della scrittura, interpretazioni dei fenomeni associativi in stretta simbiosi con i modelli della cultura «alta». Tutto ciò, però, non significa che si sia esaurito il problema di indagare l’impegno intellettuale profuso nel passato anche nel più piccolo villaggio di montagna per elaborare paradigmi adeguati a comprendere o trasformare le esperienze di vita sociale che vi si conducevano, magari con significativi margini di autonomia o scarti sensibili rispetto alla contemporanea produzione accademica o cortigiana.
Per tutte queste ragioni ritengo che oggi sia auspicabile arricchire le nostre conoscenze in questo campo, forzando la drastica selezione dei temi e dei protagonisti che opera la storia delle idee e allargando sistematicamente l’analisi oltre il recinto delle élites politiche e culturali. Il presente studio è, appunto, un tentativo di far riemergere alla consapevolezza storica la discussione, di inaspettata ricchezza, che interessò la fisionomia delle comunità rurali e più in generale la vita associativa in alcune aree del Comasco e delle valli alpine lombarde nei secoli XIV–XVI.
Ora, chi affronti una ricerca di storia della società e delle istituzioni rurali nel tardo medioevo, con l’obiettivo di far ricadere entro il proprio campo d’indagine le forme di classificazione sociale dibattute dagli uomini del tempo (e in qualche rara circostanza, vedremo, non pare impossibile identificare anche il contributo delle donne e dei giovani), nonché i codici attraverso i quali furono pensati i rapporti politici, non può certo dare per scontata in partenza una capillare e larga condivisione degli esiti della riflessione giuridica, filosofica o teologica su questi temi. Quando, tuttavia, cerchi di accostarsi alle forme della progettualità politica, sociale e culturale proprie di specifici contesti locali, può avvertire come poco incoraggiante il panorama documentario di cui dispone. Spesso è suscettibile di essere indagata in profondità la pratica rituale (le distribuzioni di cibo, le cerimonie religiose), sulla cui rilevanza ai fini di uno studio delle rappresentazioni del territorio e dell’appartenenza locale mi sono già soffermato [11]. Alle definizioni di un ideale dei rapporti sociali e di potere concorrevano certamente anche l’architettura civile, l’edilizia pubblica, i dipinti; si tratta, però, di aspetti documentati spesso con discontinuità e lacune, che non sempre consentirebbero le analisi che è stato possibile condurre per il mondo cittadino. In più, per molte aree mancano cronache coeve o si conservano solo testi molto scarni, che esplicitamente o implicitamente con il loro linguaggio, la loro selezione dei fatti e dei protagonisti propongano un’interpretazione dei fenomeni contemporanei. Gli statuti costituiscono una proposta normativa di ideali per la convivenza di grande interesse, ma restano una fonte altamente problematica: erano spesso ripresi da una località all’altra e, in una stessa località, in misura notevole riproposti nel corso del tempo; inoltre per molti centri del contado non ci è pervenuto nessun testo risalente al medioevo [12]. In questa sede, pertanto, tenterò di battere un’altra strada, esplorando le potenzialità dei caratteri estrinseci delle fonti scritte, prestando cioè attenzione non agli elementi testuali, ma all’impostazione grafica di una specifica tipologia documentaria, i verbali delle assemblee delle comunità.
In anni recenti sono cresciuti l’interesse per i processi documentari e la consapevolezza che la ricerca storica non può limitarsi a impiegare le proprie fonti solo come testi che contengono informazioni utili sulle realtà indagate. I documenti interessano sempre più la medievistica e la modernistica nella loro totalità di prodotti scrittori: senz’altro per il loro tenore, ma anche per le pratiche della produzione e della conservazione selettiva, la struttura, il linguaggio formulare e per i caratteri estrinseci, dove si depositano consapevolezze e intenzioni dei soggetti produttori [13]. Meritano di essere collocate a pieno titolo fra questi motivi di attenzione anche le soluzioni grafiche dei documenti, le scelte operate coscientemente dallo scrittore tra un ampio ventaglio di segni e di possibilità di disporre quei segni sulla pagina o su qualsiasi altro spazio destinato alla scrittura [14].
La giusta enfasi sulla rilevanza delle fonti iconografiche, insomma, non deve condurre a meccaniche contrapposizioni tra documenti «visuali» e documenti scritti, che impedirebbero di riconoscere in quale misura anche gli atti che di solito leggiamo richiedano pure di essere guardati. Né pare opportuno riservare tali attenzioni ad un numero assai limitato di prodotti scrittori «illustri», come i codici miniati. La vita pubblica di una comunità, ciò di cui qui ci si occupa, costituiva difatti anche una ricca esperienza sensoriale: codificata da norme scritte e certificata da documenti leggibili, coinvolgeva però anche l’udito, la posizione del corpo e i rapporti fra i corpi. La campana chiamava gli uomini ad intervenire collettivamente contro un pericolo, un atto di violenza o il turbamento della pace, significativamente definito «rumor»; ancora, li convocava nelle assemblee, in cui poi consiglieri e vicini avrebbero parlato ed ascoltato; sempre in assemblea, il linguaggio gestuale affiancava quello verbale, manifestando rispetto o scherno per la presidenza, disponibilità o indisponibilità verso gli altri intervenuti [15]. Anche la vista, ovviamente, non era implicata solo nella lettura, ma anche nel saper osservare una processione, apprezzare l’imponenza di un palazzo pubblico, identificare su una parete gli stemmi araldici degli ufficiali che avevano reso un servizio al comune o il ritratto infamante dei ribelli e dei traditori, leggervi una rappresentazione celebrativa del reggimento e del suo buon governo o del santo protettore del luogo [16]. Oggi a documentare molto di tutto ciò restano prevalentemente, anche se non esclusivamente, testi. È bene, allora, non impoverire l’accesso che i contemporanei avevano ad essi, e che interessava la vista in modi molteplici, tramite la lettura, ma anche la capacità di riconoscervi un’immagine o uno schema.
Una pratica di lettura delle fonti documentarie più aperta agli aspetti dell’organizzazione grafica mi pare in effetti già familiare agli studiosi dell’alto medioevo, in particolare a coloro che, come Gian Giacomo Fissore, hanno concentrato la loro attenzione sull’auto–rappresentazione del potere affidata ai codici formali della documentazione, mentre resta ancora troppo estranea alle procedure della ricerca condotta sul tardo medioevo [17].
Esaminerò in questa prospettiva, come accennavo, soprattutto i verbali delle assemblee delle comunità rurali, stesi nei registri di deliberazioni (nel solo caso dell’università di Valcamonica e del comune di Bormio) o conservati fra le imbreviature notarili e lì rubricati come instrumenta sindicatus, electio e così via. Solo in pochi casi allargherò il discorso ai proemi degli statuti, agli estimi e al carteggio indirizzato al duca di Milano. Oggetto specifico dell’indagine saranno gli elenchi degli appartenenti alla formazione politico–istituzionale che nella circostanza documentata convocava la propria assemblea o degli ufficiali cui fosse conferita una determinata incombenza, vale a dire l’ordine in cui i capifamiglia, i consiglieri o i sindaci delle comunità venivano menzionati, i modi in cui i loro nomi erano raggruppati o divisi sulla carta. Il notaio autore del documento poteva infatti disporli senza seguire alcun ordine, elencare in blocchi discontinui tra loro e compatti al loro interno quanti appartenevano ai diversi ceti, seguire una successione dettata dalla gerarchia dei titoli di prestigio individuale (dai magnifici, ai domini, ai ser, talvolta trovando un posto anche ai magistri, cioè agli artigiani, per finire con i vicini che non ne erano insigniti) o forse, in altri frangenti, dall’anzianità (elemento di cui non posso escludere il rilievo, ma che lo stato delle informazioni tramandate raramente consentirebbe di verificare), accostare chi portava lo stesso cognome o abitava nella stessa unità abitativa all’interno dei comuni rurali dall’assetto insediativo policentrico. L’organizzazione dello spazio di scrittura si prestava ad enfatizzare le scelte classificanti che il testo proponeva: un elenco molto denso, che allineava nomi e cognomi in modo continuo in poche righe, ribadiva la scarsa distinzione interna alla comunità che già la loro disposizione priva di un ordine determinato proponeva; una lista elegante e ben spaziata rendeva nitidamente leggibili i titoli di dignità che precedevano i nomi e aumentava l’evidenza della loro successione secondo un principio gerarchico [18]. La coesione interna e al contempo la separatezza tra loro dei blocchi dei nomi di quanti, entro uno stesso comune, portavano lo stesso cognome o abitavano lo stesso villaggio, potevano essere esaltate in varie forme: allineando in modo diverso dagli altri il nome del primo menzionato fra i membri di ogni parentela o di ogni contrada, lasciando una riga bianca o tracciando una linea obliqua nella colonna prima di passare ai membri di una diversa parentela o ai residenti di un’altra contrada. Tutto ciò agevolava l’individuazione dei gruppi di agnati o di co–residenti che già la disposizione in elenco proponeva come le unità costitutive del comune.
La scelta per una disposizione o per l’altra, per un inquadramento grafico dell’elenco o per l’altro non era casuale; era invece un momento di quell’elaborazione e messa alla prova di tassonomie sociali, di quella manifestazione e gerarchizzazione dei vincoli dell’appartenenza che per l’appunto mi propongo di far emergere in queste pagine. Le opzioni sono apparse puntualmente pertinenti alla complessiva configurazione sociale e politica locale, aggiornate nel tempo e variabili di luogo in luogo. Non per questo considererò tali documenti come il riflesso di una «struttura sociale» data ed evidente di per sé, riducendoli a un’inerte trascrizione sulla carta di indipendenti assetti «oggettivi». D’altra parte, non ne farò nemmeno gli «schemi mentali», anch’essi dati in partenza, che incanalano la fondazione immaginaria della realtà sociale, costituenti la specifica, immobile e condivisa cultura politica di una determinata località o di una certa area, e capaci pertanto di plasmare unilateralmente, entro calchi già costituiti, l’azione individuale e collettiva dei residenti. Queste prospettive opposte sono in realtà altrettanto unilaterali e incapaci di cogliere la ricca interazione, di natura circolare, tra le pratiche della convivenza e le forme notarili che le documentavano o più in generale i programmi culturali che tentavano di ordinarle e comprenderle. Gli atti che si considereranno erano invece delle «mappe di una realtà sociale problematica e matrici per la creazione di una coscienza collettiva», attraverso le quali interpretare, rinnovare, contestare i legami fra gli individui, nonché le relazioni fra gli individui, i gruppi e le istituzioni di cui registravano le azioni, dunque proposte di organizzazione e comunicazione della realtà politica e sociale, che si contrapponevano o si succedevano l’una all’altra [19]. Questa prospettiva ha richiesto di situare nello spazio e nel tempo i singoli documenti e di riferirli a notai individuati sotto il profilo professionale e sociale, precisando pure in modo circostanziato il loro rapporto con le comunità per le quali lavoravano, che poteva essere di relativa estraneità, consuetudine, dipendenza formalizzata e via dicendo [20]. Così intese e trattate, le imbreviature offrono un’opportunità preziosa per un’analisi contestuale dei filtri ideali dell’azione sociale e politica, perché più numerose di altri prodotti delle culture locali del tempo, sottoscritte da una persona identificabile, riferibili a comunità determinate e ad un momento precisato fino al dettaglio del giorno del mese.
Infine, questa opzione di lettura della documentazione ha orientato anche una costruzione particolare del testo. La prima esigenza era quella di proporre al lettore gli oggetti di un’indagine condotta su atti notarili, ma considerati analiticamente nella loro veste grafica. Inoltre, in considerazione della laboriosità del loro studio e la fatale dilatazione dell’apparato, non era opportuno che l’autore decidesse in anticipo a quale livello di approfondimento il lettore volesse spingere la sua verifica dell’interpretazione o la sua curiosità. Queste valutazioni mi hanno fatto percepire come inadeguate le sole note testuali, come pure una selezione, inevitabilmente molto ridotta, di alcune riproduzioni fotografiche a corredo di una pubblicazione su supporto cartaceo. Pertanto ho optato per la pubblicazione in formato digitale. Così ho potuto integrare nel saggio l’irrinunciabile livello informativo costituito dalle riproduzioni fotografiche, che riprendono a volte gli interi elenchi oggetto del presente lavoro, altre volte alcune loro sezioni significative. A tale scopo, lo strumento del collegamento ipertestuale delle immagini acquisite presentava i vantaggi di non interrompere la continuità dell’argomentazione, ma di consentirne un riscontro immediato, in base alle scelte del lettore. Non ho invece inteso rinunciare tout court alla struttura lineare del saggio, che pertanto presento in una duplice versione, l’una sequenziale, che si sviluppa con un andamento classico, dalla Premessa alle Conclusioni, l’altra modulare, invece accessibile in più punti, a seconda dell’interesse del lettore, da un indice particolareggiato, e percorribile, a partire da quei punti, seguendo i riferimenti a rete interni ai diversi paragrafi [21].
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[1] Ho discusso i risultati della ricerca, mentre era ancora in corso, negli interventi Rappresentare la comunità. Documento notarile, forme della convivenza, riflessione locale sulla vita associata nella montagna lombarda (secoli XIV–XVI), seminario tenuto presso il Dipartimento di storia dell’Università degli studi di Pisa, 9 marzo 2005; Un modello di organizzazione del territorio alternativo al dualismo città–contado: le federazioni rurali in Lombardia (secoli XIV–XVI), relazione all’incontro di studio Il comitatus e l’organizzazione del territorio nell’Italia centrosettentrionale (secoli IX–XVI), Pisa, 30 maggio – 1° giugno 2005. Ringrazio coloro che in quelle circostanze ne hanno discusso l’impostazione, in particolare Michele Luzzati, nonché Federico Del Tredici, Andrea Gamberini e Rita Pezzola che hanno letto criticamente il testo. La realizzazione tecnica dell’ipertesto è di Ugo Zecca.
In queste pagine, in particolare nel cap. 2, con l’eccezione del par. 2.7, ripropongo ed arricchisco l’analisi svolta in M. DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità. Comuni rurali, poteri locali, identità sociali e territoriali in Valtellina e nella montagna lombarda nel tardo medioevo, Milano 2006, con il decisivo supporto delle immagini che in tale sede editoriale non era stato possibile offrire. Il cap. 3, invece, pur riprendendo in parte gli stessi materiali, è dedicato ad una riflessione ulteriore, che in quella pubblicazione non aveva trovato posto, circa i codici espressivi e i modelli culturali di tali rappresentazioni, e il soggiacente dialogo intercorso fra comunità locali e notai. Rimando allo stesso testo per tutti gli elementi del quadro istituzionale e sociale dell’area che qui ho ripreso solo sommariamente.
[2] G. DUBY, Storia sociale e ideologie delle società, in Fare storia, a cura di J. LE GOFF, P. NORA, Torino 1981 [ed. or. Paris 1974], pp. 117–138; ID., Lo specchio del feudalesimo. Sacerdoti, guerrieri e lavoratori, Roma–Bari 19983 [ed. or. Paris 1978], pp. 8–14; O. G. OEXLE, Paradigmi del sociale. Adalberone di Laon e la società tripartita del Medioevo, Salerno 2000 [ed. or. 1978]. Cfr. E. I. MINEO, Di alcuni usi della nobiltà medievale, «Storica», VII, n. 20–21 (2001), pp. 9–58. V. già O. CAPITANI, Le istituzioni ecclesiastiche medievali: tra ideologia e metodologia. Appunti, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», XXX (1976), pp. 345–362, discusso anche da C. VIOLANTE, Le contraddizioni della storia. Dialogo con Cosimo Damiano Fonseca, Palermo 2002, pp. 88–92.
[3] G. PETRALIA, «Stato» e «moderno» in Italia e nel Rinascimento, «Storica», III, n. 8 (1997), pp. 7–48, p. 44.
[4] V. recentemente, G. TODESCHINI, I mercanti e il tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed Età Moderna, Bologna 2002; A. DE BENEDICTIS, Una guerra d’Italia, una resistenza di popolo. Bologna 1506, Bologna 2004; P. EVANGELISTI, I francescani e la costruzione di uno stato. Linguaggi politici, valori identitari, progetti di governo in area catalano–aragonese, Padova 2006, nonché gli itinerari di ricerca confluiti in Linguaggi e pratiche del potere. Genova e il Regno di Napoli tra Medioevo ed Età moderna, a cura di G. PETTI BALBI, G. VITOLO, Salerno 2007; Linguaggi politici nell’Italia del Rinascimento, a cura di A. GAMBERINI, G. PETRALIA, Roma 2007.
[5] G. DUBY, La storia continua, Milano 1992 [ed. or. 1991], p. 142.
[6] E. GRENDI, Il Cervo e la repubblica. Il modello ligure di antico regime, Torino 1993, pp. 46 e sgg.
[7] A. TORRE, Confrarie e comunità nella Valsesia di antico regime, in Borgofranco di Seso. 1247–1997. I tempi lunghi del territorio medievale di Borgosesia, Atti del convegno (Borgosesia, 7–8 novembre 1997), a cura di G. GANDINO, G. SERGI, F. TONELLA REGIS, Torino–Borgosesia 1999, pp. 81–98.
[8] G. LEVI, I pericoli del geertzismo, «Quaderni storici», XX (1985), pp. 269–277; E. GRENDI, Storia sociale e storia interpretativa, ivi, XXI (1986), pp. 201–210; O. RAGGIO, Culture e conoscenza: contro il relativismo, ivi, XXXV (2000), pp. 257–265; O. RAGGIO, A. TORRE, Prefazione, in E. GRENDI, In altri termini. Etnografia e storia di una società di antico regime, Milano 2004, pp. 5–34, pp. 26–32; Giochi di scala. La microstoria alla prova dell’esperienza, a cura di J. REVEL, Roma 2006 [ed. or. Paris 1996]. Cfr. le obiezioni mosse da R. CHARTIER, Rappresentazione della pratica, pratica della rappresentazione, «Quaderni storici», XXXI (1996), pp. 487–493, ad A. TORRE, Percorsi della pratica. 1966–1995, ivi, XXX (1995), pp. 799–829, nonché il bilancio di R. DESCIMON, Un’esperienza personale nel contesto francese, ivi, XXXIV (1999), pp. 59–64.
[9] Lo spazio politico locale in età medievale, moderna e contemporanea, a cura di R. BORDONE, P. GUGLIELMOTTI, S. LOMBARDINI, A. TORRE, Alessandria 2007; cfr. A. TORRE, La produzione storica dei luoghi, «Quaderni storici», XXXVII (2002), pp. 443–475. È vivo, per contro, un generale dibattito culturale sul «senso del luogo», che verrebbe arricchito da un più organico contributo del sapere storico: cfr. L. BONESIO, Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geofilosofia, Casalecchio 2002. Ho affrontato questi temi in M. DELLA MISERICORDIA, I nodi della rete. Paesaggio, società e istituzioni a Dalegno e in Valcamonica nel tardo medioevo, in La magnifica comunità di Dalegno. Dalle origini all’età napoleonica, a cura di E. BRESSAN, Breno (in corso di stampa), par. III.4; ID., Paesaggio, istituzioni, identità locali di una valle alpina nel tardo medioevo. Elementi per una storia sociale della Valfurva, «Bollettino della Società storica valtellinese», 60 (2007) (in corso di stampa), par. 3.2. V. anche P. GUGLIELMOTTI, Linguaggi del territorio, linguaggi sul territorio: la val Polcevera genovese (secoli X–XIII), in Linguaggi e pratiche del potere, pp. 241–268; F. DEL TREDICI, Loci, comuni, homines. Il linguaggio della bassa pianura milanese nella prima metà del Quattrocento, in Linguaggi politici, pp. 269–292.
[10] V. ad es. A. TORRE, Il discorso popolare: metafora o linguaggio?, «Quaderni storici», XXII (1987), pp. 233–244; R. CHARTIER, La rappresentazione del sociale. Saggi di storia culturale, Torino 1989, pp. 45 e sgg.
[11] Cfr. M. DELLA MISERICORDIA, I confini della solidarietà. Pratiche e istituzioni caritative in Valtellina nel tardo medioevo, in Contado e città in dialogo. Comuni urbani e comunità rurali nella Lombardia medievale, a cura di L. CHIAPPA MAURI, Milano 2003, pp. 411–489, con la relativa bibliografia.
[12] L. CHIAPPA MAURI, Statuti rurali e autonomie locali in Lombardia (XIII–XIV secolo), in Contado e città in dialogo, pp. 227–268. Cfr. Statuti ed ordinamenti di Valchiavenna, a cura di D. ZOIA [Sondrio 1999].
[13] A partire dai lavori in particolare di Paolo Cammarosano e Attilio Bartoli Langeli e dalle ricerche promosse da Hagen Keller, gli studi si sono moltiplicati. Per una sintesi recente, v. I. LAZZARINI, La communication écrite et son rôle dans la société politique de l’Europe méridionale, in Rome et l’État moderne européen: une comparaison typologique (in corso di stampa), anticipato in «Reti medievali». Per lo scorcio del medioevo, meno studiato dell’età comunale, v. EAD., Materiali per una didattica delle scritture pubbliche di cancelleria nell’Italia del Quattrocento, «Scrineum – Rivista» 2 (2004). Nelle opere collettive curate da H. Keller è più volte emerso l’interesse per ciò che qui si affronta nello specifico, v. in particolare J. P. GUMBERT, Zur ‘Typographie’ der geschriebenen Seite, in Pragmatische Schriftlichkeit im Mittelalter. Erscheinungsformen und Entwicklungsstufen, Akten des Internationalen Kolloquiums (17.–19. Mai 1989), a cura di H. KELLER, K. GRUBMÜLLER, N. STAUBACH, München 1992, pp. 283–292.
[14] V. gli spunti già in G. R. CARDONA, I linguaggi del sapere, Roma–Bari 1990, p. 189. Cfr. A. PETRUCCI, Le scritture ultime: ideologia della morte e strategie dello scrivere nella tradizione occidentale, Torino 1995; P. ZUMTHOR, La misura del mondo. La rappresentazione dello spazio nel Medio Evo, Bologna 1995 [ed. or. Paris 1993], pp. 355 e sgg.
[15] Cfr. H. MANIKOWSKA, «Accorr’uomo».Il «popolo» nell’amministrazione della giustizia a Firenze durante il XV secolo, «Ricerche Storiche», XVIII (1988), pp. 523–549; A. BARBERO, La violenza organizzata. L’Abbazia degli Stolti a Torino fra Quattro e Cinquecento, «Bollettino storico–bibliografico subalpino», LXXXVIII (1990), pp. 387–453, pp. 402–403, 420–423; R. BORDONE, Campane, trombe e carrocci nelle città del regno d’Italia durante il medioevo. Il «paesaggio sonoro» delle città italiane nel medioevo, in Information, Kommunikation und Selbstdarstellung im mittelalterlichen Gemeinden, a cura di A. HAVERKAMP, con la collaborazione di E. MULLER–LUCKNER, München 1998, pp. 85–101; M. GENTILE, Fazioni al governo. Politica e società a Parma nella seconda metà del Quattrocento (1449–1484), tesi di dottorato di ricerca, Università degli Studi di Trento, a.a. 1999/2000–2001/2002, tutore G. M. Varanini, pp. 36–37; M. DELLA MISERICORDIA, Decidere e agire in comunità nel XV secolo (un aspetto del dibattito politico nel dominio sforzesco), in Linguaggi politici, pp. 293–380, pp. 294–302.
[16] V. ad es. G. ORTALLI, «...Pingatur in Palatio...». La pittura infamante nei secoli XIII–XVI, Roma 1979; J.–Ph. ANTOINE, Ad perpetuam memoriam. Les nouvelles fonctions de l’image peinte en Italie: 1250–1400, «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen âge», 113 (2001), pp. 541–615, soprattutto pp. 587–615. Per l’edilizia pubblica v., recentemente, P. GUGLIELMOTTI, Sedi e funzioni civili, in Arti e storia nel Medioevo, a cura di G. SERGI, E. CASTELNUOVO, II, Del costruire: tecniche, artisti, artigiani, committenti, Torino 2003, pp. 155–185, pp. 177–185; Les palais dans la ville. Espaces urbains et lieux de la puissance publique dans la Méditerranée médiévale, a cura di P. BOUCHERON, J. CHIFFOLEAU, Lyon 2004, nonché, per l’area lombarda, P. BOUCHERON, Le pouvoir de bâtir. Urbanisme et politique édilitaire à Milan (XIVe–XVe siècles), Rome 1998; ID., L’architettura come linguaggio politico: cenni sul caso lombardo nel secolo XV, in Linguaggi politici, pp. 3–53. Cfr. inoltre DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità, pp. 54–55, 341–350, 487, 611 e la relativa bibliografia, ed ora, per l’area in esame, C. COPES, Il palazzo Balbiani di Chiavenna, Chiavenna 2007.
[17] G. G. FISSORE, Autonomia notarile e organizzazione cancelleresca nel comune di Asti. I modi e le forme dell’intervento notarile nella costituzione del documento comunale, Spoleto 1977; ID., La diplomatica del documento comunale fra notariato e cancelleria. Gli atti del Comune di Asti e la loro collocazione nel quadro dei rapporti fra notai e potere, «Studi medievali», XIX (1978), pp. 211–244; ID., Origini e formazione del documento comunale a Milano, in Atti dell’11° Congresso internazionale di studi sull’alto medioevo, Milano (26–30 ottobre 1987), Spoleto, 1989, pp. 551–588; ID., Le forme extranotarili di autenticazione: considerazioni su radici e modelli di un’area periferica della documentazione nell’Italia settentrionale, in Libri e documenti d’Italia: dai Longobardi alla rinascita delle città, a cura di C. SCALON, Udine 1996, pp. 199–230. Cfr. M. ANSANI, Strategia documentaria e iniziativa politica vescovile a Pavia sullo scorcio dell’XI secolo, «Rendiconti dell’Istituto Lombardo. Accademia di Scienze e Lettere. Classe di Lettere e Scienze Morali e Storiche», CXXXI/1 (1997), pp. 13–46, distribuito anche da «Reti medievali»
[18] Impiegherò nel testo la parola lista non in senso generico, come sinonimo di elenco, ma nel senso ristretto di sequenza di nomi o parole organizzata schematicamente, in una struttura mono, bi– o pluri–colonnare; è una distinzione che mi pare giustificata dal lessico delle fonti, per cui v. pure N. TRANCHEDINI, Vocabolario italiano–latino. Edizione del primo lessico dal volgare. Secolo XV, a cura di F. PELLE, Firenze 2001, p. 98.
[19] C. GEERTZ, Interpretazione di culture, Bologna 1988 [ed. or. New York 1973], p. 257.
[20] Allo scopo di non mettere in campo l’astratta figura del «notaio», in queste pagine ho evocato quando possibile i notai con i loro nomi e cognomi. Per ricostruire il lavoro dei vari professionisti è possibile avvalersi di strumenti utili (gli inventari d’archivio, più o meno recenti, e P. SCARLATA, L’Archivio di Stato di Sondrio ed altre fonti storiche della Provincia, [Sondrio 1968]), ma non sempre affidabili. Mi sono dunque basato anche sulle citazioni e i rinvii interni dei cartulari, sull’analisi della grafia e via dicendo. È bene tenere conto, però, che è ancora da compiere uno studio esaustivo sulle complesse vicende di trasmissione delle imbreviature, durante le quali si sono a volte accorpate e rilegate carte di notai diversi, capace di dirimere pure tutte le attribuzioni incerte, se non erronee, avanzate da chi nei secoli ha curato il loro ordinamento. Cfr. ora anche M. L. MANGINI, Il notariato a Como. «Liber matricule notariorum civitatis et episcopatus Cumarum» (1427–1605), Varese 2007, pp. 109–115; R. PEZZOLA, «Per la bramata unione delle carte spettanti all’Archivio generale». Nascita e primi passi dell’Archivio Notarile di Sondrio (in preparazione). Per quanto riguarda il notariato comasco, v. E. CANOBBIO, «Forenses obtinebunt canonicatus et nullam fatient residentiam». Ricerche sulle istituzioni ecclesiastiche di Como in età sforzesca (1450–1499), tesi di dottorato di ricerca, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, a.a. 1995/1996–1998/1999, coord. G. Andenna, pp. 61–64; M. DELLA MISERICORDIA, L’ordine flessibile. La documentazione della mensa vescovile presso l’Archivio storico della diocesi di Como (prima metà del XV secolo), «Archivio storico della diocesi di Como», 11 (2000), pp. 23–71, pp. 40–41, n. 44.
[21] Sul testo digitale, nelle sue varie tipologie, è disponibile una vastissima bibliografia. Cfr., per il dibattito fra medievisti, P. CORRAO, Un dominio signorile nella Sicilia tardomedievale. I Ventimiglia nel territorio delle Madonie (sec. XIII–XV). Un saggio ipertestuale, «Reti medievali – rivista», II/1 (2001); G. SERGI, La saggistica e le forme del testo, ivi, V/2 (2004).