Milano, Associazione Teregua, 2011. |
«Fra la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna in molte terre della diocesi di Como si verificò una fioritura di nuove chiese, volute dalla popolazione di piccole contrade, che andarono ad arricchire la rete di edifici sacri già esistenti nei luoghi più popolosi. In questo senso si mossero i vicini di un centro alpino che poteva contare allora una decina circa di famiglie, Teregua...». Con queste parole inizia l’ottimo e documentatissimo saggio di Massimo Della Misericordia, che apre il libro pubblicato dall’Associazione Teregua per ricordare le vicende vissute nei secoli da questa piccola chiesa della Valfurva fino all’attuale restauro filologico e conservativo della struttura, degli affreschi e degli arredi, grazie alla fattiva volontà di un gruppo di privati cittadini. Questi, costituitisi in Associazione nel 2005, si sono resi protagonisti di iniziative di conoscenza, sensibilizzazione e valorizzazione, fino a catalizzare l’attenzione del FAI, Fondo Ambiente Italiano, nel secondo censimento nazionale de I Luoghi del Cuore, promosso dallo stesso ente, e a ottenere un primo contributo, mediante Intesa San Paolo; a questo ne sono seguiti altri, dalla Regione Lombardia, dal Ministero delle Finanze, dalla Fondazione Credito Valtellinese, dalla Comunità Montana Alta Valtellina e da privati che hanno fornito materiali e interventi a titolo gratuito. In tal modo nel 2007 hanno preso il via i lavori di restauro che si sono conclusi a metà luglio 2009; il 29 agosto è avvenuta l’inaugurazione ufficiale con la celebrazione eucaristica presieduta dal vicario episcopale mons. Battista Galli, presenti oltre trecento persone. Questa in sintesi la storia recente del monumento.
Ora, nel libro edito dall’Associazione Teregua una serie di saggi racconta La chiesa della Santissima Trinità di Teregua in Valfurva – Storia, arte, devozione, restauro. Nel primo, cui già si è accennato, Le origini di una chiesa di contrada: devozione e identità locale, M. Della Misericordia ne ripercorre le vicende attraverso la scarsa documentazione giunta a noi delle origini del tempio e degli anni immediatamente successivi: «le fonti notarili e comunali concentrate nel terzo decennio del Cinquecento, le testimonianze iconografiche, considerate... come documenti della devozione e dell’identità locale dei fondatori, ..., nonché scritture pubbliche e private utili a delineare» (il) «contesto …». Veniamo così a sapere che la prima menzione della chiesa, l’11 settembre 1520, «si riferisce in realtà ad un semplice progetto di possibile realizzazione»; che si è trattato di una costruzione ex novo iniziata entro novembre 1521 e prolungatasi per anni e che solo la data "IULII (luglio) 1546" nel cartiglio di una decorazione absidale attesta il compimento dell’impresa.
Uno dei maggiori meriti di questo studio è aver letto i documenti disponibili in loco, senza mai perdere di vista il tessuto di relazioni in cui la piccola contrada era inserita, illuminando così «i molti attori che hanno concorso alla realizzazione della chiesa: gli individui che l’hanno appoggiata economicamente, l’uomo che, residente nel villaggio, ha costituito il primo punto di riferimento per lo sviluppo del progetto, la contrada, la Vallata, il comune». Non meno importante, perché apre nuovi orizzonti di ricerca, è l’intuizione che, accanto a «l’indubbia vitalità delle micro–identità e delle rivalità che queste ultime alimentavano», va indagata e apprezzata «la disponibilità della popolazione a riconoscersi nelle complesse organizzazioni territoriali entro le quali fluiva l’esistenza».
L’intitolazione alla Trinità, culto che all’epoca ebbe notevole diffusione in tutta la diocesi di Como come mostrano le chiese e le cappelle «da un capo all’altro della Valtellina», si rende evidente negli affreschi secondo il modulo del Trono di Grazia, sia nella lunetta del portale, sia nella parete di fondo dell’abside, sia – pur con differente disposizione della Terza Persona – nell’ancona. In queste pagine l’autore descrive il programma iconografico con non comune sensibilità e capacità di interpretazione: non trascura i raffronti possibili sul territorio, approfondisce le varianti dell’iconografia e del culto trinitario, nonché il significato augurale ad esso connesso nell’ambiente rurale, senza peraltro passare sotto silenzio neppure l’esigenza di molti laici «di un chiarimento teologico in un’età di profonda trasformazione della religiosità», a cui appunto anche il ciclo degli affreschi di Teregua tenta di rispondere. Da ultimo, non è certamente secondaria l’affermazione dell’esistenza di rapporti di analogia e di reciproco condizionamento fra la dimensione religiosa e quella profana: in risposta al bisogno di comporre nella vita quotidiana la pluralità nell’unità, sempre a rischio a causa delle travagliate trasformazioni politiche del periodo e per il dramma della lacerazione della Riforma, ecco che per «tenere sotto controllo l’inquietudine della «confusione»» bene poteva servire anche «uno schema limpido come il Trono di Grazia, tre volte ripetuto a Teregua».
Nel secondo saggio Cecilia Ghibaudi, funzionario e storico dell’arte della Soprintendenza ai Beni Culturali, legge criticamente gli affreschi e l’ancona lignea. Dei primi, che decorano il presbiterio «di compettenti imagini, pitture e fiori» e dell’ancona «di legno indorata, sebbene all’antica lavorata», il prevosto G. B. Sartori tramanda nel 1781 un’accurata descrizione. Già sappiamo della Trinità–Trono di Gloria sopra il portale e sulla parete absidale, dove, nel registro inferiore, a sinistra è la Madonna del latte, a destra il Cristo in pietà; nella lunetta della parete laterale nord sono raffigurate la Madonna col Bambino e le ss. Barbara e Caterina d’Alessandria; nel registro inferiore s. Giorgio e il drago, mentre sulla parete sud i ss. Rocco e Antonio abate e in alto si apre una finestra. Sulla volta dell’abside troviamo i quattro evangelisti con i loro simboli e nell’intradosso dell’arco trionfale, entro riquadri, i santi radicati nel culto locale: Lucia, Apollonia, Agata, Agnese, Abbondio e Nicola. Solo in anni recenti, «sulla base del confronto con i cicli bormini …, Simonetta Coppa identificò il pittore col nome di» Maestro di Santa Lucia, «riconosciuto poi da Battista Leoni come Vincenzo De Barberis». Il restauro delle pitture – «conservate ad onta del fuoco, del tempo e degl’incendi dei soldati Alemani» (Sartori) – si deve a Marco Illini ed Enrica de Rocco sotto la direzione della stessa Ghibaudi: l’intervento ha dovuto fare i conti con i gravi danni delle infiltrazioni d’acqua e con le pesanti ridipinture, soprattutto del ‘900, ma, alla fine, ha consentito di rivelare l’alto livello dell’ultimo De Barberis, che qui ha riportato «le istanze rinascimentali di ambito milanese dello Zenale e del Luini».
L’ancona lignea – «auro et coloribus ornata» della seconda metà del XVI sec., con le statue del Padre Eterno, di Gesù crocifisso e dello Spirito Santo, della Madonna col Bambino, dei ss. Nicola, Antonio abate, Protasio e Gervasio, è da attribuire a due maestri valtellinesi, il primo «più esperto ed abile» del secondo – è stata restaurata da Maria Paola Gusmeroli, che – per quanto possibile – ha riportato il prezioso manufatto alle condizioni primitive. Qui lascio al lettore di cogliere altri aspetti e richiami artistici, per riprendere ancora un’importante riflessione dal saggio del Della Misericordia a proposito del ciclo pittorico e della stessa ancona: la Trinità, dipinta e scolpita come Trono di Grazia, includendo il Figlio in quanto crocifisso, viene associata alla sua sofferenza, connessione ripresa nell’Imago pietatis, dove il volto di Cristo ha fattezze pressoché identiche. Allo stesso disegno teologico obbedisce, nell’ancona, Gesù Bambino che, tra le braccia di Maria, è supino come nel sepolcro. Un’iscrizione coeva sulla parete del presbiterio sintetizza il significato salvifico di tale ripetuta scelta iconografica: «Omnis salus hominum in Christi morte possita est». Questa lettura ci restituisce l’unitarietà teologica del programma iconografico della chiesa.
Nelle pagine successive Guido Scaramellini traccia la storia de La campana francese di Teregua; l’architetto Stefano Tirinzoni illustra le ragioni delle scelte per Il progetto e il cantiere del restauro architettonico, mentre nelle due successive relazioni i restauratori degli affreschi e dell’ancona ripercorrono i vari momenti, esponendo i criteri e le modalità del loro lavoro, nonché i limiti e i risultati; Mauro Bernabei relaziona sui risultati dell’analisi per il riconoscimento del legno dell’ancona, concludendo che è stato adoperato unicamente pino cembro (cirmolo); del restauro della cassettiera da sacrestia, essa pure di cirmolo, parlano i restauratori Marco Bertalli e Giorgio Pozzi. Concludono il volume un’Appendice documentaria con la trascrizione della prefazione e dei capitoli 1–6 del documento del Sartori; la cronaca degli ultimi avvenimenti, Una vicenda a lieto fine, dove il presidente dell’Associazione Elio Bertolina dà conto di come l’associazionismo si sia dimostrato lo strumento decisivo per responsabilizzare persone ed enti a salvare questa importante testimonianza di arte, storia e cultura locale; da ultimo, la ricca Bibliografia offre agli studiosi l’opportunità per ulteriori ricerche e acquisizioni.
Pierangelo Melgara
Data di pubblicazione il 12 novembre 2011.