3. Sulle tracce di una cultura locale della convivenza in comunità

3.3. Mutamento, dissenso, comunicazione

3.3.4. Il mutamento: sei generazioni di una dinastia notarile

Nella vita interna di Morbegno sono più trasparenti che altrove le tracce documentarie di una discussione sulle forme della convivenza, apertasi verso la metà del Trecento e chiusa dalla successiva adozione di soluzioni più stereotipate o condivise; è quindi possibile, in questo caso, attribuire al linguaggio della gerarchia una precisa genesi sociale. Si è già detto della lenta fusione fra gli ordini dei nobili e dei cittadini e del loro inserimento nel comune, accanto ai vicini, nel corso del XIV secolo; a partire dal 1422 e fino al 1447 si verificarono ripetutamente gravi fratture tra i nobili e i vicini; poi si avviò una fase di concentrazione tendenzialmente oligarchica del potere, durante la quale le tensioni non si sopirono, anche se non si manifestarono più nella polarità tra i due ceti. Le divergenze tra nobili e vicini sui modelli della convivenza non si espressero solo nel conflitto politico (con assemblee separate o tramite la bipartizione del governo del comune), ma anche negli elenchi dei convenuti alle assemblee stilati da diversi notai.

L’immagine proposta dai nobili elaborò, in modo variabile nel tempo, il principio della gerarchia. Le trasformazioni della sensibilità e la fedeltà ad una tradizione (di valori e di lavoro) è leggibile nella documentazione prodotta dalle diverse generazioni di una dinastia di notai locali, membri del ceto dei cittadini e poi dei nobili. Da Guidino Castelli d’Argegno, vissuto nella prima metà del Trecento, si originò una discendenza ramificata, che si trasmise la professione, tanto che quando si prendano in considerazione anche i soli notai le cui scritture ci siano giunte, conservate oggi nell’Archivio Notarile dell’Archivio di Stato di Sondrio, è facile enumerare una quindicina di agnati per il periodo che qui interessa [98]. Si tratta, evidentemente, di una vicenda in cui i legami familiari furono tramiti di una posizione sociale e di un sapere tecnico che meriterebbe uno studio analitico, e di cui qui considererò solo alcuni episodi, perlopiù riprendendo quanto detto in diversi punti di questo lavoro.

Guidino, attraverso i suoi documenti, vide le comunità soprattutto alla luce dell’uniformità e dell’indistinzione interna. Nulla, infatti, distingue la rappresentazione delle molte realtà dove lavorò nel giro di un ventennio, lungo un itinerario le cui tappe sembrano le une identiche alle altre: Morbegno (ASSo, AN, 2, f. 205v., 1333.07.19), Cosio (ivi, f. 22r., 1322.10.27), Bema (ivi, f. 198r., 1333.05.03) Ardenno (ivi, f. 342v., 1343.10.18), Rasura (ivi, f. 28v., 1323.04.20), Gerola (ivi, f. 54r., 1326.08.27) e Albaredo (ivi, f. 401v., 1345.12.13). Posto di fronte all’accentuazione delle articolazioni interne alle comunità, egli, piuttosto che elaborare un documento complesso, preferiva stilarne diversi, in cui riferire le azioni e le decisioni di ciascun gruppo a base parentale o vicinale (ASSo, AN, 3, f. 143v., 1346.05.22).

Il figlio Romeriolo, alla metà del XIV secolo, come ho detto, stese documenti unitari, che presentavano l’azione coordinata dei cittadini, dei nobili e dei vicini di Morbegno entro un quadro gerarchico, nominando i tre gruppi nell’ordine in cui li ho ricordati (ASSo, AN, 4, f. 267r., 1343.07.13; ivi, f. 267v.). I documenti relativi a Morbegno, così, per la prima volta venivano a distinguersi nettamente da quelli che lo stesso notaio poteva dedicare ad esempio a Rasura (ivi, f. 234r., 1342.12.10) o a Civo (ASSo, AN, 5, f. 82r., 1346.04.17). Il fratello di Romeriolo, Bertolino, pare già confidare meno in quest’ordine gerarchico della società locale: nei suoi elenchi designò pertanto gli uomini secondo una successione che anteponeva i cittadini ai nobili e questi ultimi ai vicini, ma senza mai collocarli esplicitamente entro quegli involucri, senza cioè nominare mai gli ordini di appartenenza (ASSo, AN, 9, f. 123r., 1343.09.14). Giovannolo, fratello di Romeriolo e Bertolino, nel 1377 fece l’ultimo tentativo noto di esplicita menzione dell’appartenenza cetuale in un documento relativo ad un’assemblea congiunta del comune: non volle o riuscì a menzionare in sequenze compatte e distinte i membri di ciascun ordine, li disperse nel suo elenco, ma fece precedere i nomi dei nobili e dei cittadini, rispettivamente, dalla lettera «n» e «c», l’iniziale che bastava a indicarne l’appartenenza (ASSo, AN, 25, f. 267r., 1377.07.05). Una soluzione così caratterizzata elaborava in modo ormai assai trasparente la diversità della situazione morbegnese rispetto a quella, ad esempio, di Gerola (ivi, f. 293r., 1379.01.25), comunità non distinta fra nobili e vicini, o di Cosio (ivi, f. 263r., 1377.04.16), dove i due ceti tenevano ancora assemblee separate.

Nei decenni seguenti la tripartizione degli ordini cessò di essere una griglia delle identità pubbliche così unanimemente accolta. Le tensioni che però contrapposero i vicini e i nobili, inducendo spesso i membri dei due gruppi a riunirsi separatamente piuttosto che in assemblee comuni, non costrinsero i notai che stilavano i relativi documenti a pensare nuove rappresentazioni delle identità sociali. Ad Alberto detto Bertolino fu Romeriolo bastò riferire il verbale ad una «congregatio vicinorum» (ASSo, AN, 36, f. 603r., 1428.04.01), a suo figlio Giacomo a quella dei nobili. In questa seconda occasione, però, il notaio cominciò ad esplorare le potenzialità di un contrassegno di status diverso dall’ordine di appartenenza, ma altrettanto efficace: il distintivo individuale di dignità. Si trattava di un’opzione ancora meramente testuale, perché il notaio non stese una lista, ma un elenco molto denso. In ogni caso vi concentrò tutti i titolati in apertura e interruppe la sequenza esclusivamente per accostare tre fratelli, dei quali solo il primo portava il titolo di ser (ASSo, AN, 73, f. 256r., 1425.01.08). Giacomo, inoltre, proseguì pure la ricerca degli avi circa la rappresentazione della diversità fra le esperienze locali che fu chiamato a documentare: il paradigma gerarchico applicato a Morbegno sarebbe risultato ormai incompatibile con le configurazioni sociali che riconosceva e promuoveva a Rasura, comunità divisa fra agnazioni (ASSo, AN, 71, f. 388r., 1417.01.02), o Cosio, articolata fra squadre a carattere territoriale e parentale (ivi, f. 348r., 1416.03.25).

Guidosio, figlio di Giacomo, sviluppò l’intuizione del padre circa la graduatoria dei titoli di dignità, introducendo però due significative novità: fece uscire tale principio d’ordine dal solo mondo della nobiltà locale, per applicarlo all’intera comunità di Morbegno, e lo rese più eloquente da un punto di vista grafico, grazie al ricorso alla lista scandita dalle qualifiche di spectabilis miles, dominus, ser (ASSo, AN, 171, f. 41r., 1456.02.29; ivi, f. 41v.). Francesco (ASSo, AN, 380, f. 230r., 1496.01.06) e Nicola (ASSo, AN, 497, f. 398r., 1502.01.23), figli di Guidosio, sperimentarono le ulteriori potenzialità della lista gerarchicamente ordinata. Il padre, infatti, l’aveva impiegata per rendere trasparente l’eccellenza perlopiù, anche se non esclusivamente, degli esponenti di antiche parentele nobili del comune, i due figli per sancire il successo di uomini di estrazione vicinale o di origine forestiera che, grazie al denaro accumulato o alla professione esercitata (come quella di medico o di notaio) rivendicavano ormai l’aggregazione a pieno titolo al gruppo dirigente locale e la prima menzione nell’elenco.

Insomma, sei generazioni di una parentela di estrazione cittadina, poi aggregata alla nobiltà di Morbegno, i cui membri operarono come notai, si distinsero per la capacità di immaginare strumenti testuali e grafici utili ad esprimere la distinzione sociale, come tratto caratterizzante di una terra che nel corso dei decenni acquistò, almeno nelle loro carte, una fisionomia inconfondibile con quella delle vicine. I suoi membri si sentivano eredi di una lunga tradizione familiare: Francesco, esponente dell’ultima generazione fra quelle che abbiamo seguito, nel 1501 intestò il proprio quaderno di imbreviature ricordando i suoi antenati fino alla settima generazione, risalendo cioè sino a Guidone, avo di Guidino [99]. Tale consapevolezza era alimentata direttamente dalla trasmissione di padre in figlio dei cartulari, sulle cui pagine avveniva il confronto tra le generazioni. Nel 1454 Giacomo aveva fra le mani i libri di Bertolino fu Guidino, fratello di suo nonno Romeriolo, che mostrava di conoscere nel dettaglio del numero delle carte e sui quali ipotizzava anche le fasi di lavoro dell’antenato, che ad esempio aveva lasciato molti fogli bianchi perché, per il troppo lavoro e il sopraggiungere della morte, non vi aveva potuto trascrivere alcune imbreviature, restate nel solo protocollo. Alla fine del Cinquecento Gian Pietro Castelli d’Argegno, redigendo in pubblica forma un livello imbreviato nel 1424 da Bertolino fu Romeriolo esplicitava nella nota marginale non solo l’incarico ufficiale con cui lavorava sulle imbreviature di cui era consegnatario, ma il rapporto di consanguineità («quintus nepos descendens presentis domini Bertolini notarii»), facendo quindi di quel breve appunto di lavoro pure la circostanza per affermare la continuità agnatizia lungo sette generazioni [100].

Si può allora ritenere che il complesso di queste scritture venisse avvertito come parte del patrimonio avito, suggerendo anche atteggiamenti di fedeltà verso una tradizione di sperimentazioni grafiche e di tematizzazione dell’eccellenza locale. I notai Castelli d’Argegno non ricalcarono però le orme di chi li aveva preceduti in modo pedissequo; interpretarono invece in modo meditato i mutamenti in corso e aggiornarono i segnali di distinzione che impiegavano nei loro documenti, ad esempio quando a Morbegno l’eminenza sociale divenne un attributo individuale più che di gruppo, come la preminenza riconosciuta entro un continuum comunitario piuttosto che l’ascrizione a un ordine privilegiato. Essi, evidentemente, tutti uomini di spicco nella conduzione degli affari pubblici della comunità, percepirono le trasformazioni di una società alla cui guida ci si poteva imporre in un primo momento come membri del ceto dei cittadini o dei nobili, in seguito come esponenti di un’élite porosa, che assimilava facilmente immigrati ricchi, dotati di saperi ricercati, vicini di successo e via dicendo, mettendosi alla ricerca, si direbbe, della sintesi fra le sfide del mutamento e gli ideali aristocratici della loro tradizione di famiglia.


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note

[98] SCARLATA, L’Archivio di Stato di Sondrio, p. 140, nonché l’Inventario 7, pp. 19–21 (presso l’archivio).

[99] ASSo, AN, 382, f. 378r., 1501.

[100] ASSo, AN, 9, f. 265v., 1454.11.04; 36, f. 463r., 1590.07.28. Cfr. ivi, f. 577v., 1594.02.27, dove Gian Pietro si dice «super eius [d. Bertolini] breviaturis laudatus».