Presentazione dell’opera

L’autore

Per dare un nome a questo autore si sono cimentati molti storici del passato, ma dai loro studi sono uscite soltanto ipotesi che non trovano però alcun riscontro documentario [1].

Secondo Benedetto Giovio il poeta sarebbe un certo Brunamondo, vissuto nel periodo della guerra dei dieci anni. Questi, dopo la distruzione della città lariana, avrebbe trovato rifugio in Valtellina, a Montagna poco lontano da Sondrio, e lì –sempre secondo il Giovio e alcuni altri storici suoi contemporanei– avrebbe composto un poema elegiaco, da lui stesso chiamato Montano, attraverso il quale nella rievocazione dei lutti e delle sofferenze patiti dalla sua patria intendeva esprimere il suo personale dolore. Ma in seguito lo stesso Benedetto Giovio, nella sua Historia patria, avrebbe preso le distanze da questa suggestiva ipotesi.

Paolo Giovio nella sua Descriptio Larii (Descrizione del Lario) afferma di avere desunto le notizie relative alla guerra dei dieci anni da un manoscritto redatto da un certo Marcus Cumanus (Marco Comasco). Di questo autore, il Giovio attesta anche l’esistenza di altri scritti. Ma si tratta di un altro caso in cui ci è negato qualsiasi riscontro di conferma nelle fonti.

La tradizione popolare a sua volta vorrebbe individuare l’autore del poema epico in un discendente dell’illustre famiglia dei Raimondi.

Sulla questione circa l’identità dell’anonimo poeta sarebbe tornato, nel Settecento, il padre somasco Giuseppe Maria Stampa di Gravedona. Questi è lo storico a cui si deve l’edizione del manoscritto a noi tràdita. Egli, come ricorda nella premessa all’edizione medesima, aveva ritrovato il manoscritto dell’antico poema tra le carte del Collegio di San Pietro in Monforte a Milano.

Unendo la tradizione popolare alle teorie sostenute da Paolo Giovio, lo Stampa formulò una nuova e suggestiva ipotesi: affermò –ma senza documentazione probante– che l’anonimo cumano doveva sicuramente chiamarsi Marco Raimondi.

Il mistero non è ad oggi risolto, se pur risolvibile. Attende comunque ulteriori indagini e approfondimenti esplorativi.

L’autore, nel prologo dell’opera, dichiara esplicitamente di essere stato un testimone diretto degli eventi. Avrebbe narrato quoeque meis oculis vidi potius reserabo (le cose soprattutto riferirò vedute da me medesmo, coi miei occhi stessi, v. 6). Questa affermazione, se verace, consente di fissare delle coordinate cronologiche per la composizione dello scritto. Ed effettivamente anche l’analisi stilistica non smentisce questa collocazione cronologica di contemporaneità agli eventi.



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note

[1] Su questo tema e per dei rimandi bibliografici specifici relativamente alle varie ipotesi formulate, si rimanda a S. MASCIADRI, Quella dannata Isola, quell’amico Barbarossa, Como, New Press, 1996, pp. 81–83.